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     Dio dei miei
    poveri giorni

    Karl Rahner

     

    La povertà della mia vita quotidiana voglio portarti dinanzi, Signore, e la mortale monotonia delle mie abitudini; lunghe ore, lunghi giorni, pieni di tutto fuorché di te. Guarda, Dio mite che dell'uomo hai compassione, dell'uomo che è tutto in questa povertà; guarda la mia anima, che l'infinita sagra di questo mondo consuma quasi per intero, nella sua ridda di inezie senza numero, nelle chiacchiere, nelle curiosità, nel vuoto delle sue faccende e del suo darsi importanza.

    Non è la mia anima, davanti a te, verità intemerata, come una piazza dove dai quattro venti tutti i rivenduglioli si danno convegno per far mercato delle povere ricchezze di questo mondo; dove esponiamo, io e gli altri, le nostre futilità in perpetua insipiente inquietudine?

    È proprio dell'anima essere in qualche modo `tutto', ho imparato molti anni fa, da 'filosofo'. O mio Dio, quanto diversa esperienza ho dovuto fare di questa verità, da quello che allora pensavo e sognavo! Un enorme magazzino è diventata la mia anima, in cui, alla rinfusa, si ammassa 'tutto', giorno su giorno, fino a stiparlo fino al tetto.

    Quale sarà la mia fine, mio Dio, se la mia vita continua così? L'ora che, improvvisa, spazzerà dalla mia anima tutte le futilità che la hanno ingombrata, l'ora della mia morte, come sarà, Signore? Nulla di quanto riempie la mia vita quotidiana, nulla mi resterà in quell'improvviso totale abbandono. Ma che sarò io allora, Signore, che sarò io quando non mi resterà che me stesso, a me che tutta una vita sono stato vanità, cioè chiasso e chiacchiere e affaccendarmi, e, in fondo, sempre desolazione e squallore? Quando la pressione e la violenza della Morte finirà di esprimere, inesorabile, dai giorni della mia vita, dai miei lunghi anni, il loro vero contenuto, che sarà allora, Signore? Se tu m'hai usato misericordia, mio Dio, qualche raro minuto si salverà forse nella grande delusione che sopravverrà all'illusione dei miei giorni perduti; pochi momenti nei quali la grazia del tuo amore s'è insinuata in un angoli.) del mio cuore, accanto alle infinite futilità che hanno ingombrato i giorni della mia vita.

    Ma chi mi darà di evadere dalla miseria delle mie vane sollecitudini, di rivolgere la mia anima all'uno necessario che sei tu? Come fuggire alla forza delle mie abitudini quotidiane? Non sei stato tu che mi hai soggettato al loro ricorso mortificante? Non ero già perduto e sommerso nella vanità di questo mondo, quando ho cominciato la prima volta a intravvedere in te il vero senso di questa mia vita che non potevo abbandonare così alla giostra delle mie abitudini?

    Non sei tu che m'hai fatto uomo? Questo essere insoddisfatto, che, nella brama della tua infinità, cammina e cammina incontro alle tue stelle; e s'affanna su tutte le vie della terra e in capo a tutte le vie della terra, ecco, le tue stelle brillano mute sempre ugualmente lontane.

    E, vedi Signore, se io volessi fuggire la povertà della mia vita ordinaria, se volessi farmi certosino per dover restare sempre, in silenzio e adorazione, alla tua santa presenza, mi sarei con questo sottratto davvero al ricorso della abitudine? Se penso alle ore che passo al tuo altare, o a recitare la preghiera della tua Chiesa, allora io comprendo: non le occupazioni mondane rendono monotoni e vani i miei giorni; io sono che ho il potere di trasformare le azioni più sante in meccanica, grigia ripetizione; io svuoto i miei giorni, non i miei giorni me.

    Io lo vedo perciò, che se una via c'è che a te mi possa condurre, essa passa attraverso la povertà della mia vita quotidiana; altra via per rifugiarmi in te non potrei trovare che lasciarído indietro me stesso nella mia fuga. Ma si può mai giungere a te attraverso questa povertà? Non mena lontano da te questa via, giù sempre verso il vuoto e il chiasso delle mie faccende, nelle quali tu non abiti, tu Dio della quiete? So bene che l'agitazione molteplice, che a uno riempie la vita e il cuore, finisce poi nella sazietà; che il « taedium vitae » dei filosofi, la sazietà di vivere, l'ultima esperienza della vita dei patriarchi, come mi narra la tua parola, sarà sempre più anche la mia sorte. Sì, questa mia vita quotidiana si converte al fine nella grande melanconia della vita. Ma non la fanno anche i pagani questa esperienza? Sono con ciò arrivato vicino a te, solo che la mia vita mostri al fine il suo vero volto, solo che io rinnovi l'esperienza del tuo savio e confessi che tutto è vanità e afflizione di spirito? E così, in tanta semplicità, che la mia vita ordinaria è una via verso di te? O non è piuttosto questa l'ultima vittoria della vanità, quando il cuore è al fine esausto e insignificanti sono anche gli interessi consueti della vita, quelli che, così familiarmente, solevano distrarre l'uomo dalla noia, dallo squallore che gli occupava l'anima. È più vicina a te la stanchezza delusa che la fresca gioia di vivere? E dove ti si troverà, Signore, se le voglie che riempiono i miei giorni ti fanno dimenticare e la disillusione non t'ha ancora trovato, anzi affligge il cuore e lo rende anche più inadatto al tuo incontro?

    Mio Dio, se in tutto ti posso perdere, se né preghiera, né sacre solennità, né quiete di chiostro, se neppure la finale delusione basta a escludere questo pericolo, allora anche tutto quanto c'è di santo, quanto sembra elevarsi sopra la vanità della mia monotona vita, ricade nella Vanità. Sì, vanità non è una parte della mia vita, la più lunga, fosse pure; ma quanto è lunga la vita, tanto c'è in essa di vanità; tutto è vanità, che mi nasconde e mi toglie quello di cui ho bisogno: te, mio Dio.

    Ma pure se non c'è luogo dove io debba andare per averti trovato, se tutto può essere la perdita di te, dell'Unico, allora devo anche poterti trovare in tutto; ché se no non ti potrebbe affatto trovare l'uomo che senza di te non può essere. Bisogna allora che ti cerchi in tutto, ché ogni creatura è vanità, e ogni creatura è un incontro con te, l'ora della tua grazia. Tutto ti nasconde e tutto ti rivela. Io comprendo ancora quello che da tempo sapevo; ora mi rivive in cuore quello che m'ha spesso ripetuto la mia mente. Ma a che serve la verità della mente che non diventa vita del cuore?

    Mi devo ancora una volta rileggere quella pagina che ho trascritto tanti anni fa da Giovanni Ruysbroeck: il mio cuore la comprende ancora una volta. Mi consolo sempre a rileggere come questo uomo interiore concepiva la sua vita. E l'amore che ritrovo in me per queste parole, anche in tanta povertà della mia vita, è come una promessa che tu vorrai un giorno benedire anche la mia povertà. « Dio viene senza posa in noi, attraverso le cose e senza le cose, e vuole da noi quiete amorosa e lavoro, e che l'uno non impedisca l'altra, ma si fortifichino sempre a vicenda. L'uomo interiore perciò possiede la sua vita in queste due maniere, nella quiete e nel lavoro. E in ciascuna di esse egli è intero e indiviso. Egli è tutto in Dio, godendo la sua quiete, ed è tutto in se stesso, rimanendo attivo in amore. E costantemente riceve egli da Dio il monito e l'incitamento a rinnovare l'una e l'altro: la quiete e l'amore. L'uomo dunque è giusto ed in cammino verso Dio mediante interiore dilezione e costante operare; ed entra in Dio mediante la dilezione fruitiva in pace eterna. Rimane in Dio ed esce tuttavia su tutte le creature, in amore aperto a tutto, in virtù e giustizia. E questo è il grado supremo della vita interiore. Tutti coloro che non possiedono «ad un tempo» quiete e lavoro, non hanno raggiunto questa giustizia. Ma quel giusto non può essere impedito nella sua vita interiore, poiché e la quiete e l'operare ve lo riconducono. Egli è piuttosto simile a un doppio specchio, che riflette da ambedue le facce. Ché nella parte superiore del suo spirito l'uomo rispecchia e riceve Dio con tutti i suoi doni, e nella parte inferiore riceve, attraverso i sensi, le immagini corporee... ».

    «Ad un tempo» devo essere nella povertà delle cose e nella tua verità. Uscendo nel mondo, -rientrare presso di te, possedere in tutto te, l'Unico. Ma come fanno le cose a diventare la tua verità? È solo opera tua, Signore. Solo tu puoi fare di me un uomo 'interiore' nella molteplicità delle occupazioni di ogni giorno. Solo tu mi puoi mantenere, nel mio intimo, vicino a te, quando io esco quasi da me per essere con le cose. Non l'angoscia, né il nulla, né la morte mi liberano dalla dispersione sulle cose del mondo, come van dicendo oggi i filosofi; ma solo il tuo amore, l'amore per te, tu che sei di tutte le cose fine e attrattiva, tu beatitudine che sola basti a te stessa. Il tuo amore, mio Dio infinito, l'amore per te, che si protende oltre attraverso le creature, attraverso il loro cuore, fin nella tua lontananza infinita, e tutte queste perdute creature le solleva con sé, come un coro di lodi alla tua infinità. Davanti a te diventa uno ogni molteplicità; ogni dissipazione si raccoglie in te; ogni esteriorità ritorna alla sua interiorità nel tuo amore. Nel tuo amore ogni uscire sulle cose diventa un ritorno nella tua unità, che è la vita eterna. Ma tu solo mi puoi donare questo amore, che lascia alla vita quotidiana la sua povertà, e la converte tuttavia in vita di incontro con te.

    Che mi resta più da dirti, Signore, ora che mi presento così a te nella povertà mia quotidiana? Solo una timida invocazione ancora: il tuo amore, mio Dio, il dono che tu sempre dispensi, il sommo dei tuoi doni. Tocca il mi;-) cuore con la tua grazia. Quando, nella gioia o nel dolore, tratto le cose di questo mondo, fa che, attraverso ad esse, giunga all'amore e al contatto con te, che di tutte le cose sei l'unico primordiale principio. Tu che sei l'amore, dammi l'amore, donami te stesso, perché tutti i miei giorni sfocino finalmente nell'unico giorno, che è la tua vita eterna.

    (Tu sei silenzio, Queriniana 1998, pp. 47-54)


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