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    Com’è possibile invocare

    Dio come «Padre»? 

    Commento al Compendio del Catechismo /42

    Enzo Bianchi


    Possiamo invocare il “Padre” perché il Figlio di Dio fatto uomo ce lo ha rivelato e il suo Spirito ce lo fa conoscere. L’invocazione del Padre ci fa entrare nel suo mistero con uno stupore sempre nuovo, e suscita in noi il desiderio di un comportamento filiale. Con la preghiera del Signore siamo quindi consapevoli di essere figli del Padre nel Figlio.

    (Compendio del Catechismo n. 583) 

    La preghiera del Signore si apre con il vocativo “Padre” (Lc 11,2) o “Padre nostro” (Mt 6,9), in un modo diretto, carico di tenerezza. Questo termine appare a Gesù il più appropriato per rivolgersi a Dio, e i vangeli ci testimoniano che lui stesso nella sua lingua aramaica lo chiama: “Abba” (Mc 14,36), Papà amato! Facendo propria la semplicità di cuore tipica dei bambini, Gesù prega Dio con piena confidenza, con un affetto naturale e spontaneo.

    Questo grido di Gesù deve essere risuonato con tale frequenza nelle prime comunità cristiane che anche i credenti di lingua greca lo utilizzano. Ce lo testimonia l’Apostolo Paolo, scrivendo a cristiani provenienti dal paganesimo: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito di figli, per mezzo del quale gridiamo: ‘Abba, Padre!’” (Rm 8,15); “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: ‘Abba, Padre!’” (Gal 4,6). Insomma, i primi cristiani si rivolgono a Dio in modo franco e confidente, senza moltiplicare le parole, perché sanno che così ha fatto Gesù, loro fratello.

    Il senso della paternità di Dio ci è rivelato da Gesù, colui che con le sue azioni e le sue parole, cioè con tutta la sua vita, ci ha narrato Dio (cf. Gv 1,18). Secondo questo racconto, Dio è un Padre che conosce i suoi figli ed è attento ai loro bisogni, pronto a rispondere alle loro domande di cose buone (cf. Mt 7,9-11): se pensa agli uccelli del cielo, a maggior ragione penserà ai suoi figli, che dunque non devono preoccuparsi (cf. Mt 6,25-34); è un Padre che non fa distinzione tra i figli buoni e quelli malvagi, ma fa brillare il suo sole e fa piovere su tutti (cf. Mt 5,45); è un Padre che ama il figlio anche nel suo peccato, senza esigere da lui alcuna reciprocità (cf. Lc 15,11-32)… Ecco la vera paternità di Dio, che ci è chiesto semplicemente di accogliere, facendo fiducia a Gesù. 
    Ma quando noi preghiamo: “Padre”, diciamo anche da dove siamo venuti, confessiamo di essere stati voluti, pensati, amati e chiamati alla vita da lui, quale che sia la nostra vicenda terrena. Sì, “noi siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (cf. 1Gv 3,1). Ecco dunque che cosa è fondamentale per essere cristiani, fratelli di Gesù: credere all’amore di Dio (1Gv 4,16) per ciascuno di noi e per tutta l’umanità. Invocarlo quale Padre è riconoscere che lui ci ha dato la vita e ci ama fedelmente: noi siamo figlie e figli suoi, da lui creati a sua immagine e somiglianza, dunque capaci di accogliere l’amore e di amare a nostra volta.

    (Famiglia cristiana, 9 giugno 2013)


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