Benedire Dio
nel tempo
del suo silenzio
Sergio Quinzio
«Benedetto tu o Signore Dio nostro re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra». «Benedetto tu o Signore Dio nostro re del mondo, creatore del frutto della vita». Queste - riferite al cibo, e che noi cristiani ripetiamo nella celebrazione eucaristica - sono tra le innumerevoli benedizioni che il pio ebreo quotidianamente pronuncia in obbedienza al principio talmudico che stabilisce: «È proibito all'uomo godere di questo mondo senza benedizione» (Berahkòth, 35).
Ogni gesto della giornata, dall'aprire gli occhi al risveglio all'ergersi in piedi per iniziare la giornata, e fino al soddisfacimento di un bisogno corporale, l'ebreo osservante l'accompagna ripetendo ancora venerande parole di benedizione in rendimento di grazie a Dio, perché tutto, nella nostra vita, ci è dato da lui. E ci sono benedizioni per ogni circostanza: per la buona come anche per la cattiva sorte, per la guarigione, alla vista di sapienti e di re, per monti, colli, cielo e mare, per la pioggia, per una casa nuova, per un parto felice, entrando e uscendo da una città, e persino per circostanze apparentemente insignificanti.
Le diciotto benedizioni sono un'antica preghiera ebraica che benedice il Signore per la sua perfezione e per i suoi benefici: è detta anche tephillàh, cioè "preghiera" per antonomasia, perché la sua recitazione sostituì l'offerta dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme distrutto. Il capitolo 50 del Siracide, nell'elogio del sommo sacerdote Simone II (220-195 a.C. circa), ne descrive la solenne benedizione nel giorno dell'espiazione, quando pronuncia sul popolo il nome d? Dio:
Allora, scendendo, egli alzava le mani su tutta l'assemblea dei figli di Israele per dare con le sue labbra la benedizione del Signore, gloriandosi del nome di lui (Sir 50,20).
Leggendo questa mirabile pagina, proviamo ancora il brivido del sacro, la nostalgia di un passato in cui la presenza di Dio poteva essere sentita, con timore e tremore, in mezzo al suo popolo.
Noi non possiamo neppure concepire il ruolo straordinario che aveva il benedire; a noi è difficile anche dire qual è il senso del benedire. Se ce lo chiediamo, ci accorgiamo di non saperlo più, o di non saperlo quasi più. Un dizionario biblico, quanto più elaborato, tanto più moltiplica l'elencazione dei significati tentando di rendere conto delle diverse accezioni in cui i termini relativi all'atto del benedire - da parte di Dio e da parte dell'uomo, preliturgico e liturgico - compaiono nei diversi libri biblici dai più antichi ai più recenti. [1] Benedire come gesto o parola che infonde forza, come beatitudine, felicità, lode, ringraziamento, gioiosa meraviglia, adorazione, preghiera, saluto, augurio, atto di congedare o di congedarsi, atto dell'onorare con riconoscenza. Che cosa unifica in profondità tutte queste diverse accezioni?
Certamente, quanto più si risale verso le origini la benedizione è sentita come una forza salvifica che produce pienezza di vita, come una trasmissione di forza vitale che «dona fecondità alla natura, fa crescere e prosperare il campo, moltiplica il bestiame, dona lunga vita e discendenza all'uomo, compattezza alle comunità», che dà «successo, possesso, benessere, felicità, tranquillità» [2].
Anche l'uomo può benedire, certo a immagine e somiglianza di Dio, come fa Giacobbe morente benedicendo i suoi figli con una benedizione che essendo di per sé efficace segna l'avvenire loro e della loro discendenza (Gn 49; cf. anche Gn 27). Ancora il ben-dicente augurio di pace dei discepoli inviati da Gesù, che opera su chi l'accoglie mentre se non viene accolto ritorna come riflesso su chi lo pronuncia (Mt 10,12-13), conserva questa "materialità".
Ma quando l'uomo rivolge la sua benedizione a Dio, possiamo ancora concepire così il benedire, e cioè come gesto che dà vita e potenza a colui che lo riceve? Per il momento, limitiamoci a porre la domanda?
Il credente veterotestamentario sperimenta dunque la benedizione di Dio anzitutto in quanto sperimenta la sua forza salvifica concretamente, nei beni tangibili che da lui riceve. La benedizione è legata alla tangibilità dei doni, è riconoscibile in essi. E quando questi doni mancano, quando si fa, al contrario, l'esperienza della privazione, della perdita, del bisogno non soddisfatto, della preghiera non esaudita, della malattia, dell'esilio, della persecuzione che colpisce il giusto, di Auschwitz, dov'è allora la benedizione di Dio? Certo il fedele, come Giobbe, si rifiuta alla logica che lo porterebbe a maledire Dio: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?» (Gb 2,10). Ma l'orizzonte si complica in maniera drammatica. Il mutamento, lo slittamento, e in definitiva l'allargamento a nuovi significati fino alla perdita di quello che era il potente significato originario del benedire non è solo la storia di una parola, ma è la storia del confondersi della cosa, del venir meno, se non proprio della cosa, dell'esperienza della cosa.
Con la morte di Gesù sulla croce, giusto abbandonato da Dio (Mt 27,46), fatto peccato (2Cor 5,21), non benedetto ma maledetto, perché è «maledetto chi pende dal legno» (Dt 21,23), il significato del benedire subisce un completo rovesciamento. «Beati pauperes» (Mt 5,3), «beati qui lugent» (Mt 5,5), «beati mortui» (Ap 14,13). La benedizione di Dio, la sua predilezione, non dà più la pienezza della vita e dei beni, ma la miseria, la derelizione e il martirio. Resa così paradossale e paralizzante, così lontana e irriconoscibile la
benedizione di Dio, anche il gesto benedicente dell'uomo si affievolisce. Scompare pressocché del tutto, o permane solo in senso metaforico, la benedizione pronunciata dall'uomo sull'altro uomo; e quanto alla benedizione che l'uomo rivolge a Dio, essa è, nel nuovo testamento ma anche nel giudaismo, sempre più un rendimento di grazie che si esprime come lode a Dio. La "preghiera di domanda" scade, nella considerazione del suo valore, a un basso livello, e s'innalza la "preghiera di lode" come preghiera disinteressata, ormai distaccata dalle tangibili benedizioni antiche. Il benedire perde definitivamente univocità e consistenza.
Ciò che il cristiano, pur confidando di essere salvato in Cristo, sperimenta nella sua identificazione al Crocifisso (Mt 10,38) come paradossale dono benedicente nella sofferenza, nell'abbandono, nella morte, l'ebreo lo sperimenta nella bimillenaria storia del suo esilio. Il popolo che una speciale benedizione ha eletto fra tutti è vivo, è l'unico anzi che sia sopravvissuto nella sua continuità attraverso i millenni, malgrado persecuzioni anch'esse uniche, che nessun altro popolo ha conosciuto: ma è vivo a prezzo di oppressioni e di sofferenze tali che hanno consentito agli altri popoli di considerarlo il popolo che espia il deicidio, il popolo maledetto. Benedizione e maledizione, negli ebrei come in Gesù crocifisso, si toccano, e se non fosse una bestemmia vorrei dire coincidono.
Una concezione "spiritualizzatrice" ha portato per lo più il credente in Cristo a eludere questo nodo che gli ebrei al contrario, nella loro aderenza alla concretezza delle antiche benedizioni, vivono fino alla disperazione nella loro carne. Una svalutazione ascetica e mistica dei beni "materiali" (come se fosse semplicemente "materiale" la presenza e l'amore della sposa o del figlio perduto) conduce, ben lontano dall'orizzonte biblico, a sentire la privazione, la mancanza, l'indigenza come qualcosa in sé positivo, come un luogo provvidenzialmente preparato per accogliere i soli beni che siano veramente tali: quelli "spirituali", invisibili e impalpabili. Il dolorismo ha via libera. Le beatitudini evangeliche vengono lette allora non come segni della liberazione messianica, dell'improvviso capovolgimento escatologico che consolerà chi piange asciugando le sue lacrime (Ap 21,4), ma come attribuzione di stabile valore positivo, in sé e per sé, a ciò che è negativo. I miti non sono beati perché erediteranno la terra nel giorno della «nuova creazione» (Mt 19,28), ma perché essendo miti, e in quanto tali calpestati dai violenti, proprio per questo sono già misticamente signori di tutto. Non sono beati nella tensione dell'attesa fra "già" e "non ancora", che consente anche nelle tribolazioni di gustare la primizia di ciò che è promesso, ma sono stabilmente così, pacificamente così, lungo i millenni delle tenebre e del silenzio di Dio, quel tempo di cui Gesù aveva profetizzato dicendo:
Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va (Gv 12,35).
Ai cristiani che avendo perduto di vista la prospettiva escatologica si accontentano di una lettura spiritualizzatrice degli annunci biblici di salvezza, offrono oggi un antidoto quegli autori ebrei - come Gershom Scholem, Elie Wiesel, Emil Fackenheim, André Neher - che restando nel solco della loro tradizione non sono disposti, malgrado ogni prova contraria, a dimenticare, a lasciar cadere nel nulla quello che era il senso originario, concretamente terrestre, della benedizione di Dio che dà pienezza di vita. Nella Haggadàh di Pesach gli ebrei, in esilio e perseguitati da tanti secoli e con la memoria rivolta ai loro cari gassati e bruciati nei forni crematori, osano celebrare la pasqua benedicendo Dio «per le innumerevoli miriadi di miriadi di benevolenze» che «fino a questo punto non ci hanno abbandonato» [3]. Il cuore rivolto alla promessa dei beni futuri li sente già presenti, li proietta nel "passato profetico" per esprimerne la certezza e la vicinanza, pur vivendo ancora in un'infinita miseria.
La benedizione divina che i più antichi libri biblici proclamavano operante, elargita al popolo liberato dalla schiavitù egiziana ed entrato nella terra promessa, era già diventata nei libri profetici una benedizione futura:
Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, perché si godrà e gioirà sempre di quello che sto per creare (Is 65,17-18).
Farò di loro e delle regioni attorno al mio colle una benedizione: manderò la pioggia a tempo opportuno e sarà pioggia di benedizione (Ez 34,26).
Come foste oggetto di maledizione fra le genti, o casa di Giuda e d'Israele, così, quando vi avrò salvati, diverrete una benedizione (Zc 8,13).
Anche per noi che abbiamo in Cristo le primizie della redenzione, la benedizione è futura:
Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Perché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza... Lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rm 8,22-26).
Ma se è lo stesso Spirito di Dio a gemere con noi nell'attesa e nell'invocazione della pienezza escatologica, allora non è forse senza senso rispondere in modo affermativo alla domanda che avevamo formulato. La kenosi divina di cui ci parla il secondo capitolo della Lettera ai Filippesi si è spinta tanto oltre che lo stesso Signore chiede l'aiuto dei suoi fedeli, l'aiuto della loro benedizione. Atto efficace, tragica benedizione pronunciata su Dio dai suo fedeli è infatti il martirio che completa nella loro carne «quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24), per il trionfo della sua causa. Vere e proprie formule di benedizione sono quelle con le quali nell'Apocalisse s'invoca ripetutamente per Dio e per il suo Cristo non solo «gloria» e «onore» ma «potenza» e «forza» (Ap 4,11; 5,12-13; 7,12), perfino «salvezza» (Ap 19,1), e stando al testo della Volgata «divinità» (Ap 5,12).
Così si compie, non nella linearità di un tranquillo provvidenzialismo ma nella follia del messaggio (1 Cor 1,21), l'unificazione con il senso originario del benedire come comunicazione di forza salvifica. Attraverso l'uomo che ha ricevuto il suo Spirito la benedizione ritorna a Dio che l'aveva data:
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata (Is 55,10-11).
NOTE
1 Cf. E. Jenni, C. Westermann, Dizionario teologico dell'Antico Testamento, tr. it. Marietti, Casale Monferrato 1978, coll. 306-326).
2 W.H. Schmidt, Dizionario biblico, tr. it. Jaca Book, Milano 1981, p. 51.
3 Hagadàh di Pesach, Firenze 1984, p. 109.