L'obiettivo della
pastorale giovanile /2
cf Appunti per un corso di "PASTORALE GIOVANILE"
18. Secondo livello: Una formula per rendere verificabile l’obiettivo: integrare fede-vita
Ho ritagliato un orizzonte teologico dentro cui collocare la ricerca dell’obiettivo. Esso è importante, per dare il senso e l’orientamento della riflessione. Va però riscritto nelle categorie tipiche dell’obiettivo: un insieme di competenze da far acquisire, espresse secondo categorie verificabili.
Per assolvere queste esigenze, assumo e rilancio una formula, suggerita da Il rinnovamento della catechesi, che ha fatto abbastanza fortuna tra gli addetti ai lavori: obiettivo dell’azione pastorale può essere il raggiungimento dell’integrazione fede-vita. La proposta di RdC è più articolata: l’integrazione fede-vita è solo un aspetto di un processo più complesso. Può essere però facilmente interpretata, soprattutto grazie allo spessore teologico che evoca, come un riferimento complessivo, un obiettivo attorno cui concentrare tutte le preoccupazioni pastorali.
Integrazione tra la fede e la vita significa riorganizzazione della personalità attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale, riorganizzazione realizzata in modo da considerare Gesù Cristo il «determinante» sul piano valutativo e pratico.
Gli elementi importanti ci sono tutti.
Al centro sta Gesù Cristo, incontrato ed accolto come «il salvatore», fino a farlo diventare il «determinante» della propria esistenza.
Gesù Cristo è proposto come un evento totale: la sua persona, il suo messaggio, la sua causa, testimoniata nel popolo che lo confessa come il Signore.
L’esito di questa esperienza salvifica è una personalità finalmente riorganizzata in unità esistenziale: caricata delle sue responsabilità, centrata sulla ricerca di significati di vita, liberata dai condizionamenti, ricollocata all’interno di un popolo di credenti, capace di vivere intensamente la sua fede e di celebrare questa stessa fede nella sua vita quotidiana.
La formula è molto ricca. Per utilizzarla in modo corretto in un progetto di pastorale giovanile, devo però decifrare il modello antropologico cui la proposta si ispira e le esigenze educative e pratiche che sono sottese. Per questo, riprendo dalle scienze dell’educazione quello che la formula teologica solamente evoca.
Due categorie mi sembrano particolarmente interessanti per comprendere il senso dell’obiettivo e il processo che ne può assicurare il raggiungimento: l’identità (per comprendere il senso) e l’abilitazione (per comprendere il processo).
18.1. Unificazione della personalità: il problema dell’identità
Se ripensiamo alla descrizione di «integrazione tra la fede e la vita» alla ricerca del modello antropologico che l’ha ispirata, è facile costatare che la formula colloca la funzione della fede in un ambito preciso del processo di maturazione: la costruzione dell’identità personale. Dire integrazione tra la fede e la vita è come dire stabilizzazione di un’identità personale, risignificata e organizzata attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, come sono testimoniati nell’attuale comunità ecclesiale.
L’obiettivo della pastorale giovanile richiama perciò quei modi e quelle competenze che sono richieste dalla strutturazione dell’identità; a queste vanno aggiunte le esigenze specifiche dell’ispirazione di fede. Quali siano questi modi lo sappiamo dall’abbondante letteratura sull’argomento. Non è sempre univoca, perché il tema dell’identità è molto legato a modelli antropologici più generali. Lasciandomi guidare da una precomprensione teologica, come deve fare chiunque cerchi di produrre una riflessione pastorale corretta, posso orientarmi nel pluralismo e suggerire qualche scelta.
Identità significa, nel mio modo di vedere le cose, «un sistema integrato di connessioni, come un complesso elaboratore d’informazioni in cui l’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, i valori sono codificati e organizzati in un sistema operazionale interno».
L’identità è così la mediazione dinamica che lega la persona al mondo. Essa è tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto. Nello stesso tempo è continuamente provocata a riformularsi sotto gli stimoli che provengono dal suo rapporto con l’ambiente esterno.
Il carattere relazionale dell’identità va compreso come capacità soggettiva di confrontare gli stimoli provenienti dall’esterno con valori che funzionino come normativi delle personali valorizzazioni. Le valutazioni e le operazioni di una persona (e in pratica il suo modo di agire, la sua «condotta») possono essere perciò considerate come il frutto dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall’esterno, attraverso cui tale storia è scritta e vissuta. L’identità assicura così la permanenza e la continuità del soggetto, oltre le innegabili variazioni che in lui avvengono nel corso del tempo.
In un ambiente armonicamente integrato, poco mutevole e dotato di riferimenti univoci, il rapporto io-mondo era facilmente stabilizzato e chiaramente orientato. In un tempo di larga complessità e di profondi e rapidi mutamenti com’è il nostro, l’organizzazione dell’identità personale richiede una notevole capacità riflessiva, per elaborare la sovrabbondanza di stimoli e la loro disomogeneità. In questo caso, la costruzione di un’identità armonica e stabile è la meta impegnativa di un lungo processo di maturazione personale.
18.1.1. Gesù Cristo, il «determinante»
Collocando l’obiettivo della pastorale giovanile sul fronte dell’identità, assumiamo queste indicazioni e le spingiamo oltre.
I valori su cui si costruisce la funzione elaboratrice dell’identità, non possono essere soltanto soggettivi, quasi che ogni persona se li potesse definire a piacimento. Essi devono rispecchiare in qualche modo i valori oggettivi dell’esistenza cristiana.
Lo sappiamo e ce lo siamo ricordati molte volte. I valori dell’esperienza cristiana non sono prima di tutto un insieme, organico e articolato, di dottrine da conoscere. Essi sono una persona: Gesù il Cristo. Egli ci propone un messaggio. Esso risuona ancora all’interno della comunità dei suoi discepoli. La persona di Gesù e il suo messaggio, integrati nella struttura di personalità, diventano il «determinante» della identità personale.
Il riferimento a Gesù Cristo nel personale sistema di significati non può essere vissuto come l’incontro con uno stimolo in più, che si va ad aggiungere agli altri su cui la persona ricostruisce la propria identità. Neppure può essere considerato come un valore alternativo rispetto agli altri elaborati, autonomamente, una specie di concorrente spietato che mette bastoni tra le ruote nella organizzazione della personalità. La formula «integrazione tra la fede e la vita» ricorda che il riferimento a Gesù Cristo, nella elaborazione dell’identità personale, funziona come un’esperienza centrale, dotata di una sua struttura veritativa, che riorganizza i processi cognitivi, interpretativi e operativi.
La sottolineatura è importante, in prospettiva educativa. Riafferma la centralità di Gesù Cristo nell’esistenza nuova del cristiano e restituisce a questo riferimento tutta la sua forza orientativa, precisando gli ambiti in cui si deve collocare il riferimento a Gesù Cristo: la fede, per assolvere pienamente i suoi compiti, deve possedere una dimensione personale, una dimensione contenutistica ed una dimensione ecclesiale.
La dimensione personale indica la necessità di vivere la fede come fiducia e abbandono di tutto se stessi a Dio che salva in Gesù Cristo, per cui ci si appoggia a lui come a roccia stabile e sicura.
La dimensione contenutistica ricorda che la fede comporta l’accettazione di ciò che Dio in Gesù Cristo dice, di quanto ha fatto per noi, di quanto esige da noi come risposta al suo progetto salvifico. La dimensione contenutistica comprende quindi il «che cosa» dell’esperienza cristiana, quegli eventi e quelle informazioni che esprimono l’oggetto sapienziale della fede; e il «come» dell’esistenza nuova del credente, quelle competenze che descrivono la logica nuova del cristiano.
Infine, la fede ha una dimensione ecclesiale, perché la fede di un cristiano è sempre credere nella comunità dei credenti: questo è il luogo in cui s’incontra l’evento della fede, in cui si costatano le ragioni per credere e in cui si confessa tematicamente la propria scelta di vita.
18.1.2. Ripensare i modelli pastorali
Il modo con cui ho suggerito di comprendere il significato operativo di «integrazione tra la fede e la vita» spinge a rivedere alcuni modelli che purtroppo sono presenti nella prassi pastorale.
Il richiamo all’identità, prima di tutto, sposta le preoccupazioni educative dalla paura e dal controllo verso l’impegno di verifica e di confronto. Spesso, l’educazione alla fede è stata risolta all’insegna delle cose da evitare e di quelle da assumere. I lunghi elenchi venivano poi ridimensionati frequentemente sotto l’urgenza della praticabilità. Chi, invece, mette al centro la costruzione dell’identità riconosce che la questione non è, prima di tutto, quella delle stimolazioni esterne, spesso incontrollabili e mai integrabili in modo passivo e rassegnato. La questione urgente è un’altra: la capacità di verificare tutto alla luce di riferimenti normativi e di integrare nella propria struttura cognitiva quello che corrisponde alla scala valoriale in cui ci si riconosce.
Il richiamo all’identità mette poi sotto questione quei modelli pastorali che risultano o troppo integristi o troppo riduttivi.
Sono integristi quei modelli che definiscono il rapporto fede-vita in termini concorrenziali, come se il contenuto della fede si sostituisse all’autonoma ricerca di valori e di significati o si ponesse come radicale alternativa nei confronti di quanto l’uomo elabora nella sua scienza e sapienza.
Sono invece riduttivi quei modelli che vanificano la funzione della fede, perché non le riconoscono il compito di risignificare e di giudicare in modo perentorio i valori che una persona fa propri e la loro organizzazione nella struttura di personalità.
Sul piano positivo, il riferimento alla fede non sposta l’attenzione rispetto alla stabilizzazione dell’identità personale, cercando forzosamente di condurci in altri spazi esistenziali. Pone invece delle esigenze che ricadono sulla costruzione dell’identità personale e la qualificano. Sono, in fondo, un modo più autentico e maturo di comprendere questo processo tanto decisivo per la crescita personale.
Chi ripercorre con attenzione queste note, s’accorge di un dato che va riportato in primo piano: vivere di fede, speranza, carità, facendo di Gesù Cristo il «determinante» della propria esistenza, è un modo di vivere da uomini seri e consapevoli. Nel pluralismo delle ipotesi antropologiche, il riferimento a Gesù Cristo fa una sua proposta precisa: è un’offerta alla libertà e responsabilità personale, che pone in un livello molto concreto di umanità. Nello stesso tempo e nelle pieghe più profonde di questa esperienza, suggerisce un dono ulteriore di vita e di senso (la salvezza come vita nuova) che conforta la personale ricerca e la rassicura contro ogni incombente incertezza e fallimento.
Non possiamo inoltre dimenticare che il riferimento alla fede connota ed esige nello stesso tempo un indice alto di stabilità. Non è più sufficiente quel minimo di stabilità soggettiva che assicura la continuità fondamentale del soggetto nelle progressive variazioni; si richiede anche una stabilità decisionale nel rispetto dei codici oggettivi e normativi della fede. Gesù Cristo dà infatti riferimenti stabili, omogenei, sicuri. Il suo contributo non si sostituisce al sistema valutativo della persona, ma lo organizza in modo decisivo e lo consolida. Nel processo dell’identità personale funziona come un principio di elaborazione che controlla e supera l’eventuale frammentarietà e complessità delle informazioni che provengono dall’ambiente esterno. La comunità ecclesiale, in quanto testimonianza autorevole e istituzionale del messaggio di Gesù Cristo, assicura il luogo d’identificazione, al di sopra del pluralismo, capace di sostenere tutto il processo.
18.2. Sul piano delle «abilitazioni»
Ho legato il cammino verso l’integrazione tra la fede e la vita ad un maturo ed equilibrato consolidamento dell’identità personale. Questa scelta ne richiama subito un’altra, quasi spontaneamente.
La costruzione dell’identità è un processo complesso in cui si intrecciano conoscenze acquisite e comportamenti sperimentati ed espressi; ma non coincide sicuramente né con le une né con gli altri. Inoltre non può essere considerata un cammino a termine, come se ci fosse un confine prima del quale l’identità personale non esiste e dopo il quale è tutta ben sistemata e conclusa. Il richiamo all’identità evoca immediatamente preoccupazioni di carattere dinamico. L’acquisizione dell’identità e la sua stabilizzazione sono un processo permanente, attraverso cui acquisiamo «abilità». L’integrazione tra la fede e la vita comporta la progressiva abilitazione verso un insieme organico di competenze esistenziali.
Questa è una prima conclusione importante. L’accento posto sulla «abilitazione» indica che il processo può essere anche lento e graduale e che la stabilizzazione dell’identità personale può essere anche parziale e progressiva. Chi riflette su questi problemi con un occhio attento all’educazione, come facciamo noi che crediamo al criterio dell’educabilità indiretta della fede, vuole però capirci più a fondo. Vuole sapere come e dove intervenire per consolidare queste abilitazioni.
18.2.1. Abilitare ad atteggiamenti corrispondenti
L’abilità cui tende l’obiettivo è costituita da conoscenze, atteggiamenti e comportamenti. In che rapporto stanno queste differenti competenze, in modo tale da poter riconoscere una persona come «abilitata»?
Riprendo le riflessioni sulla fede, speranza e carità, gli atteggiamenti fondamentali che misurano la realizzazione dell’integrazione tra la fede e la vita anche sul piano della consapevolezza riflessa.
Fede, speranza, carità sono dono di Dio, perché solo in Gesù Cristo è possibile credere, sperare e amare. Sono però un dono che sollecita la risposta dell’uomo e rende l’uomo capace di rispondere. Per questo richiedono disposizioni umane che traducano sul ritmo della esistenza quotidiana il significato di vita che rappresentano.
Appellano ad un sostegno alla libertà dell’uomo che dia al movimento dialogico, di dono di Dio e di risposta dell’uomo sulla forza di questo dono, una dimensione veramente umana. In ultima analisi, investono la qualità della vita quotidiana e gli interventi educativi che ne servono la maturazione.
Pensiamo ad un esempio, classico nella riflessione teologica tradizionale.
1Gv 4 ricorda che non è possibile amare veramente Dio se non si ama il prossimo. La motivazione è legata al fatto che Dio non lo si vede, mentre il prossimo lo si vede. C’è quindi un ambito di intervento concreto, sperimentale (l’amore al prossimo), in cui si manifesta, si realizza, quasi si misura, il proprio rapporto con Dio.
Ci si può educare ad atteggiamenti di servizio, di promozione dell’altro, di rispetto. O si possono apprendere atteggiamenti di sopraffazione, di manipolazione, di sfruttamento. Si tratta sempre di atteggiamenti umani, che riguardano quell’impegno di progettazione personale che ogni uomo è chiamato a realizzare. Nello stesso tempo, essi hanno un peso determinante nell’atteggiamento fondamentale cristiano della carità teologale. Senza l’abitudine a questi atteggiamenti corrispondenti, non è possibile vivere di carità: affermare di amare Dio significa proclamare il falso, perché non si ama il prossimo. Per fare della propria vita una risposta al dono di Dio nella carità, si richiede una costante disposizione a vivere in atteggiamento di servizio verso il prossimo.
Il dono teologale della carità diventa atto concreto di carità soltanto in colui che è stato educato a mettersi in atteggiamento di servizio nel confronti dei fratelli. La carità è atteggiamento fondamentale dell’esistenza cristiana. La disponibilità al servizio è atteggiamento corrispondente, acquisito. Lo chiamo acquisito perché si sviluppa per via di educazione; corrispondente, perché nel suo formarsi si ispira al dono della carità e abilita a risposte di carità nelle concrete situazioni di vita.
Le riflessioni fatte a proposito della carità che si fa servizio vanno generalizzate per tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana.
L’esistenza quotidiana è nella verità esistenza cristiana solo quando la maturazione di personalità è orientata verso atteggiamenti umani, sulla linea e nello stile della fede, speranza, carità. In caso contrario, il significato espresso in forme tematizzate (e cioè l’orientamento cristiano esplicito e formale) resta un fatto vuoto, perché non trova la corrispondenza di una vita che dia consistenza a quanto è espresso.
Si può dire, in conclusione, che gli atteggiamenti fondamentali della fede, speranza, carità richiedono una disposizione abituale, collocata nell’ambito della autoprogettazione e, di conseguenza, frutto di educazione, che traduca nel ritmo dei gesti concreti e quotidiani il significato di vita che essi rappresentano.
Gli atteggiamenti fondamentali della vita cristiana portano a compimento e a radicalità la vita quotidiana di ogni uomo, nella misura in cui questa si esprime verso la sua autenticità umana. L’uomo, costruito capace di attuare la propria salvezza nell’autocomunicazione di Dio, quando cresce in umanità nella direzione degli atteggiamenti corrispondenti, esprime la sua decisione, almeno implicita per Gesù Cristo.
18.2.2. Tra atteggiamenti e conoscenze
Questa riflessione è molto importante per comprendere, in prospettiva educativa, il processo che porta verso l’integrazione tra la fede e la vita e per aprirlo alle conseguenze concrete cui farò cenno tra poco.
Al centro del processo stanno gli atteggiamenti: quelle capacità operative che armonizzano le doti personali in una disponibilità, agile e pronta, ad intervenire quando è il momento, sapendosi richiamare a motivazioni di riferimento.
Gli atteggiamenti rimandano continuamente alle conoscenze. Di esse esprimono la dimensione pratica e da esse, soprattutto, riprendono la qualità cristiana. Come ho già sottolineato, non qualsiasi atteggiamento fa il cristiano: egli deve misurarsi su Gesù Cristo, il suo messaggio e la testimonianza attuale della Chiesa. C’è quindi una linea di demarcazione netta tra atteggiamenti «determinati» da Gesù Cristo e atteggiamenti lontani dal suo progetto di vita. Le conoscenze sono la verifica oggettiva degli atteggiamenti, la loro riappropriazione nella direzione della verità dell’evento di Gesù.
Le conoscenze però non sono fine a se stesse; né rappresentano il terreno su cui verificare il livello di integrazione tra la fede e la vita. Non si tratta infatti di «sapere» e di dimostrare di «sapere», ma di investire tutta l’esistenza di questo «sapere». Integrare fede e vita significa fondamentalmente operare una ristrutturazione di personalità, tale da restituire all’evento di Gesù la funzione di «determinante» nelle scelte e nelle decisioni di vita. Non ricerchiamo quindi conoscenze di tipo nozionistico, ma conoscenze che permettano di valutare e di intervenire nelle concrete situazioni di vita, con costanza e con coerenza.