Il tabernacolo vuoto
A partire da quella purificazione dei sensi e dell'anima con cui la depressione si era intrecciata a tal punto che risultavano inscindibili l'una dall'altra, il mio pregare non solo divenne freddo e rapido, bensì direttamente gelido e fastidioso. Continuo a non capire cosa mi spingesse a entrare nell'oratorio, poiché ero consapevole di quanto fosse vuoto il tabernacolo e, in fondo, della misteriosa assenza del mio Dio.
Quel tabernacolo vuoto – ancora adesso l'ho davanti agli occhi – mi rispecchiava perfettamente: perché anch'io ero vuoto e cavo, senza una voce capace di risuonare dentro di me, senza Dio. Ogni uomo dovrebbe sentirsi almeno una volta come un tabernacolo vuoto: in grado di contenere quanto vi è di meglio, eppure privato di ciò che si ama ed è sacro. Quando un uomo si sente a tal punto abbandonato, rimpiange persino le voci sgradevoli e le presenze che gli hanno arrecato danno. L'umanità è disposta a tutto pur di evitare la solitudine. Preferiamo riempirci di spazzatura piuttosto che essere vuoti. Il nulla ci terrorizza. Come sgomenta constatare il vuoto che siamo! Come spaventa rendersi conto di vivere nelle case, sì, ma non all'interno delle pareti, bensì nello spazio vuoto tra una parete e l'altra! Viviamo nel vuoto, ecco la casa, la nostra casa. E facciamo di tutto pur di evitare questa tremenda certezza! C'è qualcosa dentro di noi che non vogliamo riecheggi, e se lo fa, fuggiamo impauriti. Eppure nel mondo non vi è niente di più necessario di quel suono. Ah, il nulla! Non so cosa sia, ma bisogna essere nulla perché Dio possa entrare nel cuore. La solitudine e il silenzio sono i campi in cui si tempra la fede e, direi di più, il silenzio e la solitudine sono i campi in cui si tempra ciò che chiamiamo essere umano.
Ma tutti questi pensieri sono venuti dopo, quando il tabernacolo è tornato a riempirsi. Mai mentre era vuoto; d'altronde il vuoto è, appunto, mancanza di idee, di sentimenti, mancanza persino dell'idea di vuoto, poiché anche lì potremmo trovare un po' di conforto. Nel vuoto di cui parlo, non servono i consigli o le esperienze di chi ci ha preceduto. Uno sente che il vuoto altrui non può illuminare il suo.
Nessun tabernacolo in cui sia presente il Pane della Vita può essere apprezzato in tutta la sua portata se prima non è rimasto a lungo desolatamente vuoto. Nel Sahara, avendo dovuto vivere molti anni senza eucaristia, presi l'abitudine di vagare attorno a quel tabernacolo vuoto: lo toccavo, come se toccandolo potessi alleviarne la vuotezza; immaginavo cosa sarebbe successo quando Dio sarebbe stato al suo interno e anch'io sarei stato lì dentro con Lui. Perché il digiuno dell'eucaristia – per chi ne ha scoperto il valore – è più doloroso di qualsiasi altro digiuno corporale. Qualsiasi digiuno del corpo serve solo a preparare quelli della mente e dello spirito, molto più duri. E così, grazie al mio camminare nell'oratorio, arrivò il momento in cui non solo amai il Santissimo, ma anche il tabernacolo che lo conteneva. E l'amai non solo perché lo conteneva, bensì per quello che era: un recipiente destinato a contenere il Signore, lo contenesse o meno.
Il mio tabernacolo vuoto! Quante notti ho passato al suo fianco senza provare nulla, senza pregare! Chi mi manteneva lì, Dio mio, se non Tu? Chi se non Tu abitavi l'eremo persino in Tua assenza! Adesso amo e rispetto i tabernacoli vuoti tanto quanto quelli pieni. Adesso so che il vuoto è la promessa di una presenza: lo spazio più puro, il meno profanato, la possibilità più assoluta, il filo sottilissimo – invisibile – su cui lo Spirito di Dio transita in questo mondo come un equilibrista. Dio è sempre un equilibrista nella coscienza di chi crede: un Dio che sta per precipitare, un Dio che cade o è già nell'abisso, e chissà come tende quel filo – ancora invisibile – da un capo all'altro. Ma non ci sono capi nell'invisibilità, questo è il dramma. Non c'è una meta né un cammino: solo il nulla. «Vieni senza nulla» mi avevi detto. Forse mi volevi così: senza fede, senza un 'io'?
Di fronte a quel tabernacolo vuoto – e sino a che punto lo ero stato – compresi uno dei misteri più insondabili del cristianesimo: così come Dio ha creato il mondo dal nulla, a quanto dicono le Sacre Scritture, allo stesso modo – dal nulla – crea ogni singola anima che si lascia lavorare e plasmare da Lui. Il nulla è necessario alla creazione. Il nulla è il nocciolo dell'esperienza mistica perché (il) nulla è Dio.
Inoltre, dopotutto, anche il deserto non era forse un grande ciborio vuoto? Il tabernacolo davanti a cui mi prostravo nella mia cella era il perfetto simbolo di quanto mi attendeva all'esterno. Ma se il mondo e il tabernacolo erano così vuoti, non significava quindi che lo spazio prediletto dal mio Dio era proprio il nulla? Non sarà Dio il nome, più elevato e pregnante, che diamo all'assenza? Il grande mistero di Dio è la sua assenza. Non è possibile arrivare alla fede senza percorrere il cammino dell'ateismo, senza soccombere a quella tentazione.
Quanto più vicino sono stato a Dio, meno l'ho compreso. Probabilmente perché Dio somiglia troppo agli uomini e molto poco a se stesso. Non capire Dio è la migliore garanzia di una religiosità autentica. Capirlo, invece, o credere di capirlo, è il sintomo più evidente dell'aver intrapreso un cammino sbagliato.
Preghiera dell'abbandono
In quelle notti eterne di fronte al tabernacolo vuoto ero come una barchetta nell'oceano. Il timone era troppo piccolo e soffrivo la fame, la sete, il freddo e l'abbandono. Non sapevo dove stavo andando, e questo mi spingeva a pensare a tante altre barchette che, forse come la mia, navigavano smarrite nello stesso oceano e nel medesimo istante. Inviavo un pensiero carico di bontà ai loro marinai, con quel senso di fratellanza che mi univa a tutti i solitari. Non sapevo cosa mi emozionasse di più: se la vastità dell'oceano come raffigurazione di Dio oppure l'insignificanza del mio timone, simbolo perfetto dello strumento con cui volevo dirigermi verso di Lui.
Altre volte immaginavo di trovarmi in alto mare, sì, ma senza nemmeno un timone. Oppure in alto mare senza barchetta. O persino in alto mare senza mare: solo io e magari – chi poteva saperlo? – Dio. Non potevo nuotare perché non c'era mare. Era impossibile raggiungere una qualsiasi riva perché – ripeto – non c'era mare. Non potevo nemmeno affogare, non avevo neanche quella consolazione. Potevo solo stare lì, essere. Questo è pregare? mi domandavo allora. A cosa mi serve approdare in un porto se non c'è un porto? Vale la pena sopravvivere al naufragio in queste condizioni? Ero come un naufrago che, dopo mesi in balia delle onde, arriva su un'isola deserta. Ero come un naufrago che non prova sollievo nemmeno una volta in salvo. Ero come un uomo per cui non c'è nessuna differenza tra vivere e morire.
Ma quello che scrivo qui, al pari di quanto scritto in precedenza riguardo al tabernacolo e, ancor prima, alla depressione in cui ero caduto, sono solo parole. L'esperienza reale ebbe luogo senza il loro conforto, senza la poesia che racchiudono o si immagina racchiudano quando le si ascolta. Ah! Se nella desolazione avessi trovato almeno un grammo di poesia! Ma quell'esperienza non portava con sé nemmeno la parola 'silenzio', che tanto mi avrebbe consolato. Proprio per tale motivo, in quella tappa della mia vita di preghiera, non avevo una bussola. Conoscere l'ignoranza è pur tuttavia una forma di conoscenza, e io ero immerso in un’ignoranza che addirittura ignorava se stessa.
Nel vuoto della notte spirituale, tutto è possibile. E in quella possibilità allo stato puro, senza forma, Dio si muove a suo agio e fa di noi ciò che non gli abbiamo permesso di fare alla luce del giorno. Il conforto nelle tenebre è incomparabilmente più bello e necessario rispetto a quello che ci sorprende in piena luce. Adesso chiedo al cielo di camminare sempre avvolto dall'oscurità; chiedo che mi venga negata la coscienza della grazia. Trasmetto qui la mia testimonianza di essere giunto a tal punto così come l'ho raccontato, e scrivo nero su bianco che si può arrivare sino a questa meta solo attraverso la perdita di se stessi e l'oblio di sé. Preparai un pacchetto con la mia vita, se una cosa del genere è possibile; lo avvolsi nella carta da regalo e lo tesi a Dio, con la speranza che Lui lo prendesse.
«Padre» gli dissi «mi affido alle Tue mani. Fa' di me ciò che ti piace, qualunque cosa tu faccia ti ringrazio. Accetto tutto. La Tua volontà si compia in me, in tutte le Tue creature. Non desidero altro, Padre» insistetti. «Affido l'anima mia nelle tue mani; te la dono con tutto l'amore di cui sono capace, perché vorrei donarmi, pormi nelle Tue mani, senza riserve, con infinita fiducia, perché Tu sei mio Padre». Non so se Lui avesse ascoltato questa preghiera. Non sapere: a volte penso che questo sia il maggior frutto del silenzio e la verità più alta. Ma questo non sapere è piuttosto un sapere senza pensare. E così come il non poter pensare è indice di debolezza, il poter non pensare è, di sicuro, un punto di forza.
(Pablo d'Ors, L'oblio di sé. Un'avventura cristiana (Diario in prima persona di Charles de Foucauld), Vita e Pensiero 2016, pp. 264-270)