La fede in Dio vivo
Lev Tolstoj
Durante la convalescenza Pierre si disabituò solo gradualmente alle impressioni degli ultimi mesi, diventate ormai consuete, e si abituò al fatto che l’indomani nessuno lo avrebbe spinto chissà dove, che nessuno gli avrebbe tolto il suo letto caldo e che avrebbe sicuramente avuto il pranzo, e il tè, e la cena. Ma in sogno continuò ancora a lungo a vedersi nelle stesse condizioni della prigionia. Altrettanto gradualmente Pierre arrivò a capire le notizie che aveva appreso dopo la sua liberazione: la morte del principe Andrej, la morte della moglie, l’annientamento dei francesi.
Un gioioso senso di libertà – quella libertà piena e inalienabile insita nell’uomo, di cui aveva avuto per la prima volta coscienza al primo bivacco dopo la partenza da Mosca – colmava l’animo di Pierre durante la sua convalescenza. Si meravigliava che quella libertà interiore, indipendente dalle circostanze esterne, fosse ora circondata dalla libertà esteriore come da un lusso sovrabbondante. Era solo in una città estranea, senza conoscenti. Nessuno pretendeva niente da lui; non lo mandavano da nessuna parte. Aveva tutto ciò che poteva desiderare; il pensiero della moglie, che prima lo torturava costantemente, non c’era piú, dato che anche lei non c’era piú.
– Ah, che bellezza! Che meraviglia! – si diceva quando gli avvicinavano la tavola ben apparecchiata con un brodo profumato, o quando la sera si coricava nel letto soffice e pulito, o quando si ricordava che sua moglie e i francesi non c’erano piú. – Ah, che bellezza, che meraviglia! – E per antica abitudine si domandava: e adesso? che cosa farò? E subito si rispondeva: Niente. Vivrò. Ah, che meraviglia!
Ciò che prima lo tormentava, che cercava costantemente, e cioè lo scopo della vita, adesso per lui non esisteva. E non solo per caso, nel momento presente: no, sentiva che quello scopo della vita tanto cercato non esisteva proprio, e non poteva esistere. E proprio questa mancanza di uno scopo gli dava quella piena, gioiosa coscienza della libertà che in quel periodo costituiva la sua felicità.
Non poteva avere uno scopo, perché adesso aveva una fede – non la fede in determinate regole, o parole, o pensieri, ma la fede in un Dio vivo, sempre percepibile. Prima Lo cercava negli scopi che si prefiggeva. Questa ricerca di uno scopo era solo la ricerca di Dio; e a un tratto durante la sua prigionia aveva scoperto, non a parole, non con ragionamenti, ma per un sentimento immediato, ciò che tanto tempo prima gli diceva la njanja: che Dio, eccolo, è qui, dappertutto. In prigionia aveva scoperto che in Karataev Dio era piú grande, infinito e imperscrutabile che nell’Architetto dell’universo riconosciuto dai massoni. Provava la sensazione che prova chi ha trovato davanti ai propri piedi quello che cercava sforzando la vista per scrutare lontano da sé. Per tutta la vita aveva guardato chissà dove, sopra le teste delle persone che gli stavano intorno, mentre non c’era bisogno di sforzare gli occhi, ma bastava guardare davanti a sé.
Prima non aveva saputo vedere in nulla ciò che è grande, imperscrutabile e infinito. Sentiva soltanto che doveva essere da qualche parte, e lo cercava. In tutto quanto era vicino e comprensibile vedeva solo qualcosa di limitato, piccino, banale, insensato. Si armava di un cannocchiale intellettuale e guardava lontano, dove quelle cose piccine, banali, ammantandosi della nebbia della distanza, gli sembravano grandi e infinite solo perché non si vedevano chiaramente. Tali gli erano apparse la vita europea, la politica, la massoneria, la filosofia, la filantropia. Ma anche allora, nei momenti che considerava di debolezza, la sua mente penetrava in quella lontananza e vi scorgeva le stesse cose piccine, banali, insensate. Adesso invece aveva imparato a vedere il grande, l’eterno e l’infinito in tutto, e perciò per vederlo, per godere della sua contemplazione, aveva naturalmente gettato il cannocchiale in cui aveva guardato finora oltre le teste delle persone, e contemplava con gioia intorno a sé la vita eternamente mutevole, eternamente grande, imperscrutabile e infinita. E quanto piú vicino guardava, tanto piú era tranquillo e felice. La terribile domanda che prima distruggeva tutte le sue costruzioni mentali: «Perché?», adesso per lui non esisteva. Adesso a quella domanda, «perché?», aveva sempre pronta nell’anima una risposta semplice: perché esiste Dio, quel Dio senza la volontà del quale non cade un capello dal capo dell’uomo.
(Lev Tolstoj, Guerra e pace, Libro IV, parte IV, 12, Einaudi)