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    Piccola fenomenologia

    della carezza


    (a mio padre)

    Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
    Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
    La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
    La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
    Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
    La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
    Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
    Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
    La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
    Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
    È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
    La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
    E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.

    (FONTE: La Botte di Diogene – blog filosofico
    A cura di Mario Domina)

     

    CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA
    Emmanuel Lévinas

    Una dimensione dell’assenza: la carezza
    “La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire mai abbastanza avvenire nel sollecitare ciò che si sottrae come se ‹non fosse ancora›. Essa ‹cerca›, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile. In un certo senso ‹esprime› l’amore ma soffre per un’incapacità di dirlo. Ha fame di questa espressione stessa, in un continuo incremento di fame. Va dunque al di là del suo termine, è tesa al di là di un ente, anche futuro, che, appunto in quanto ‹ente›, bussa già alla porta dell’essere. Nella sua soddisfazione, il desiderio che l’anima rinasce, alimentato in qualche modo da ciò che ‹non è ancora›, e ci riporta alla verginità, eternamente inviolata, del femminile. Questo non significa che la carezza cerchi di dominare una libertà ostile, di farne il suo oggetto o di strapparle un consenso. La carezza cerca al di là del consenso o della resistenza di una libertà ‹ciò che non è ancora›, qualcosa che è «men che nulla» che sta come rinchiuso e sopito al di là dell’‹avvenire› e, quindi, sopito in modo completamente diverso dal ‹possibile› che si offrirebbe all’anticipazione. La profanazione che si insinua nella carezza risponde in modo adeguato all’originalità di questa dimensione dell’assenza. Assenza diversa dal vuoto di un niente astratto: assenza che si riferisce all’essere, ma vi si riferisce a modo suo, come se le «assenze» dell’avvenire non fossero avvenire, tutte allo stesso livello e uniformemente.”
    EMMANUEL LÉVINAS (1906 – 1995), “Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità” (1961), introduzione di Silvano Petrosino, trad. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2006 (sesta ristampa della II ed. 1990, I ed. 1980), Sezione quarta ‘Al di là del volto’, B. ‘Fenomenologia dell’eros’, p. 265.
    “La caresse consiste à ne se saisir de rien, à solliciter ce qui s’échappe sans cesse de sa forme vers un avenir jamais assez avenir à solliciter ce qui se dérobe comme s’il ‹n’était pas encore›. Elle ‹cherche›, elle fouille. Ce n’est pas une intentionnalité de dévoilement, mais de recherche: marche à l’invisible. Dans un certain sens elle ‹exprime› l’amour, mais souffre d’une incapacité de le dire. Elle a faim de cette expression même, dans un incessant accroissement de faim. Elle va donc plus loin qu’à son terme, elle vise au-delà d’un étant, même futur qui, comme étant précisément, frappe déjà à la porte de l’être. Dans sa satisfaction, le désir qui l’anime renaît, alimenté en quelque façon par ce qui ‹n’est pas encore›, nous ramenant à la virginité, à jamais inviolée, du féminin. Non pas que la caresse chercherait à dominer une liberté hostile, à en faire son objet ou à lui arracher un consentement. La caresse cherche par-delà le consentement ou la résistance d’une liberté ‹ce qui n’est pas encore›, un «moins que rien», enfermé et sommeillant au-delà de l’‹avenir› et, par conséquent, sommeillant tout autrement que le ‹possible›, lequel s’offrirait à l’anticipation. La profanation qui s’insinue dans la caresse répond adéquatement à l’originalité de cette dimension de l’absence. Absence autre que le vide d’un néant abstrait: absence se référant à l’être, mais s’y référant à sa manière, comme si les «absences» de l’avenir n’étaient pas avenir, toutes au même niveau et uniformément.”
    EMMANUEL LÉVINAS, “Totalité et infini. Essaix sur l’extériorité”, Kluver Academic, Paris 1990 (I éd. Nijhoff, Amsterdam 1961), ‘Au-delà du visage’, B. ‘Phénoménologie de l’éros’, p. 288.

     

    Filosofia della carezza – Come amare nel rispetto della libertà dell’altro
    Valerio Stagno
    2 Febbraio, 2020

    Molte volte facciamo coincidere con l’Amore un sentimento di proprietà e di appartenenza, saltando il livello della libertà che rappresenta il luogo stesso dove l’Amore vive e ha bisogno di vivere. L’eros vive al suo interno una condizione di continua ambiguità equivocando, all’interno della relazione etica come metafisica, tra l’immanenza e la trascendenza, passando dall’altruismo all’egoismo e rischiando continuamente di trasformare il desiderio metafisico, dell’invisibile, mistero in cui si racchiude l’enigma della femminilità, in bisogno fisico del visibile che si esprime nella voluttà e nel godimento. La partita dell’eros come relazione che mantiene la metafisicità, rischiando continuamente di perderla, viene giocata tutta nel desiderio dell’intimità erotica attraverso la ricerca della nudità senza profanazione.
    Come scrive Sergio Labate, ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Macerata: “andando incontro all’amata, l’amato desidera di approfondire il mistero, di instaurare una relazione al di là del volto; percepisce che questo desiderio si può esaudire come profanazione […], ma se questa relazione è oltre l’egoismo, nella sfera della gratuità, desidera ancora più fortemente che la relazione con l’infinito mistero celato nella nudità dell’amata avvenga senza profanazione, o come profanazione che pure lascia lo spazio perché ciò che è profanato sia mantenuto nella sua essenza di intoccabilità, di improfanabile”[1].Questa tensione desiderante che muove l’attenzione del desiderio su se stesso “per non decadere in semplice bisogno”[2], si traduce nella concretezza nell’evento della “carezza”. Questa indica a pieno titolo “il movimento dell’amante di fronte alla debolezza della femminilità, che non è, né pura compassione, né impassibilità, ma si compiace di questa compassione”[3], ponendosi come esperienza profonda della relazione erotica, in quanto relazione con la trascendenza, la quale allo stesso tempo cerca continuamente il contatto con l’intimità della nudità.
    La carezza come momento della concretezza dell’eros, e come contatto con l‘altro, “è sensibilità”[4] , ma non di una sensibilità qualsiasi tale da restare imprigionata nella forma tutta immanente di un estetismo senza evoluzioni, ma di una sensibilità che attraverso la carezza, “trascende il sensibile”[5], non in un modo tale “che essa senta al di là del sentito, più profondamente dei sensi, né significa che essa si impadronisca di un cibo sublime, […], un’intenzione di fame che si dirige sul cibo che si promette e si dà a questa fame, la scava, come se la carezza si nutrisse della propria fame, al contrario, la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire-mai abbastanza avvenire-nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora”[6]. Amando l’amata, la carezza “ama il trascendente celato nel non-ancora-essere dell’amata”[7] permettendo così all’amato di donarsi all’amata in un “desiderio senza voluttà”[8] proponendosi come un atto profanatore di ciò che non può essere profanato, perché per natura improfanabile. Nonostante questo, la carezza è il segno tangibile della non “rinuncia alla comunicazione segnica corporea, non spirituale”[9] che traccia i confini di “un incontro integrale e paradossale, corpo e trascendenza uniti l’uno come desiderio che desidera la trascendenza, l’altra come trascendenza che si dona al desiderio come nudità o intimità”[10]. Quindi l’eros seppur interpretato in chiave prettamente metafisica, non rifiuta l’esperienza della corporeità che con la carezza viene descritta come “l’azione di una mano diretta dal desiderio verso l’intimità dell’amata, in un contatto del tutto sensibile con la pelle nuda, profanazione dell’intimità di Altri”[11]. Tuttavia se fosse solo questo, la carezza perderebbe di eticità e quindi di metafisicità, avvicinandosi invece sempre più ad una relazione di tipo ontologico, tale che il contatto tra io e Altri perderebbe la nozione di separazione da cui è caratterizzata la prossimità. Senza dubbio ciò che nella carezza è interpretato come voluttà, e cioè l’appetito della soddisfazione sensuale, “non viene soddisfatto nella pienezza di un compimento”[12], in quanto, in questo tipo di relazione che si viene a creare, con la carezza erotica, io non possiederò mai ciò di cui sento il bisogno[13] perché “l’appetito sensuale o il bisogno si soddisfano della nudità dell’amata, ma non si saziano di essa – soddisfazione che non coincide mai con il nutrimento”[14] o meglio coincide con un nutrimento del tutto particolare[15], che resta allo stadio dell’appetito, “che si sazia della sua fame”[16], “di una fame che rinasce all’infinito”[17] in quanto rivolto più che al cibo alla sua assenza, nella quale la carezza come non-ancora-essere trova la sua intenzionalità. Cosi la relazione etica in eros, non solo è salvata, non potendo essere assolutamente compresa, ma l’alterità “resta intatta nella sua nudità”[18], nella misura in cui l’Amata “si mantiene nella sua verginità”[19], nella notte dell’erotico, nella quale nello stesso istante in cui scoperto Eros, Eros sfugge “per esprimere in modo diverso la “profanazione”.

    [1] S. LABATE, La sapienza dell’amore, Cittadella Editore 2007 cit., p. 150.
    [2] Ibidem.
    [3] E. LEVINAS, Totalità e infinito, Jaca Book – Milano, 1971, p.264.
    [4] Ivi, p. 265.
    [5] Ivi, p. 265.
    [6] Ibidem. 
    [7] S. LABATE, La sapienza dell’amore, cit., p. 151.
    [8] Ibidem.
    [9] Op. cit., p. 151.
    [10] Ibidem.
    [11] Ivi, p. 152.
    [12] Ibidem.
    [13] “La carezza erotica non cerca una comprensione concettuale dell’altro; sull’orlo della profanazione dal di dietro del pudore, appare l’Altro non come oggetto del bisogno, ma come oggetto di un bisogno particolare tracciato dal desiderio dell’Altro, il bisogno voluttuoso.” A. JARNUSZKIEWICZ, Separazione e prossimità, cit., p.116.
    [14] S. LABATE, op. cit., p.152.
    [15] “L’amore è caratterizzato da una fame fondamentale e inestinguibile”, E. LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 37.
    [16] Ibidem.
    [17] Il tempo e l’altro, op. cit., p. 58.
    [18] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.
    [19] Totalità e infinito, op. cit., p. 264.


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