La pace
María Zambrano
La radicale fiducia con la quale guarda alla vita chi ha avuto davvero un padre è lo strato più profondo di un animo pacifico. Guerra e pace non sono governate dal diritto internazionale e neppure dall'interesse e dalla convenienza economica. La furia della follia bellica trova infatti in ragioni minime e sistematiche ciò che può raggirarla.
La vera pace non nasce dall'istinto, dall'uomo allo stato di natura. Nella tragedia dello stato di natura la cosa più naturale è la guerra, la discordia: l'uomo si riempie di terrore e diffidenza di fronte al proprio simile. L'uomo abbandonato, lasciato senza protezione, si riempie di paura e cade in preda al panico. E il peggio della paura è che fa paura: tra uomini vicendevolmente terrorizzati la catastrofe è inevitabile, come stiamo vedendo con chiarezza. L'attuale guerra è il prodotto del mutuo terrore, della paura degli uni che generò la paura degli altri, l'angoscia, il terrore di tutti. E' senza dubbio questa la lebbra europea, da molto tempo. E' il vero «male del secolo».
Come l'amore, anche la pace è naufragata in questo stato d'abbandono dell'uomo. Naufragata la ragione, affogata la coscienza, è rimasto soltanto un povero animale terrorizzato, prigioniero dei suoi istinti. Senza padre comune, senza istanza comune a cui riferirsi, non è potuto rimanere tranquillo.
La pace può realizzarsi solo attraverso il cammino della ragione o della religione. Kant, il filosofo della «buona volontà», scrisse anche il sogno dorato della «Pace Perpetua»: era la pace fondata nell'umano, nel meglio dell'uomo, nella sua buona volontà. L'uomo si trovava dunque protetto dalla ragione, dalla legge.
Ma più che l'astrazione della legge vale l'istanza comune, la voce autorevole e clemente, che si fa sentire da tutti e da ciascuno; il santo timore che fa entrare in ragione, quando si è disprezzato e calpestato tutto a causa di un'ebbrezza sciocca e folle.
La pace non può nascere da un patto tra eguali che tremano al solo vedersi. La buona volontà non basta e tuttavia, come è risaputo da tempi assai remoti, è l'unica cosa che la merita. La pace è il dono dato agli uomini di buona volontà, il loro meritato guadagno, ma non è la buona volontà che la genera: è il risultato di una gloria più alta, balenìo dell'autorità che vince senza lasciar vinti. Non c'è pace senza umiltà, né la pace ha valore separata da quell'alta gloria.
Ma cosa ha a che vedere il freudismo con la guerra? Nell'uomo niente può stare separato; se nell'uomo, durante la sua crescita, si smarrisce l'idea del padre, se nel padre egli vede solo un uomo ridotto all'istinto, se si pretende di educarlo a immagine di un padre privo di sacro mistero, che cosa gli resta? Su che cosa fa affidamento? Al più piccolo incidente della vita, cadrà in preda al terrore e al risentimento, sarà in guerra con tutti e con tutto, perfino con se stesso. Intravediamo già per quale motivo il freudismo è risultato un rimedio grave almeno quanto la malattia di cui pretendeva essere la cura. Bisogna però ricordare una volta di più la distinzione tra l'opera di Freud e il freudismo; nessuno potrà negare a Freud la sua ansia di curare, la sua carità di medico e anche qualcosa in più: l'ansia di purificazione. Insieme con altri movimenti della sua epoca ha espresso un'ansia di purificazione collettiva. La psiche umana era infatti oppressa e sovraccarica, come gli stili artistici dell'epoca, lo stile cosiddetto «moderno» d'inizio secolo. Periodicamente si rendono necessarie queste purificazioni o pulizie, queste confessioni generali. Forse l'opera di Freud vale come la confessione di «un figlio dell'epoca» e ancor più di un testimone. E' il testimone fanatico, e come tutti i fanatici disperatamente sincero, di un male gravissimo. Ma sviscerando le radici del male, dell'abbandono umano, elabora un veleno che lo aggrava.
Freud diffuse, con la seduzione letteraria derivatagli dai miti greci cui ricorreva, e perfino accrebbe il male terribile, senza poterlo curare.
Non fu per mancanza di volontà né di sollecitudine misericordiosa: il fatto è che il medico deve arrivare fino alla radice ultima della malattia che cura. Freud ci stava dentro, era una delle sue vittime ed ebbe il coraggio di riconoscerla, di essere suo testimone, un testimone lucido, ma niente di più.
La malattia infatti era e continua a essere l'abbandono, il tremendo abbandono sofferto dall'uomo figlio della cultura occidentale, vissuto con il sostegno di alcuni princìpi inviolabili (il Padre della Religione e la Ragione greca), armoniosamente intrecciati tra loro. L'uomo occidentale non si sentiva uomo naturale, ma creato, generato da un padre, da certi princìpi. Abbandonato a se stesso fu preso dal terrore, dall'antico terror panico; cadde preda delle antiche furie che imprigionavano la sua anima trascinandolo verso la fatalità di una morte senza speranza.
Il «freudismo», distruggendo l'idea del padre e, più che l'idea, il valore trascendente della paternità, non fa che completare l'opera di tutte le altre teorie che hanno reciso a poco a poco i fili che tenevano l'uomo legato ai suoi princìpi, alle sue origini. Non ha fatto altro che dare il colpo finale alla distruzione dell'uomo come figlio. Vivere come figlio è qualcosa di specificatamente umano; solo l'uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?