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    10 suggerimenti

    Pedro José Gómez

    (NPG 05-01-03)


    Attualmente nelle parrocchie, movimenti e congregazioni religiose si sta facendo uno sforzo di rifondazione della pastorale giovanile, motivato dalla constatazione che il mondo dei giovani cambia a una velocità vertiginosa e che alcune scelte del passato avevano trascurato aspetti importanti del processo di trasmissione della fede.

    Vorrei qui illustrare alcune intuizioni che potrebbero migliorare il lavoro di evangelizzazione della Chiesa tra i giovani e che sono frutto sia della mia esperienza personale che della lettura di documenti recenti di gruppi che stanno cercando nuovi percorsi. Li esprimerò in formule polari che non hanno la pretesa di rispecchiare alternative ma, piuttosto, un cambiamento di accenti, oppure la necessità di dare equilibrio a impostazioni che, viste in prospettiva, sono risultate troppo unilaterali.

    Alcuni aspetti generali della questione

    Prima di accennare alle intuizioni pastorali che si vanno facendo strada a partire dalla stessa pratica educativa, mi sembra opportuno esprimere alcune convinzioni che sono abbastanza condivise dagli addetti ai lavori.
    * Tutti siamo coscienti che esiste una crisi acuta nella trasmissione intergenerazionale della fede.
    * La Chiesa deve, conseguentemente, affrontare l’annuncio della Buona Novella ai giovani con enormi dosi di creatività, sperimentando forme nuove di presenza e di testimonianza nei molteplici mondi giovanili.
    * Allo stesso tempo, predomina tra noi una sensazione di sconcerto. Sappiamo che qualcosa non funziona, che le iniziative che prima attraevano ora non lo fanno più, che mancano punti di aggancio tra bisogni e domande dei giovani e la nostra offerta del Vangelo.
    * Esiste una forte contraddizione tra il tono aperto, critico, creativo, personalista, comunitario di molti discorsi e documenti ufficiali sui giovani e la pratica molto più “gessata” della maggior parte delle istituzioni ecclesiastiche.
    * Dato che il cambiamento permanente è un dato irreversibile del mondo, bisogna rinnovare continuamente le mediazioni dell’esperienza cristiana (canti, gesti, linguaggio, metodi, narrazioni, testimonianze, simboli, attività, ecc.).
    * Allo stesso tempo, la meta di tutto il lavoro pastorale continuerà ad essere sempre la stessa: rendere possibile, per quei giovani che lo desiderino liberamente, l’incontro con Gesù di Nazaret, perché possano accedere al rapporto di fede con il Padre e perché lo Spirito configuri le loro vite in maniera che, inseriti nella comunità cristiana, arrivino ad essere diffusori dell’amore di Dio che si rivolge a tutti gli esseri umani e in particolare ai più poveri.
    D’altra parte esiste anche un consenso rispetto alle principali difficoltà che oggigiorno deve affrontare la pastorale giovanile. Le accenno in maniera molto riassuntiva perché servano da spunto per proposte successive.
    * Il dato più evidente è il disinteresse verso il fatto religioso. Esso è fortemente collegato a un globale atteggiamento di superficialità, non trascendenza, preoccupazione per le piccole questioni quotidiane, evasione rispetto alle situazioni che possono portare a interrogarsi radicalmente sulla vita. Se mancano le domande è inutile o addirittura controproducente presentare il Vangelo come risposta.
    * In secondo luogo mi sembra evidente che tra i giovani trionfano i surrogati non religiosi di salvezza: “La vita è un susseguirsi di piccoli momenti di piacere” dice con precisione filosofica un annuncio televisivo di Kit Kat.
    * Un’altra nota peculiare della situazione attuale si radica nella ricerca individualista di proposte pratiche di vita, realizzata a partire da un atteggiamento incentrato sui propri bisogni e caratterizzata dallo scetticismo di fronte alle grandi cause. Da questa prospettiva, la pretesa globalizzante, impegnata e comunitaria della fede cristiana trova resistenze nella sensibilità della maggior parte dei giovani.
    * Da ultimo, sembra chiara la crescente distanza tra la maggior parte della gioventù e la Chiesa. Questa inizia dalla lontananza geografica (la maggior parte dei giovani non passa per nessuno spazio ecclesiale), ma continua con la distanza generazionale, estetica, ambientale, organizzativa, morale e persino di linguaggio.

    10 PROPOSTE PASTORALI CONCRETE

    1. Dal socializzare nella normalità al proporre cose alternative

    Fino a pochi anni fa essere cristiani era normale nel nostro paese e i processi di socializzazione religiosa introducevano bambini, adolescenti e giovani a una visione del cosmo condivisa dalla società in modo naturale. Di fatto, la professione di fede si dava per scontata e la società sanciva positivamente la religiosità, penalizzando la mancanza di fede. Ora non è più così e, di conseguenza, la pastorale giovanile deve essere concepita come la proposta che la comunità cristiana fa ai giovani affinché optino per un tipo di vita alternativa che nasce da un’esperienza, quella della fede, che sta diventando minoritaria. Pertanto la proposta di Gesù, più che essere una risposta a un atteggiamento di ricerca, dovrà essere provocazione e interrogativo rivolto a dei giovani che, apparentemente, si trovano bene nella propria situazione ma che mostrano anche un certo disorientamento esistenziale quando si esprimono a un livello più profondo. Da qui la necessità di insistere sulla novità del Vangelo, sulla sua potenzialità di concedere una gioia e un senso alla vita insuperabili, ma riconoscendo, al tempo stesso, che la sua accoglienza colloca il cristiano controcorrente rispetto ad alcuni valori socialmente dominanti: crede in un clima religiosamente indifferente; collabora e condivide in un contesto dove prevale la competizione e il miglioramento del benessere economico; invita alla comunità in un clima individualista; chiama a impegnarsi con gli altri invece di coltivare l’indifferenza o l’isolamento, ecc. Una pastorale giovanile che non sottolinea la necessità di optare tutti i giorni per il Vangelo e che non coltiva una spiritualità della resistenza culturale dialogante (né ingenua, né settoriale), non ha futuro.

    2. Dagli incontri standardizzati all’incontro personale

    L’azione pastorale della chiesa è dipesa nel passato da meccanismi e forme abbastanza strutturate: socializzazione familiare, proposte per un tempo libero educativo, catechesi presacramentale, attività vincolate ai collegi religiosi, ecc. In futuro queste forme di avvicinamento di massa ai giovani finiranno per perdere buona parte della loro potenzialità per varie ragioni. In primo luogo perché gli agenti di socializzazione religiosa che abbiamo citato hanno perso dinamismo evangelizzatore (famiglia, parrocchia, aggregazioni per il tempo libero, scuole...), ma soprattutto perché i giovani sono molto più individualisti rispetto al passato, si mostrano sempre più restii a partecipare a gruppi strutturati e dispongono invece di una vastissima offerta di tempo libero consumista e non educativo che, nell’immediato, si presenta più attraente, divertente e meno esigente. Perciò, pur essendo opportuno mantenere o potenziare le iniziative tradizionali, risulterà sempre più necessario che i membri della comunità cristiana, mediante ogni tipo di attività, si avvicinino a ogni adolescente o giovane nella sua situazione personale, per cercare di creare con ognuno di loro qualche tipo di rapporto personale significativo basato sull’ascolto, il dialogo e l’affetto. L’agente pastorale dovrà fare attenzione al momento esistenziale di ogni giovane per trovare sempre la parola giusta che arrivi al suo cuore. Naturalmente questo approccio evangelizzatore è molto più difficile da compiere rispetto a quello basato su azioni standardizzate, ma ricordiamo che è proprio questo ciò che caratterizzava Gesù di Nazareth. Lui era in grado di incontrare la gente, nelle sue circostanze uniche, per invitare ognuno a seguire un itinerario personale e originale che, partendo dai suoi bisogni immediati, potesse situarli nell’orizzonte del regno di Dio. Questo approccio oggi diventa una necessità, visto che non possiamo parlare di una gioventù omogenea dinanzi al tema religioso e, quindi, di un solo tipo di incontro.

    3. Dalla priorità dell’azione all’attenzione per la contemplazione e l’affettività

    Gran parte della pastorale giovanile, soprattutto nella sua fase “missionaria” o di primo incontro, si è basata sulla realizzazione di attività di diverso genere: teatro, dinamiche, giochi, laboratori, campeggi, musica, volontariato… Tutte queste azioni, di enorme valore pedagogico, continuano ad essere imprescindibili. Tuttavia, uno sguardo attento alla nostra prassi non può non riconoscere che in molti giovani che sono stati a lungo con noi “non è passato nulla dentro”, nonostante si siano divertiti molto o abbiano parlato moltissimo negli incontri. Se i nostri incontri e le nostre attività non riescono a fare in modo che i ragazzi entrino nella profondità della loro vita e arrivino a “perforare” la realtà (facendo in modo che abbiano il coraggio di penetrare le loro inquietudini con la testa e con il cuore) tutte le nostre azioni saranno come “bronzo che risuona e campana che rintocca” (1 Cor 13, 1). Non è affatto facile oggi spingere i giovani alla riflessione, all’analisi del nostro mondo, alla comunicazione profonda di esperienze, al silenzio o alla contemplazione, perché tutto intorno a loro li stimola in senso contrario. Ma se non arrivano all’appuntamento dell’interiorità, a cui lo Spirito di Dio li sta chiamando, sarà impossibile accompagnare una certa apertura alla trascendenza e sollecitare alla pienezza della proposta cristiana, che è offerta di profondità, amore e pienezza rivolta a chi decide di essere soggetto e protagonista della sua esistenza e non schiavo di stimoli esterni. E se l’ambiente suscita poca apertura alla trascendenza saremo noi a dover passare dall’educazione implicita della fede all’invito esplicito alla sua scoperta. Il nostro obiettivo non può essere quello di offrire una patina di valori evangelici, ma far conoscere l’evento che li suscita e li sostiene.

    4. Dai processi deduttivi a quelli induttivi con “terapie d’urto”

    I cammini di educazione alla fede elaborati negli anni ‘80 e ‘90 cercavano di accompagnare il giovane nel suo passaggio dall’adolescenza all’età adulta, in itinerari che possedevano una struttura interna logica: la fase di ricerca iniziale andava seguita da una di formazione teologica che culminava, alla fine, con la scelta o con l’impegno di fede. Buona parte della metodologia si basava sulla lettura, la riflessione e il dibattito in incontri di gruppo in cui si affrontavano, in successione, i vari temi fondamentali della fede cristiana. Continuo ad essere un sostenitore di questi lunghi processi, perché il contesto sociale accompagna a stento coloro che vogliono iniziarsi alla vita cristiana, ma secondo me l’accesso alla fede per la maggior parte dei giovani oggi non è quello che deriva da un cammino di riflessione molto documentato, ma quello che nasce dal contatto vivo con esperienze forti della vita che ci costringono a fondarla con profondità (sofferenza, bellezza, intimità, ingiustizia, libertà, amore, solitudine, pluralismo culturale, ecc.) e dall’incontro con credenti appassionati dal Vangelo che lo incarnano in atteggiamenti e scelte concrete. Dal momento che la società del benessere materiale e dello svago permanente anestetizza la nostra capacità di percepire il carattere radicalmente misterioso della realtà e della vita, è necessario che la pastorale giovanile sia in grado di proporre interrogativi che aprono l’essere umano alla dimensione religiosa: chi sono io? che valore hanno la vita e il mondo? dove trovare la felicità? come orientare la mia esistenza? cosa devo aspettarmi? chi sono gli altri per me? quale tipo di società vale la pena costruire? in cosa riporrò la mia fiducia? vale la pena vivere? come? ….

    5. Dalla trasmissione delle conoscenze alla comunicazione di un’esperienza

    La catechesi tradizionale ha avuto un carattere prevalentemente intellettuale, perché presupponeva la normalità sociale dell’esperienza religiosa e aveva come preoccupazione fondamentale quella di chiarificarla, approfondirla e renderla sistematica. L’operatore pastorale aveva bisogno soprattutto di una formazione teologica di base e di alcuni elementi sui quali i contenuti della fede cristiana fossero ben fondati e risultassero accessibili al destinatario. D’ora in poi, avremo bisogno soprattutto di persone giovani e adulte con un’intensa esperienza credente che possano narrare in prima persona la loro storia di fede, la qualità della loro relazione di amore e fiducia che hanno col Dio di Gesù. E, anche se la fede non si “contagia” in modo automatico (esistono, oltre alla sacra libertà dei giovani, i loro “anticorpi” di fronte al Vangelo e, a volte, si incontrano persino dei “vaccinati” contro di esso), risulta pur necessaria per la sua trasmissione la mediazione della testimonianza di persone credenti. La riflessione teorica sul cristianesimo, che continua ad essere imprescindibile e ancora di più in una società che si avvicina all’“analfabetismo religioso funzionale”, verrà dopo che i giovani avranno scoperto la densità della loro stessa vita e l’esperienza sincera di alcuni credenti. Perché la fede, prima di ogni altra considerazione teorica, è un evento di salvezza nella vita di persone concrete. Da qui si deduce che la vera formazione di operatori di pastorale giovanile consiste, soprattutto, nell’aiutarli ad attuare la loro stessa conversione. Naturalmente è più facile formare persone che abbiano conoscenze religiose piuttosto che suscitare la testimonianza di giovani affinché la offrano ad altri. Ma sta qui la sfida ovvia per l’immediato futuro.

    6. Dalla formazione teologica all’iniziazione a esperienze fondamentali

    Pochi anni fa era di vitale importanza rispondere con argomentazioni alle obiezioni alla fede che venivano avanzate da agnostici e atei. Lo sforzo che abbiamo compiuto per molto tempo ha consentito di presentare la fede in modo non alienante e di purificare l’immagine di Gesù per avvicinarla al volto che si riflette dai vari racconti del Nuovo Testamento. Pensavamo che le immagini e le parole potessero rendere la figura di Gesù attraente agli occhi di molti giovani. Pur essendo così, oggi siamo più coscienti che l’accoglienza o il rifiuto di Gesù si gioca non sul terreno delle idee ma su quello della sua effettiva sequela. In altre parole, la verità del Vangelo si manifesta nella pratica della vita cristiana in un doppio senso: chi professa il Vangelo ma non lo vive non è veramente cristiano; ma, anche, soltanto chi sperimenta la vita cristiana può verificare, in se stesso, che Gesù è effettivamente la via, la verità e la vita. Tutti abbiamo iniziato ad essere cristiani perché ci attraeva la figura di Gesù, le sue parole, i suoi valori, i suoi atteggiamenti, le sue azioni. Ma ci confermiamo come tali perché verifichiamo, dopo la conversione, che questa esperienza di fede, amore e speranza è l’unica capace di riempire di gioia e di significato il nostro cuore. Di conseguenza, una buona metodologia pastorale dovrebbe fare in modo che i giovani assaporino le esperienze fondamentali della vita cristiana (pregare, condividere, discernere, celebrare, impegnarsi) stando a contatto con coloro che vivono in modo qualitativamente significativo queste dimensioni della fede. Ancora una volta la riflessione occuperà un posto successivo all’esperienza e aiuterà a chiarire il suo senso e la sua ricchezza. Solo assaporando la verità, la bontà e la bellezza che si scoprono nella preghiera, nell’austerità solidale o nel servizio ci si rende conto che Gesù aveva ragione, anche quando proponeva il difficile cammino della croce e dell’affidamento come prezzo inevitabile dell’amore e della vita.

    7. Dall’accento sul “morale” al recupero del linguaggio simbolico

    Collocando l’iniziazione cristiana nell’ambito dottrinale o etico, abbiamo svilizzato il significato profondo della fede cristiana che è, prima di tutto, un dono che ci arriva da fuori, un’offerta di amore, di salvezza da parte di Dio. Le dimensioni di trascendenza e gratuità della fede sono rimaste relegate al passato e il nostro cristianesimo si è ridotto ad attivismo, ideologia o via di autorealizzazione. Solo il linguaggio simbolico è capace di metterci a contatto col mistero di amore che sostiene tutto il creato e che i discepoli di Gesù hanno imparato a chiamare Padre. La lode, l’adorazione, l’accoglienza e l’affidamento; la parte più intima e profonda dell’esperienza religiosa cristiana; quel rapporto che è la sua origine, il suo cibo e la sua meta, si possono realizzare soltanto introducendosi nella dinamica del simbolico, perché di Dio non dobbiamo né possiamo avere un’esperienza empirica e immediata. La vita della Chiesa si è impoverita in termini di ricchezza e creatività simbolica, mentre i giovani sono molto sensibili a questa dimensione se si sviluppa con attenzione e qualità espressiva. È altrettanto sicuro che la mentalità superficiale, pragmatica e freneticamente audiovisiva che ci circonda, esige un lavoro pedagogico che sviluppi nei giovani una sensibilità tale da avvicinarsi al simbolo partendo da un atteggiamento contemplativo di calma, accoglienza e profondità che vada oltre un atteggiamento che cerca solo l’intrattenimento, le sensazioni, o, direttamente, lo spettacolo. Il divertimento e la festa non sono la stessa cosa, e, forse, la ricerca frenetica del primo negli ambienti giovanili è espressione del fatto che, molte volte, mancano i motivi per celebrare la seconda. In ogni caso rimane la convinzione che senza un veicolo espressivo adeguato è assai difficile coltivare la dimensione religiosa.

    8. Dall’esclusività del gruppo all’accento sulla personalizzazione

    Ormai credo che sia un luogo comune l’attenzione della pastorale alla personalizzazione. Vale a dire, l’aiutare i giovani affinché poco a poco prendano la vita nelle loro mani per scoprire in essa il passaggio del Signore e i suoi inviti. Dietro questa convinzione si trova l’esperienza di moltissimi ragazzi che hanno frequentato per anni i nostri gruppi, e hanno realizzato un processo interiore completamente estraneo al processo formale del gruppo. Così gruppi giovanili che sembravano consolidati, riflettevano, al massimo, ciò che accadeva nei suoi membri più protagonisti. Ma è necessario scoprire e vivere la fede in comunità. Questa realtà si impone in modo sempre più impellente. È necessario elaborare processi ben strutturati e sistematici di iniziazione cristiana. Ma ciò non impedisce che l’obiettivo educativo fondamentale sia radicato nel fatto che il Vangelo dica qualcosa alla vita reale di ogni giovane concreto nella sua situazione personale, che non deve per forza coincidere con quella media del gruppo, né accadere solo quando “se ne parla in gruppo”. In realtà, “personalizzazione” non è sinonimo di “individualizzazione”. La preghiera di gruppo, la revisione di vita, la riflessione comune, la condivisione di problemi, situazioni e sentimenti, il discernimento comunitario, la partecipazione a Eucaristie aperte, le esperienze di vita comune, ecc. sono altrettante forme comunitarie di personalizzazione della fede. Quello che conta è che, nella dinamica pedagogica, ognuno si senta interpellato da Gesù che gli rivolge una parola unica.

    9. Dall’istituzione che regola e controlla allo spazio di crescita fraterna

    I cambiamenti che la comunità ecclesiale dovrebbe effettuare per poter fare fronte alla sfida di una pastorale rinnovata sono troppo vasti per poterli includere in questa riflessione. Vorrei tuttavia soffermarmi su uno di essi. I giovani, nel futuro, non verranno in Chiesa per routine, per tradizione, per noia, per dovere o per paura. Verranno perché ne avranno voglia. Cioè perché l’ambiente, i rapporti, le attività, l’organizzazione e l’immagine delle nostre comunità ecclesiali li interessano e li arricchiscono. Non è facile che sentano il desiderio di vincolarsi a un gruppo di gente anziana, che utilizza un linguaggio strano, che ha delle strutture che essi percepiscono rigide, delle attività poco divertenti e delle proposte esigenti. Ancora meno se percepiscono repressione, autoritarismo o discriminazione (veri peccati della nostra Chiesa). L’unico modo in cui i giovani possono sentirsi interessati alla Chiesa è se scoprono in essa uno spazio in cui si sperimentano realtà che non si sperimentano in nessun altro luogo e che donano qualità, fecondità e pienezza alla vita: l’esperienza dell’incontro con Dio, l’esperienza della fraternità e l’esperienza dell’impegno di solidarietà e di trasformazione. Se la Chiesa abbandona la sua pretesa di controllare o di ingessare la vita dei suoi membri e si dedica invece ad alimentare e a stimolare la loro capacità di credere, di amare e di sperare, risulterà molto più attraente ai giovani. E questa esperienza ecclesiale esige, necessariamente, di continuare a coltivare la creazione di piccole comunità cristiane inserite in unità pastorali più ampie (parrocchie, movimenti, ecc.).

    10. Dalla pastorale della serra ecclesiale e sociale a quella dell’oasi

    Chiudo questo decalogo di buone intenzioni suggerendo di superare un altro ostacolo pastorale. Tutti siamo stati testimoni di come tanti gruppi di giovani, che al momento della Cresima hanno mostrato l’entusiasmo dei primi discepoli il giorno della Pentecoste, si siano poi disciolti come neve al sole di fronte a un qualunque cambiamento di circostanze (l’estate, il passaggio di scuola alle superiori o da queste all’università, o dallo studio al lavoro, o dalla condizione di single alla coppia, o per un cambiamento del catechista e animatore o del sacerdote, ecc.). Tutto ciò mette in evidenza tre cose: che in molti casi non si è arrivati a produrre una scelta di fede realmente personale, un incontro profondo con Gesù (e che quindi altre circostanze o interessi, d’altra parte assolutamente normali, determinavano l’appartenenza al gruppo); che tutti abbiamo bisogno di strutture comunitarie di appoggio per perseverare come cristiani; e che non avevamo generato una spiritualità della presenza nel mondo extra-ecclesiale, che è proprio lo spazio in cui noi cristiani dobbiamo vivere la fede. Questa spiritualità deve insegnare a discernere, con speranza ma senza ingenuità, come mantenere nella società uno stile di vita di servizio, di testimonianza e molte volte di contro-cultura. Gesù non ha separato i suoi discepoli dal mondo, ma li ha mandati perché diffondessero la vita che avevano ricevuto. A questo deve preparare la pastorale giovanile. Evitando, allo stesso tempo, un altro dei nostri grandi errori del passato: che i gruppi giovanili si isolino tanto dal resto della comunità adulta che alla fine diventino degli “squatters” nella Chiesa; con degli abiti, un linguaggio e dei simboli così estranei a quelli altrui da rendere impossibile un reciproco arricchimento.

    Conclusione

    Al termine di questi punti-chiave penso che per rinnovare la nostra pastorale giovanile non abbiamo bisogno di strategie pedagogiche sofisticate, specializzate e costose, ma di due requisiti, questi sì indispensabili:

    – un’esperienza gioiosa della nostra stessa fede, che sia in grado di riempire la nostra esistenza di amore, significato, speranza e passione, e al tempo stesso di ispirare scelte e atteggiamenti che generino vita intorno a noi. Cioè un tipo di vita che, per la sua intensità e qualità, possa suscitare interrogativi e interesse nel nostro ambiente;

    – maggior fede in noi stessi, con ciò che significa in termini di bravura, entusiasmo, coraggio e creatività, e anche più fede in Dio che è presente nel mondo e in ogni essere umano e che può, in qualunque momento, invitare alla sua amicizia. La nostra mediazione però è necessaria, perché alla fine il regno di Dio (grazie a Dio) non è nelle nostre mani.

    (da Misión Joven 318-319/2003)


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