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    Ringiovanire la Chiesa

     Verso un nuovo rapporto

    tra giovani e chiesa 

    Riccardo Tonelli



    V
    iviamo in una stagione particolarmente felice del rapporto tra giovani e Chiesa.

    Molti fatti ci indicano che… qualcosa sta cambiando. Dai giorni del disinteresse e della contestazione sembra quasi di essere tornati ai giorni felici in cui il rapporto era intenso, partecipato, arricchente. Che cosa sta capitando?
    La domanda investe molte frontiere.
    In questo momento ci interessa la Chiesa, il suo rapporto con i giovani, il suo modo di essere.
    La Chiesa ha bisogno di essere ringiovanita dall’interno oppure… va bene così? Se ritrova il coraggio di proporsi con decisione esigente, trova ancora consenso e ascolto?
    Lo studio che segue parla del rapporto tra giovani e Chiesa, sollecitando – dal confronto – un coraggioso impegno di rinnovamento nella Chiesa stessa. Sono affrontate varie questioni particolarmente “calde” oggi: il modo di fare memoria per affrontare la crisi di speranza che attraversa l’oggi, lo stile con cui risolvere gli eventuali conflitti… di competenza, il nodo dell’identità. 
    Lo studio si conclude poi con alcuni suggerimenti metodologici relativi alla pastorale giovanile quotidiana.


    LA PROSPETTIVA

    L’argomento messo a tema può essere studiato da tanti punti di vista. Ne scelgo uno. Lo devo precisare e devo giustificare le ragioni della mia preferenza. 
    La mia attenzione corre verso l’evento della Chiesa e mi chiedo “perché” tentare operazioni di ringiovanimento nei suoi confronti e “come” eventualmente realizzare questa operazione.
    Suggerisco qualche ipotesi con l’unica pretesa di avviare un confronto e, sugli elementi condivisi, progettare interventi coerenti.

    Dalla parte dei giovani

    Il sottotitolo descrive un punto preciso di prospettiva da cui esaminare la questione.
    Non l’ho scelto io… ma sono lieto (e non solo per onestà professionale) di condividerlo e di assumerlo.
    In questa mia proposta studio soprattutto l’evento della Chiesa e non il suo rapporto con i giovani. La ricerca di una radiografia del rapporto “giovani e Chiesa” mi porterebbe lontano e dovrei imbarcarmi in un’impresa di cui sono poco competente e che rischierebbe di essere eccessivamente localizzata.
    Non ho intenzione però di offrire una teologia della Chiesa, annoiando con cose risapute e abbastanza inutili per affrontare i nostri problemi. Mi sembra più urgente elaborare una ecclesiologia in situazione, riflettendo sull’evento della Chiesa “dalla parte dei giovani”. Considero cioè i giovani (soprattutto il fatto di essere giovani in questo nostro tempo: il dato globale e culturale) come uno speciale tema generatore, che mi permette di cogliere meglio sfide e problemi e che soprattutto può orientare verso prospettive operative facilmente generalizzabili.
    Di conseguenza studio la questione del “ringiovanire la Chiesa” dalla parte dei giovani, convinto che l’esito di questo processo ha tante cose da dire a tutti i discepoli di Gesù… a prescindere dal fattore “età”.

    Ringiovanire… facendo memoria

    Chi è senza passato o chi ne ha una nostalgia sconsiderata… è senza futuro. Il presente resta prigioniero della sua trama convulsa e ingovernabile. Restiamo avvolti in una pesante coltre di disperazione.
    Così, tra nostalgia e presentismo, va in crisi profonda la speranza. Speranza è infatti riconoscere nel futuro ciò che rende vivibile il presente e ci rende capaci di trasformarlo. 
    Per ritrovare senso e speranza per il presente, abbiamo bisogno di scoprire il passato in modo originale: inventivo e non ripetitivo.
    Ho pensato alla Chiesa e al suo possibile ringiovanimento… da questa prospettiva.
    Ho scoperto una memoria, ricca e stimolante anche per gente dalla memoria corta e dalla pretesa di funzionalità immediata e sicura.
    Per questo ho deciso di mettere davanti alla mia ricerca sulla fatica di “ringiovanire la Chiesa” il libro degli “Atti degli Apostoli” e, soprattutto, un certo modo di leggerlo e di meditarlo. Esso propone quella ipotesi criteriologia da cui parto e a cui farò riferimento frequente.
    Proprio a causa di questa scelta, la mia riflessione avrà soprattutto il sapore del racconto di una esperienza.

    RINGIOVANIRE: PERCHÉ?

    “Ringiovanire” è una esigenza normale e continua. Nasce dalla esperienza e dalla convinzione che gli anni non passano mai senza lasciare il segno.
    Possiamo parlare anche di “ringiovanire la Chiesa”… come se si trattasse di una rapida operazione di lifting, che interviene sulle istituzioni per renderle maggiormente significative?

    Tra mistero e cultura

    Proprio all’inizio del libro degli “Atti degli Apostoli” c’è un particolare interessante, certamente provocatorio per gente come noi.
    Dopo la scomparsa di Gesù e la consegna della comunità apostolica alla responsabilità di Pietro, la prima cosa che salta agli occhi è l’abbandono di Giuda. Esso ha prodotto uno sfasamento nel gruppo ristretto di coloro che hanno la responsabilità istituzionale più piena. Qualcuno deve occupare il posto lasciato vacante, quasi per ripartire rinnovati. Come scegliere il sostituto?
    Pietro si trova davanti a due candidati. Deve scegliere. A questo punto il riferimento allo Spirito si fa esplicito. Ma… per ascoltare la voce dello Spirito tira la sorte. Un modo davvero strano di lasciarsi guidare dallo Spirito.
    È strano per noi che siamo di un’altra cultura e ridiamo di gusto di fronte a chi sceglie… giocando ai dadi e attraverso procedure un poco magiche. Non lo era per Pietro, convinto che poteva dichiarare tutto il suo affidamento alla presenza misteriosa dello Spirito, utilizzando un modo di fare abituale nella sua cultura. 
    Come si nota, proprio i primi passi della vita della Chiesa sono segnati da quel rapporto tra fede e cultura che riempie tutto il libro degli “Atti”. 
    Questo è il dato fondamentale che sta alla radice della necessità di procedere a “ringiovanire la Chiesa”. Non è né una moda né una esigenza per non perdere credibilità. Le deriva radicalmente dalla sua costituzione fondamentale. Il suo mistero prende, infatti, continuamente l’umana carne della cultura dentro cui si esprime.

    Una stagione di profondi cambi culturali

    Chi deve comunicare con una persona di cui ignora la lingua, non è messo in crisi sulle cose che deve dire, ma sullo strumento di cui si serve per esprimersi. Può uscire dall’impasse, cercando un interprete o sottoponendosi ad un corso accelerato di apprendimento. Nulla gli chiede di verificare il contenuto della sua proposta.
    La crisi che attraversa oggi l’annuncio del Vangelo, in una società complessa, è solo a questo livello o, al contrario, le difficoltà si annidano altrove? La questione è solo di oggi o ha investito sempre il processo di evangelizzazione?
    Dio parla all’uomo in parole d’uomo. Quello che si vede, si constata, si ode… si porta dentro un mistero, altrimenti indicibile, che è la presenza e la parola di Dio.
    È importante constatare che questo intreccio misterioso riguarda, in modo radicale, l’evento della Rivelazione. Riguarda però anche la sua traduzione sul piano concreto e quotidiano della vita della comunità ecclesiale: l’evangelizzazione. Come ha fatto Gesù, così anche oggi i discepoli di Gesù continuano a parlare di Dio agli uomini, pronunciando parole umane per dare volto e parola al mistero ineffabile di Dio.
    Anche la risposta che l’uomo dà all’appello contenuto nella Rivelazione ripete lo stesso schema comunicativo. 
    La comunità ecclesiale è consapevole che nella parola di Dio, nella riproposta di questa parola attraverso l’evangelizzazione e nella risposta dell’uomo, la presenza di Dio e la decisione di accogliere questa presenza d’amore, si esprime e si realizza rivestendo quell’evento misterioso di libertà e di amore, che è il dono di Dio e la risposta dell’uomo, della propria cultura e della cultura del contesto in cui siamo inseriti. Per questa ragione, siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta infatti di ripetere passivamente l’esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.
    Riconosciamo che la potenza dello Spirito rende la nostra “parola” capace di suscitare ed esprimere la fede. Lo fa sempre nella trama delle logiche umane quotidiane cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.

    Lo scontro sui modelli culturali nell’esperienza ecclesiale dei giovani

    Lo scontro tra mondi culturali diversi diventa violento o rassegnato soprattutto a livello giovanile, per la distanza notevolissima esistente tra la cultura che dà l’umana carne alla esperienza ecclesiale, e quella tipica dell’essere giovane in questo nostro tempo.
    Non si tratta di constatare da che parte stia la ragione. Si tratta di prendere atto che il dialogo si fa difficile per le diverse collocazioni culturali ed esistenziali.
    La trasformazione culturale in atto mette in crisi, infatti, riferimenti che nel modello tradizionale sembravano insuperabili Mi basta accennarli… perché ne abbiamo parlato e scritto ormai persino troppo. Questo è l’ambito in cui le riflessioni teoriche rimbalzano come provocazioni pratiche.
    Ecco alcuni elementi di confronto e di scontro:
    il rapporto tra soggettività e oggettività: il mondo pacifico oggi e quello egualmente pacifico della comunità ecclesiale, tutta preoccupata di una verità intangibile;
    consapevolezza riflessa ed espressa dei contenuti della fede che porta a cercare tutti i mezzi per assicurare quella conoscenza precisa e verificabile che non riusciamo più a constatare neppure tra i giovani più vicini;
    le condizioni di appartenenza: i parametri ufficiali e consolidati sul piano istituzionale sembrano ormai definitivamente sfumati sul piano esperienziale;
    scollamento tra esperienza di fede e esperienza etica a causa del soggettivismo e tra pratica quotidiana ed esperienze forti (per esempio sul piano liturgico e sacramentale);
    crisi quasi irreversibile dei processi di trasmissione della fede, anche per la mancanza di adulti significativi, che siano testimoni credibili di questo processo.

    Un esempio concreto: la ricerca di spiritualità

    Quello che ho dichiarato con riferimenti teorici, lo voglio riprendere con una indicazione concreta: un esempio che può aiutarci a pensare al tema all’ordine del giorno, a partire da vissuti quotidiani.
    Siamo rimasti tutti fortemente impressionati da quello che è capitato alla morte di Giovanni Paolo II. Neppure le persone più entusiaste o più decisamente nostalgiche avrebbero potuto immaginare la quantità imprevedibile di persone (giovani, soprattutto), convocata da questo evento, disposta ad attese snervanti e a notti insonni pur di vivere in prima persona l’evento.
    Qualcuno ha gridato al miracolo e ha proclamato il ritorno dei vecchi e felici tempi.
    Fuori discussione, questo e altri simili sono eventi di esperienza spirituale notevole, che parlano di ecclesialità… e sembrano riconoscere che non c’è proprio bisogno di ringiovanire… quando basta rilanciare.
    Ho paura però a generalizzare con eccessiva facilità. Sappiamo tutti la capacità aggregativa che altri eventi, poco ecclesiali, possiedono… con richieste abbastanza simili a quelle esigite dagli eventi ecclesiali citati.
    La constatazione apre, per forza, ad un discernimento critico. Introduce, almeno a livello esemplificativo, il bisogno di… ringiovanire la Chiesa per non lasciare a fatti (spesso equivoci) l’ultima e decisiva parola.

    UN SOGNO, CORAGGIOSO E IMPEGNATIVO

    Per ringiovanire abbiamo bisogno di porre davanti al nostro sguardo un sogno sulla Chiesa, pieno di futuro, capace di lanciarci oltre le esperienze quotidiane.
    Questo sogno ci inquieterà… ma ci solleciterà a procedere in avanti nell’opera di ringiovanimento della Chiesa, se nasce e si radica sul concreto quotidiano, anche quando lo supera e lo travolge nell’onda del futuro che ci è donato.
    Non mi piace lanciarmi sulle teorie. Preferisco cercare di costruire un sogno “a colori” (per essere davvero un sogno) e “con i piedi radicati nel quotidiano” (per essere un sogno realizzabile… uno di quelli che, se lo desideriamo ardentemente, una volta o l’altra avremo la gioia di vedere realizzato).
    Il mio sogno si articola attorno ai “nodi” della vita ecclesiale attuale (appartenenza, esperienza, corresponsabilità), rileggendo quello che è capitato alla Chiesa apostolica, in uno dei momenti più drammatici della sua storia… e che è sfociato in uno degli eventi più coraggiosi e felicemente ripetuti. Penso al problema drammatico che stava dividendo la comunità di Antiochia e alla soluzione che a Gerusalemme è stata elaborata, inventando… il Concilio e una criteriologia formidabile (vi veda Atti 15).

    La questione

    Il racconto degli “Atti” descrive il problema in tutta la sua gravità, capace di suscitare dispute accese, tensioni e sospetti. Ci si chiedeva: coloro che si decidevano per la fede cristiana e non provenivano dal mondo giudaico, dovevano vivere sottoposti alla legge di Mosè? I punti scottanti erano soprattutto tre: l’osservanza scrupolosa della Legge mosaica, la pratica della circoncisione e l’astinenza da certi tipi di carne. La soluzione non era facile. 
    Questo è quello che appare a prima vista.
    A monte però c’era una grave questione cristologica: Gesù è il salvatore, l’unico nome su cui ottenere la salvezza. Basta da solo… o ci vuole qualcosa d’altro… Mosé, le tradizioni, il rispetto e l’osservanza delle leggi, la devozione verso personaggi speciali… sono una condizione indispensabile aggiuntiva? Tutti erano d’accordo nel riconoscere la centralità assoluta di Gesù per la salvezza; si rendevano pienamente conto che la sua mediazione salvifica poteva essere incrinata se subentravano altre esigenze concorrenti. Era però difficile decidere la portata concreta di questo orientamento di fondo.
    Scavando un poco su questa situazione, ho l’impressione che ci sia qualcosa di ancora più impegnativo. Un poco alla volta passiamo così da problemi… vecchi a questioni di vivissima attualità.
    Se si discute sulla circoncisione o sulla sua abolizione, andiamo solo al passato. Se ci si chiede fino a che punto i discepoli di Gesù hanno il coraggio di riconoscere che la salvezza è dono gratuito di Dio in Gesù, non assicurabile né garantibile attraverso altre mediazioni… siamo già precipitati nel nostro oggi. Ma c’è ancora molto di più.
    I primi discepoli avevano la convinzione – incoraggiata da molte testimonianze – che i tempi fossero ormai brevi e la venuta del Signore fosse imminente. Si trovavano a vivere il presente con la coscienza della sua relatività e provvisorietà. In una situazione come questa, era proprio sciocco porsi dei problemi che sarebbe stati presto travolti dal futuro alle porte. Con questa consapevolezza, sapevano di essere costretti a scegliere le cose che contano, lasciando tra parentesi tante cose inutili o, almeno, marginali.
    E invece i tempi si allungano: il presente si stava facendo ampio, impegnativo, traboccante di incognite, punteggiato da una serie di urgenze ormai indilazionabili. Erano abituati, da buoni ebrei, a guardare il presente dalla prospettiva del passato. Avevano fatto una conversione radicale di mentalità per guardare il passato e il presente dalla parte del futuro… E adesso sono costretti a misurarsi con un presente che spinge quasi a dimenticare passato e futuro.
    La faccenda è teologica… perché il presente è il luogo del Regno di Dio che sta realizzandosi nel tempo, come il piccolo seme diventa albero grande.
    Come vivere il Regno di Dio tra ricordo, attesa, impegno?

    Verso decisioni di futuro

    Il problema va risolto. E in fretta. Chi lo può risolvere?
    La pagina degli “Atti” che stiamo meditando, spalanca una finestra su un modo di gestire la comunità, che dà davvero da pensare. Tre movimenti si intrecciano, come le note di una sinfonia riuscita.
    Prima di tutto i cristiani di Antiochia (lontana da Gerusalemme… dove potevano risolversi tranquillamente i problemi senza aggiungere interferenze inutili) si appellano all’autorità. Vanno da Pietro e dagli apostoli e sottopongono ad essi la questione. La vita della comunità ecclesiale non è orientata dai pareri illuminati degli esperti, ma dalla responsabilità apostolica di quei fratelli cui Gesù ha consegnato il compito di guidare la comunità nell’unità verso la verità.
    Pietro e gli apostoli non decidono da soli, chiudendo porte e finestre sulla realtà per non essere disturbati. Al contrario, convocano l’assemblea. Inventano il Concilio… la grande assemblea dei discepoli di Gesù, affidata allo Spirito, per ascoltare assieme la sua voce e trovare assieme le vie per realizzare il suo progetto nel tempo. Anche quando non si arriva ad una forma così solenne, il rapporto con la comunità è sempre forte e vivace.
    L’assemblea di Gerusalemme (il primo Concilio, come mi piace dire) non è però un’accozzaglia di pareri, dove gode di ascolto chi grida di più o riesce a influenzare più astutamente le decisioni degli altri. Si tratta di un’assemblea “gerarchicamente costituita”, come diciamo noi nel nostro gergo . È guidata da Pietro. In essa parlano prima di tutto gli apostoli. Il documento conclusivo è firmato dallo Spirito santo e da Pietro e gli apostoli.

    La criteriologia

    Anche il modo con cui a Gerusalemme è stata trovata la soluzione del problema, ha tanto da dire anche a noi, oggi, sempre alla ricerca di linee nuove di azione.
    L’assemblea di Gerusalemme non cerca di spezzare un capello in quattro, raffinando analisi e documentazioni. Neppure cerca quel tanto di compromesso che assicura l’unanimità sul minimo. Propone, al contrario, una conclusione innovativa attraverso una criteriologia di verifica assai originale.
    Pietro racconta la sua esperienza… quell’avventura stranissima di cui è stato protagonista a Giaffa (Atti 10, 930) . Da buon discepolo di Gesù, che si riconosce pieno dello Spirito, sembra dirci: ascoltiamo i fatti. In essi parla lo Spirito, se ci lasciamo guidare da lui, anche nell’interpretarli correttamente. Nel fatto citato lo Spirito dichiara, attraverso l’interpretazione autorevole di Pietro: “Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati”. La stessa procedura è realizzata da Paolo: anche lui racconta quello che è successo, per far toccare con mano da che parte sembra orientare lo Spirito. Tra l’altro… fa una cosa che potrebbe creare meraviglia e disappunto alla gente seria come siamo noi: durante il viaggio verso Gerusalemme, alla ricerca della soluzione del problema, non resta con le mani in mano né aspetta la soluzione prima di muoversi, ma annuncia il vangelo ai pagani, nello stesso stile con cui lo si faceva ad Antiochia, scatenando le polemiche.
    Poi interviene un altro riferimento decisivo, frutto della sapienza di Pietro e di Giacomo… un altro di quei criteri che riesce a portare a decisioni di futuro, costringendo a schizzare fuori delle beghe intellettualistiche.
    Pietro e Giacomo propongono di spostare l’attenzione dai principi a quella esperienza normativa fatta da tutti loro stando con Gesù: la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità, se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura.

    La presenza operosa di Dio per sognare

    Gli “Atti” raccontano un sogno. Ma si tratta di un sogno speciale. Esso ha Dio come protagonista. Lui è il nostro sogno di futuro che ci permette di vivere il presente, anticipando frammenti di futuro fino alla pienezza, sperimentata nella gioia, del nostro sogno. Egli fa realizzare i sogni. Dalla parte del futuro scopriamo meglio, con un sguardo molto più penetrante, il limite che attraversa il nostro presente. Non ci disperiamo e nemmeno ci rassegniamo. Continuiamo a sognarlo, nella certezza che i nostri sogni, proprio quando sono belli davvero, avremo la gioia di vederli realizzati.
    Per questo, la comunità apostolica è tutta concentrata nella celebrazione dell’Eucaristia. In questo evento coniuga il presente con i suoi problemi, con il passato dove incontra le cose meravigliose che Dio ha realizzato per il suo popolo, e sperimenta la gioia del futuro nelle pieghe sofferte del presente, dove tutti i sogni diventeranno esperienza diretta.

    PER FARE ORDINE NEL PLURALISMO

    Le note precedenti offrono un ritratto di Chiesa, che procede dalla constatazione dell’esistente al sogno verso cui orientare l’opera di ringiovanimento.
    Quello che ho raccontato fa parte del passato… bello, felice, ma sempre di passato. E oggi?
    Oggi abbiamo i nostri problemi e quel che è peggio non abbiamo l’entusiasmo dello stato nascente. Ritorna spesso una constatazione preoccupante: va bene lavorare per ringiovanire la Chiesa… ma se in questa operazione la svuotassimo, fino a costruire qualcosa che assomiglia davvero poco al progetto che Gesù ha affidato ai suoi discepoli.
    Ci inquieta il fatto che ogni tanto spuntano persone e gruppi tutti impegnati a ridare credito e ascolto alla Chiesa, assicurando una fedeltà a prova di resistenza… e rilanciando pratiche e modelli che sembrano scomparsi. Qualcuno poi li cita ad esempio, anche sulla forza dei risultati.
    Anche molti giovani si lasciano attrarre da queste esperienze. E qualcuno arriva presto a concludere… che basta un poco di coraggio e di forza propositiva per risolvere felicemente i problemi. Si dice che non servono le realizzazioni dai colori forti. Basta la tradizione… l’impegno… la santità.
    Ringiovanire la Chiesa… non potrebbe voler dire riportarla di peso a quello che ci è stato consegnato, come rilanciare le nostre Congregazioni religiose non potrebbe significare ritornare coraggiosamente al fondatore e ai primi testimoni?
    La seduzione è forte ed è persino confortata da qualche raccomandazione autorevole.
    Non mi piace affrontare una questione tanto complicata all’insegna dell’entusiasmo, delle frasi ad effetto o, peggio, sull’onda dei risultati numerici. Sono convinto che in gioco ci sia un serio problema d’identità: chi siamo come discepoli di Gesù e verso dove dobbiamo orientare la nostra esistenza quotidiana?
    Per ringiovanire… dobbiamo ricostruire una identità stabile e sicura. Quale identità?
    Ancora una volta sono aiutato dalla memoria. Il primo capitolo degli “Atti degli Apostoli” fornisce un quadro di riferimenti formidabili. Compresi, meditati e attualizzati possono davvero diventare un criterio sicuro su cui confrontare il nostro impegno di ringiovanire la Chiesa. Ritagliano infatti l’identità operativa dei discepoli del Risorto.
    Li ricordo a veloci battute.

    Dalla nostalgia alla missione

    La nostalgia di Gesù è fortissima. Ed è logico che sia così. Ma chi ha imprese alte da compiere… non si può permettere il lusso della nostalgia.
    Il rimprovero messo sulla bocca dei due uomini vestiti di bianco, dà da pensare: Perché state a guardare il cielo con il naso all’insù… come se tutto fosse lì? C’è un’opera grande da compiere. Gesù ve l’ha consegnata ed è ormai tempo di darsi da fare per realizzarla.
    Ora è il tempo della fatica, del lavoro, dei progetti e delle realizzazioni. Poi torneranno i tempi felici in cui si potrà gustare ancora la dolce compagnia di Gesù.
    Tornerà… quando? Non lo sappiamo e non dobbiamo arrovellarci il cervello per immaginarlo. L’unica cosa certa è che tornerà e che ora però siamo impegnati a portare avanti il compito che ci è stato affidato: essere testimoni del Vangelo di Gesù fino ai confini più remoti del mondo.
    Il rimprovero, secondo il racconto del libro degli “Atti”, tocca proprio i due elementi fondamentali dell’esistenza dei discepoli di Gesù.
    Ci piacerebbe sapere in anticipo come vanno le cose, possedere quel frammento di conoscenza riservatissima che ci dà potere e sicurezza. Ci piacerebbe… ma non c’è proprio nulla da fare. I tempi sono nel mistero di Dio e nessuno possiede il diritto all’accesso. Anche quelli che fanno finta di avere la chiave dei segreti, alla fine hanno anch’essi proprio nulla da proporre con quella sicurezza che possiede chi ha la chiave della verità. La loro presunzione si fonda solo sulla mancanza di conoscenza. Questa è la speranza dei cristiani. Per questa speranza parlano del presente come se vedessero l’invisibile e riconoscono, nello stesso tempo, che l’invisibile è continuamente sottratto ad ogni nostra pretesa.
    La mancanza di informazioni sicure non costringe all’inerzia. Al contrario, sollecita all’azione, coraggiosa e animata da una speranza operosa. Gesù ha consegnato agli apostoli un compito grande da realizzare. La passione per questo compito – che è come la perla preziosa per conquistare la quale siamo disposti a tutto (Mt 13, 46) – dà senso e prospettiva alla vita. Non operiamo per il Regno di Dio perché siamo “informati”. Lo facciamo perché siamo gente “appassionata”, che si fida di Dio e si affida a lui… lasciandoci guidare dallo Spirito di Gesù che ci ha trasformato dal di dentro.
    Davvero, la nostalgia lascia il posto alla fatica di realizzare il progetto che ci è stato affidato. Con gli apostoli scendiamo dal monte per riempire Gerusalemme del fragore della nostra passione per la vita e la speranza.

    Un tempo per la contemplazione

    Una seconda caratteristica dell’identità cristiana ce lo comunicano ancora gli apostoli, con il loro modo di fare.
    Sono sollecitati all’azione e, cosa stranissima per gente come noi, fanno subito una sosta per mettersi a pregare: “si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il Vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati.
    Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.
    Un dato più grande attraversa però questa constatazione. Ci riporta ancora una volta al cuore della missione apostolica ed ecclesiale.
    I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel Regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano… anche se lo richiede intensamente. Il Regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: “La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io la consegno a voi, perché siete miei amici”. E subito aggiunge: “Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi… senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza… solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi… preziosissimi perché la causa della vita è data in consegna a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio”.

    Testimoni della resurrezione

    Pietro ha bisogno di indicare alla comunità apostolica una persona a cui affidare in pieno titolo tutti i compiti che derivano dalla vocazione apostolica. Non gli basta constatare che uno dei due è tanto bravo e onesto, da portarsi dietro il soprannome di “Giusto”. La disponibilità vocazionale ha bisogno di qualcosa di più consistente e radicale.
    Pietro suggerisce così due riferimenti per operare il necessario discernimento vocazionale: la confessione che solo Gesù è il Signore e la capacità di essere gente di speranza sulla forza della resurrezione.
    Il posto lasciato libero da Giuda, è per una persona che abbia conosciuto Gesù, abbia camminato con lui fin dall’inizio, sia un testimone sicuro e di prima mano. 
    Il criterio per noi potrebbe sembrare impossibile. Non si cancellano duemila anni di storia trascorsa. Eppure il suggerimento è davvero serio e impegnativo. Senza condivisione appassionata di una persona e della causa che ha riempito l’esistenza di questa persona, diventiamo impiegati e non apostoli.
    Mi sono chiesto cosa significa tutto questo per noi oggi. La risposta è facile… anche se mette in crisi. Noi possiamo tradurre il criterio di Pietro con l’espressione fondamentale: va scelta una persona affascinata dal Signore Gesù, capace di porlo al centro della sua esistenza. Si tratta, in altre parole, di scegliere la nuova responsabilità in Gesù e per Gesù… evidentemente per la causa di Gesù, in fedeltà a quanto i Vangeli dicono di Gesù e della sua esistenza. Non sono ammesse persone che abbiano secondi fini… anche i più nobili dal punto di vista religioso.
    Il secondo elemento rilancia il coraggio di servire con decisione la speranza.
    Pietro dice: il posto di Giuda è per una persona che sia capace di diventare “testimone della resurrezione”. 
    Essere testimoni della resurrezione significa dichiarare con i fatti che il Crocifisso è il Risorto: colui che era stato distrutto, fino a togliergli persino il volto di uomo nel nome della legge, ha vinto la morte ed è vincitore per tutti. Il testimone della resurrezione è una persona di speranza, che inonda di speranza e di ottimismo, per la potenza di Dio, ogni fatto della vita quotidiana.

    UN PROCESSO DI CONSOLIDAMENTO DELL’ESPERIENZA ECCLESIALE

    Ho suggerito una serie di indicazioni, ricavate dalla memoria del vissuto ecclesiale delle origini, per immaginare il “volto giovane” della comunità ecclesiale quell’esperienza concreta capace di offrire a chi cerca senso per la vita e speranza per il futuro, qualcosa di cui fidarsi e a cui consegnare i propri sogni. Ho davanti al mio sguardo i giovani di questo nostro tempo: tutti i giovani e non solo quelli che mille segnali dichiarano disponibili persino di fronte al volto attuale della comunità ecclesiale. 
    Non basta però restituire giovinezza al volto della Chiesa per concludere sulla sua forza propositiva e per rassicurare sulla sua capacità aggregativa.
    Si richiede la messa in opera di un attento e intelligente processo pastorale, capace di fare della comunità ecclesiale una realtà significativa, perché sia propositiva, e ricca delle condizioni che ne assicurino un alto senso di appartenenza.
    Su questo compito, conseguente al primo, concentro ora le mie ultime riflessioni, attraverso il suggerimento di interventi a carattere prevalentemente metodologico.

    Consolidare il senso di appartenenza

    In ordine all'educazione all'appartenenza ecclesiale, in questi anni, abbiamo scoperto e sperimentato l’urgenza di un attento e approfondito cammino educativo.
    Esso riguarda soprattutto l'esperienza di identificazione che la comunità ecclesiale con cui i giovani sono a contatto, sa scatenare e sostenere. L'identificazione è infatti quel processo che spinge una persona a far propri valori e progetti in un vissuto affettivo sorto a causa del suo inserimento in una situazione concreta.
    L'appartenenza è come il risultato dell'identificazione: l'esito verificabile del processo che porta un giovane a considerare l'istituzione, le persone che la compongono, i valori che in essa circolano, come suo punto di riferimento decisivo per le valutazioni e per le operazioni che punteggiano la sua esistenza quotidiana.
    Dall’elenco delle condizioni che possono sostenere il processo di identificazione alla comunità ecclesiale, nascono i nostri impegni concreti.
    Si richiede prima di tutto un minimo di interazioni dell'individuo con la comunità ecclesiale a cui si vuole appartenere. Questo minimo va pensato non in termini giuridici, ma secondo le logiche della dinamica di gruppo (condivisione degli obiettivi, percezione del suo significato funzionale, accettazione delle norme e dei ruoli, esperienze di gratificazione...).
    Occorre anche la conoscenza e l'accettazione del sistema di valori, credenze e modelli che determinano la proposta oggettiva della comunità, fino a definire progressivamente in essi il personale progetto di vita.
    Questo processo comporta l'acquisizione e il consolidamento dei contenuti dell'esperienza cristiana, la partecipazione affettiva ai gesti e ai riti, il riconoscimento di una funzione magisteriale, l'adozione dei modelli proposti per la soluzione dei personali problemi.
    Si richiede inoltre la percezione di essere accettato nella comunità. E questo suppone l'inserimento in una trama di rapporti né burocratici né formalizzati, un'ampia distribuzione di informazioni e di ruoli, un gruppo non troppo vasto.
    In un tempo di pluralismo, si richiede infine la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, per elaborare i conflitti che ne scaturiscono, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad una appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.

    La funzione dei luoghi ecclesiali

    Il sostegno all’appartenenza ecclesiale è assicurato prima di tutto dall’esperienza offerta dai luoghi ecclesiali (strutture, gruppi e movimenti, progetti…).
    Nella nostra tradizione educativa ne abbiamo molti di questi luoghi ecclesiali. Purtroppo però i profondi cambi culturali attuali li mettono in crisi o ne riducono ampiamente la funzionalità.
    I giovani definiscono sempre di più la loro identità personale, colgono i problemi ed elaborano le risposte al di fuori dei luoghi educativi tradizionali. I luoghi della vita quotidiana vengono spesso vissuti come luoghi alternativi rispetto a quelli ecclesiali ed educativi tradizionali. In questa sfida va ripensata decisamente la funzione dei luoghi ecclesiali, per restituire ad essi forza propositiva e funzionalità educativa.
    Tre operazioni mi sembrano particolarmente urgenti. Le elenco solo a battute velocissime.
    Si tratta, prima di tutto, di restituire ai luoghi educativi tradizionali quella capacità di alta significatività di cui hanno goduto per tanto tempo. L’identificazione educativa parte proprio da questa esperienza.
    Si richiede poi da parte della comunità ecclesiale la capacità di riconciliarsi con i luoghi della vita quotidiana, evitando quelle facili generalizzazioni che hanno qualche volta introdotto giudizi pesanti nei confronti dell’esistente… solo perché non riusciamo a controllarlo come avremmo desiderato.
    Infine vanno messi in atto quei processi educativi che sappiano restituire ai luoghi ecclesiali la funzione di verifica e di riferimento (e non di alternativa) rispetto alla quotidianità, soprattutto attraverso la funzione di adulti significativi e responsabili.

    Esperienze forti e interiorizzazione

    Se vogliamo far scoprire la Chiesa, non ci basta sicuramente percorrere la via dell’informazione: parole, documenti, modelli… in questa situazione culturale lasciano davvero il tempo che hanno trovato.
    Il confronto con molte interessanti realizzazioni spinge a riconoscere l’urgenza di esperienze forti, capaci di scatenare attenzione e crisi, per aprire verso l’inedito, e, di conseguenza, di personalità forti, capaci di creare identificazione e ascolto. Lo esige anche la qualità della proposta cristiana, che non può essere ridotta a qualcosa di scontato e tranquillizzante.
    In una situazione culturale come è l’attuale, non possiamo però dimenticare che l’urgenza di fare proposte è fortemente collegata alla qualità delle proposte stesse. Soprattutto non possiamo ignorare, in qualsiasi proposta, la necessità inderogabile di assicurare sempre le condizioni irrinunciabili per favorire l’interiorizzazione della proposta e la sua capacità liberante e responsabilizzante.
    Inoltre, in un tempo di larga complessificazione è doveroso offrire pluralità di proposte, come espressione differenziata di un quadro unitario fondamentale. Questa pluralità di proposte è una risposta a situazioni differenziate. In questo modo le proposte diventano concrete, aperte verso tutti, orientate verso i referenti concreti cui vuole rivolgersi.

    Un itinerario

    L’ultima nota riguarda il cammino logico che, nell’attuale situazioni culturale e sociale, può portare ad un maturo senso di appartenenza ecclesiale.
    La tradizione educativa e pastorale suggeriva un cammino che partiva dalla Chiesa per arrivare all’incontro con Gesù. La qualità della vita forniva una specie di prova d’esame per misurare la correttezza dell’incontro e della decisione.
    L’operazione poteva funzionare in un contesto culturale differente dal nostro. Ora dobbiamo fare i conti con la crisi prodotta dalla soggettivizzazione e dalla pretesa di esperienzialismo, misurandoci con i problemi e accogliendo i contributi positivi. esasperato. 
    Provo quindi ad immaginare un cammino che ripensi il dato tradizionale all’interno di alcune novità culturali ed ecclesiologiche. Lo faccio dando voce a molte realizzazioni in atto e, per questo, mi limito ad una specie di indice ragionato di interventi e di preoccupazioni.

    La prima tappa: un bisogno di umanità autentica

    Per consolidare l’esperienza ecclesiale, prima di tutto, è necessario ricostruire e stabilizzare una matura esperienza religiosa. L’appartenenza alla Chiesa funziona secondo parametri radicalmente diversi da quelli tipici delle altre appartenenze: i vantaggi… sono sostituiti dall’affidamento al mistero e dalla responsabilità vocazionale.
    Considero l'esperienza religiosa come la ricerca di un significato alla propria vita, collocato oltre quelli che ciascuno produce, nell'esercizio delle sue scelte e degli orientamenti quotidiani. Essa si fa quindi ricerca, attesa, apertura verso la trascendenza.
    Questo modello si colloca nel centro delle sfide che la cultura di oggi ci lancia. Propone un modo, spesso alternativo alla logica del secolarismo e dell'autosufficienza, ma lo fa con uno stile che risulta vivibile anche in questa situazione. E suggerisce una ricostruzione dell'identità personale in un tempo in cui sembra essere spesso in crisi, mediante l’esperienza, gioia e condivisa, del limite come dimensione autentica dell’esistenza.

    L’incontro con Gesù il Signore

    L'esperienza religiosa rappresenta il livello più alto di maturazione umana: un uomo aperto sul trascendente è veramente e pienamente uomo. 
    Il nostro servizio di educatori della fede non termina però a questo livello di umanizzazione. Per educare alla fede dobbiamo aprire verso il confronto e l'accettazione di un evento rivelato: la vita cristiana piena si compie in Gesù Cristo e diventa comprensibile solo nella fede in lui.
    Proponiamo con forza e audacia Gesù Cristo come incontra il segno concreto e sconvolgente della presenza di Dio nella storia e del suo progetto per la vita dell'uomo. Narriamo il suo Vangelo per sostenere e consolidare l'incontro con lui.

    Dall’incontro con Gesù alla scoperta della Chiesa

    L'incontro con Gesù Cristo ha sempre un respiro ecclesiale. Inizia nell’esperienza di quella Chiesa piccola e concreta che il giovane constata e condivide nel vissuto della comunità educativa, degli educatori e degli adulti cristiani in cui sa riconoscersi, del gruppo o del movimento a cui appartiene. Si consolida nella condivisione piena della Chiesa, "universale sacramento di salvezza" (LG 1).
    Senza la fede della Chiesa, la nostra fede sarebbe più povera: non sapremmo dove radicare la nostra decisione per Gesù Cristo e mancheremmo di riferimenti preziosi per vivere da credenti. Senza la vita della Chiesa saremmo lontani dal luogo dove sperimentare, in modo privilegiato, il dono della salvezza.
    La testimonianza di fede della Chiesa, nel suo lungo cammino, non è però solo una ripetizione passiva di fatti e parole consegnate una volta per tutte in modo conclusivo. Proclamando la sua fede, la Chiesa la interpreta, la comprende più a fondo, la scrive viva e attuale.

    La vita liturgica e sacramentale

    La vita ecclesiale si traduce e si esprime in una precisa e intensa dimensione celebrativa.
    Sull'importanza di questo livello formativo tutti sono d'accordo. Le posizioni si distanziano quando l'esigenza viene espressa secondo modelli pratici e modalità educative.
    Per non restare sul vago, ricordo alcune caratteristiche di questo momento dell’itinerario:
    Preghiera, liturgia e sacramenti possiedono anche una chiara connotazione formativa. Rappresentano uno dei momenti in cui i giovani sono aiutati a maturare come uomini nuovi, e il momento vertice della loro esperienza cristiana ed ecclesiale. Fanno parte quindi degli interventi di cui la comunità ecclesiale si serve per far maturare i giovani.
    Anche in ordine alla vita liturgica e sacramentale chi condivide il riferimento all'Incarnazione riconosce la possibilità di intervenire, con la gradualità e concretezza che caratterizza l'atto educativo. Per questo va prevista l'educazione ai simboli, ai riti e ai gesti: ricostruito questo tessuto antropologico, diventa più facile celebrare la liturgia del Signore Risorto.
    In questa prospettiva trova particolare significato la ricerca di una metodologia che metta in dialogo il naturale bisogno giovanile di far festa con la celebrazione di Gesù Cristo, Signore della vita e ragione della festa senza confini, in tutte le espressioni significative e quotidiane della vita del giovane.
    L'impegno della comunità ecclesiale va concentrato nella rivitalizzazione e rivalutazione della pratica sacramentale della Riconciliazione e dell'Eucaristia. Da una parte è importante educare ad accogliere eventi che sono dono e mistero e, dall'altra, esprimere anche queste celebrazioni uno stile e con modalità che siano vicine, significative e comprensibili per i giovani, nelle diverse culture.

    Al servizio di una qualità nuova di vita

    Una esplicita preoccupazione vocazionale è l'esito di ogni crescita nella maturità umana e cristiana.
    Il punto di riferimento per comprendere la vocazione cristiana è il Regno di Dio: la "passione" per la vita nel nome del Dio della vita, che diventa "compassione" per la vita di tutti, alla sequela di Gesù.
    Ogni credente è chiamato a vivere la sua quotidiana esistenza come impegno per la progressiva attuazione del Regno di Dio. I modi possono essere diversi. L'intenzione è unica e globale: la condivisione appassionata della causa di Gesù. Le molteplici espressioni vocazionali sono la traduzione in situazione dell'unica vocazione cristiana.

    UNA CHIESA CHE DONA SPERANZA

    Concludo le mie riflessioni ritornando alla memoria da cui ero partito.
    È interessante constatare la conclusione degli “Atti”. Essi, come sappiamo, non terminano con la morte di Paolo (come sarebbe logico in una “cronaca”), ma nello spaccato felice di Paolo che annuncia il Vangelo di Gesù, nonostante le catene.
    La Chiesa di Teofilo, quella a cui Luca dedica gli “Atti” con un classico gioco letterario, è una chiesa che ha paura di quello che sta capitando. Gli “Atti” rilanciano la speranza richiamando la responsabilità dell’annuncio missionario.
    I fatti, interpretati bene, spingono alla speranza… se è vero che basta deporre gli ammalati all’ombra di Pietro per far loro ritrovare la salute e che lo zoppo salta e balla di gioia, perché tutti sappiano che solo Gesù è il Signore.
    Questa è la speranza annunciata dagli “Atti”.
    Il nome di Gesù ridà vita e futuro. Ritroviamo la speranza quando troviamo la gioia e il coraggio di proclamarlo forte.
    La proposta degli “Atti” è di grande attualità.
    Si colloca nel grido verso la speranza che sale dagli uomini e dalle donne di questo tempo, stretti dall’angoscia della crisi di senso e dalla disperazione dell’onda di morte che ci avvolge. Suggerisce anche la risposta, precisa e perentoria: l’annuncio del nome di Gesù.
    Anche noi cerchiamo speranza, nella sofferta compagnia di tanti fratelli in umanità.
    Riconosciamo che il dono del Vangelo di Gesù ci è stato consegnato perché lo condividiamo per noi e per gli altri. In questo servizio di evangelizzazione, regaliamo e ci regaliamo speranza.
    Nell’annuncio coraggioso del Vangelo sperimentiamo chi siamo e perché ci siamo.
    Anche noi oggi, malgrado i rifiuti, le persecuzioni, i ritardi, le incertezze e i tradimenti, continuiamo nella Chiesa l’annuncio del Vangelo della speranza fino ai confini del mondo. E nessuna catena può bloccare la nostra passione evangelizzatrice.


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