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    L'obiettivo

    della pastorale giovanile /1

    cf Appunti per un corso di "PASTORALE GIOVANILE"



    C’è una espressione, facile e frequente, che dice qual obiettivo si pongono le comunità ecclesiali nel loro servizio di pastorale giovanile: aiutare i giovani ad accogliere il dono della salvezza di Dio che è Gesù. Le formule possono cambiare. Ma la sostanza resta, decisiva. E non potrebbe essere diversamente. La Chiesa si definisce proprio come “universale sacramento di salvezza” (LG 1).

    Sembrerebbe tutto risolto e invece uno sguardo al pluralismo attuale fa toccare con mano che proprio a questo livello nascono molti problemi pratici e qui si fondano le ragioni di differenza, non solo formale. Per questo, in un progetto di pastorale giovanile, diventa urgente comprendere quale sia, in ultima analisi, il suo significato pratico, nella nostra situazione culturale e sociale.
    Di qui l’impegnativo lavoro che ci aspetta: ripensare, con calma, al senso dell’obiettivo dell’azione pastorale a partire dalla sensibilità teologica attuale, e soprattutto cercare di ricomprenderlo sulla provocazione dell’attuale situazione giovanile e culturale.
    Lo faccio procedendo a livelli successivi di proposta, con la preoccupazione di distinguere bene tra i dati ormai consolidati e quelli che invece rappresentano una ipotesi da verificare e da sperimentare. Solo alla fine del percorso possiamo comprendere a quale tipo di obiettivo intendo fare riferimento.

    17. Primo livello: una risposta personale al dono della salvezza

    La salvezza è un dono, gratuito e insperato, del­l’amore di Dio. La riflessione teologica ci ricorda che questo dono richiede sempre la risposta, libera e responsabile, del­l’uomo. La pastorale concentra di conseguenza il suo impegno su tutto ciò che rende l’uomo capace di accogliere pienamente questo dono.
    Nel­l’attuale riflessione teologica non è indicato, però, in modo omogeneo, il tipo di risposta che dobbiamo dare al dono di Dio. Si richiede una risposta formalmente religiosa o basta una risposta espressa in una qualità rinnovata di vita? L’interrogativo è carico di conseguenze pratiche, molto rilevanti, per una ricerca sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile. Di sicuro non è sufficiente concludere che le due possibilità non vanno considerate come esclusive.
    Infatti, se scegliamo come risposta più importante quel­la che mette al centro la dimensione religiosa, indicando come esigenza irrinunciabile una confessione ecclesiale di Gesù il Signore, espressa anche nel­l’esperienza sacramentale del­la Chiesa, siamo costretti a costatare che moltissimi uomini non hanno la possibilità di godere del­la salvezza di Dio solo perché non conoscono né Gesù Cristo né la Chiesa. La pastorale diventa ricerca affannosa di ogni mezzo che sia in grado di assicurare questa possibilità.
    D’altra parte, se bastasse una vita buona e impegnata per accogliere il dono del­la salvezza, si fatica a riconoscere il ruolo decisivo del­la fede ecclesiale e, in qualche modo, del riferimento esplicito a Gesù Cristo. La pastorale si riduce, così, ad una semplice prassi educativa.
    Il problema è molto serio, soprattutto sul piano concreto. Non possiamo dire qualcosa sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile se non gli abbiamo trovato una soluzione adeguata.
    La questione riguarda la fede. Per questo, la ricerca sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile deve muovere dal­l’ascolto, disponibile e attento, del­la fede e del­le sue esigenze. Sappiamo però tutti molto bene che incontriamo la fede solo attraverso le sue formulazioni teologiche. Esse sono segnate dal pluralismo, come può costatare chiunque si guarda d’attorno con un minimo di senso critico.
    Per fortuna, abbiamo una guida che ci aiuta ad elaborare il pluralismo, senza essere costretti a scegliere al­la cieca: i «criteri». Al­la luce del­l’Incar­na­zione e dei criteri pastorali elaborati nel­la sua prospettiva, interrogo quindi la fede per raccogliere i suggerimenti pratici di cui ho bisogno.

    17.1. La vita quotidiana al centro: un passaggio di significati

    L’Incarnazione ci ha rivelato il senso teologico del­la nostra vita. Essa è la grande mediazione dove Dio si fa «volto» e «parola» per noi oggi, continuando l’esperienza di Gesù di Nazareth.
    Fedele al criterio del­l’Incarnazione, pongo al centro del­la mia ricerca la vita quotidiana e le esperienze in cui si svolge. Riconosco che esse sono avvolte nel mistero di Dio e mi chiedo quale tipo di rapporto lega la dimensione storica e quotidiana di queste esperienze con quel­la misteriosa del­la presenza rivelante e interpel­lante di Dio.
    La mia ricerca sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile si realizza così secondo un procedimento che ripete, ancora una volta, l’orientamento ermeneutico di cui ho già parlato nel­le pagine precedenti. Parto dal­la vita quotidiana. Riconosco che essa è, in qualche modo, il frutto del­la nostra responsa­bilità, nel­la fatica del nostro vivere. Nel­lo stesso tempo, riconosco, nel­la fede, che queste stesse esperienze chiamano in causa il mistero di Dio e il suo progetto per noi. Per definire il tipo di risposta che possiamo offrire al dono del­la salvezza, cerco di scoprire in quale rapporto stanno queste due dimensioni del­la storia personale e col­lettiva.
    Per guidare la capacità critica del lettore in questo cammino, per forza di cose un poco complicato, anticipo il risultato del­la mia ricerca: esiste una specie di passaggio di significati, per cui la stessa esperienza ha come due volti, uno dipende tutto da noi, l’altro coinvolge direttamente il mistero di Dio. Quel­lo che realizziamo sul piano concreto e quotidiano, costruisce (o demolisce) la nostra col­locazione definitiva nel mistero del­la salvezza.
    Approfondisco e motivo ora la mia affermazione con due costatazioni teo­logiche: la prima al livel­lo semantico, la seconda a quel­lo prassico.

    17.1.1. Le esperienze quotidiane come precomprensione del­la Parola di Dio

    Incomincio con il livel­lo di carattere semantico. La mia convinzione è molto precisa: le esperienze quotidiane sono una precomprensione necessaria per comprendere la Parola di Dio.
    Mi spiego.
    Per dire chi è Dio utilizziamo una parola (e la relativa esperienza) tutta nostra: lo chiamiamo «padre». Per dire il progetto che Dio ha su di noi, Gesù ha raccontato l’avventura di un ragazzo che scappa da casa e, quando finalmente decide di tornare, trova l’abbraccio del padre. L’Antico Testamen­to propone la storia di un popolo che si pone in marcia verso la libertà, per tornare al­la terra dei suoi padri.
    Dio ci rivela qualcosa di sé e ci parla del suo progetto di amore e di salvezza, utilizzando parole ed esperienze del­la nostra esistenza quotidiana. L’abbiamo già costatato, meditando una espressione del­la Dei Verbum: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar del­l’uomo, come già il Verbo del­l’eterno Padre, avendo assunto le debolezze del­l’umana natura, si fece simile al­l’uomo» (DV 13). La parola di Dio non può rivolgersi al­l’uomo senza farsi insieme parola sul­l’uomo e parola del­l’uomo. La parola di Dio può dire qualcosa al­l’uomo, diventando così paro­la «per l’uomo», solo se parla il nostro linguaggio, si riferisce al­le nostre espe­rienze, assume queste nostre esperienze come categorie espressive del suo annuncio.
    Le conseguenze di questo fatto, costitutivo del­la Rivelazione, sono molto importanti nel­la riflessione che stiamo facendo. Infatti, se Dio si comunica al­l’uomo attraverso esperienze umane, «riempite del­la sua presenza», solo al­l’interno di nuove esperienze umane, simili a quel­le originali che hanno mediato la Rivelazione, è possibile comprendere il messaggio di Dio, come lieta novel­la per noi.
    Le esperienze cui faccio riferimento, sono quel­le che costituiscono la nostra esistenza concreta e quotidiana. Del resto, quel­le che sono servite come radice del­la Rivelazione di Dio sono le esperienze storiche del popolo ebraico, quel­le dei profeti, quel­le di Gesù e dei suoi discepoli. Queste esperienze sono fondamentali per la Rivelazione perché in esse ha preso «carne» la parola di Dio per l’uomo. Esse sono diventate ormai per noi esperienze privilegiate, normative. Non sono sufficienti però per comprendere quel­lo che Dio ci rivela. Abbiamo bisogno di una nuova semantica, che ci introduca in quel­­lo che esse ci manifestino e lo rendano significativo per noi. Queste stes­­se esperienze, perciò, aprono e appel­lano al­le nostre quotidiane esperienze. Le nostre esperienze, nel­la loro povertà e ambiguità, diventano così una sorta d’ineliminabile precomprensione, con cui ci accostiamo al­la Parola di Dio e la facciamo parola-per-noi.

    17.1.2. Le esperienze quotidiane come luogo privilegiato del­l’incontro con Dio

    La prima motivazione riguarda la comprensione del­la Parola di Dio. La seconda investe la qualità del­la nostra risposta a Dio che ci chiama attraverso la sua Parola.
    Lo sappiamo molto bene: la Rivelazione non ci offre informazioni, altrimenti inaccessibili; rivela Dio a noi e noi a noi stessi per sol­lecitarci ad una decisione di tutta la nostra esistenza. Per questo, la Parola di Dio è sempre una vocazione che interpel­la tutta la nostra esistenza.
    Nasce spontanea quel­la domanda che ho già ricordato aprendo la riflessione: dove rispondiamo a Dio che ci parla? Dio ci parla attraverso le esperienze in cui si intreccia la nostra esistenza quotidiana. Rispondiamo a lui e lo incontriamo in queste stesse esperienze.
    Il fondamento di questa mia affermazione sta in quel­lo che conosciamo del progetto di salvezza di Dio. Non potrebbe essere altrimenti, se vogliamo mettere la fede come riferimento obbligato per la ricerca sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile.
    La fede del­la Chiesa ci ricorda che la salvezza è un dono offerto da Dio a tut­ti gli uomini. Per questo, meditando sul­la «volontà salvifica universale» di Dio, molti teologi giungono a constatare che la storia è storia di salvezza (o di perdizione): storia del­la manifestazione del significato salvifico contenuto in questa autocomunicazione di Dio, storia del­l’accettazione o del rifiuto di questa offerta da parte del­l’uomo.
    L’esperienza umana possiede una sua dimensione intrinseca, che la costituisce esperienza di salvezza. Solo a questa condizione l’autocomunicazione di Dio e la libera decisione di accettare questa offerta (o di rifiutarla) sono veramente universali: comuni ad ogni uomo. Se la salvezza fosse legata al­la accettazione esplicita di Gesù Cristo o al­la consapevolezza tematica del­la sua presenza nel­la storia, molti uomini sarebbero esclusi dal­la salvezza, perché non conoscono ancora Gesù Cristo.
    L’unico spazio esistenziale, veramente comune ad ogni uomo, è la sua vita quotidiana e le esperienze concrete in cui essa si svolge. La meditazione sul­l’evento del­l’Incarnazione ha rivelato la dimensione teologica di questa vita. Essa porta di conseguenza a riconoscere che, quando l’uomo gioca la sua esistenza nel­la libertà e vive un’esperienza umanamente autentica, egli accoglie la rivelazione divina racchiusa in questo segmento di storia e pronuncia la sua decisione (positiva o negativa) per Dio e per il dono del­la sua salvezza. Scegliendo e realizzando, nel­la libertà, un gesto di umanizzazione, «accoglie» e «si decide» per il progetto di salvezza di Dio. Per non vanificare la volontà salvifica universale di Dio, dobbiamo distinguere tra accettazio­ne tematica in una consapevolezza esplicita e riflessa ed accettazione rea­le, anche se implicita e atematica. Nel­la vita quotidiana, vissuta nel­l’au­ten­ticità e nel­l’impegno, ogni uomo può accogliere il progetto di Dio, di fatto, anche se in modo non tematico.
    In questa prospettiva riusciamo a riconciliare, nel­la fragile fatica del­la nostra riflessione, le due esigenze che riconosciamo nel­l’evento di fede confessato: la proposta di Dio per tutti gli uomini e la risposta, libera e responsabile, di ogni uomo.
    La proposta di salvezza è universale, perché è il dono costitutivo del­la profonda soggettività di ogni uomo. La risposta del­l’uomo è libera e responsabile perché è decisione sul­la propria esistenza; in un ambito, quindi, che gli compete e investe tutti. È decisione per la salvezza, perché la sua esperienza è, nel­la sua radicalità, la concretizzazione del­l’offerta del­l’autocomu­ni­cazione salvifica di Dio.
    La descrizione del giudizio universale, riportata da Matteo (Mt 25), offre un orizzonte rivelato e orienta la nostra ricerca in direzioni molto precise. Ci dice infatti che il luogo concreto del­la risposta di fede e di amore a Dio che si è rivelato in Cristo è la dedizione al fratel­lo bisognoso. Il rito religioso e l’in­contro esplicito e categoriale con la Parola di Dio, la sua conoscenza con­cettuale, potrebbero anche mancare. L’uomo incontra Dio, magari nel­le tenebre del­l’errore e del­l’ignoranza, e si dà veramente a lui, se è capace di un impegno serio e promozionale nei confronti dei fratel­li, se vive in altre parole le sue esperienze quotidiane in una dimensione di umana autenticità.

    17.2. Il riferimento cristologico

    Con le informazioni acquisite, posso ripensare al­l’interrogativo da cui ha preso le mosse la mia ricerca sul­l’obiettivo del­la pastorale giovanile. Mi sono chiesto quale debba essere la risposta al dono del­la salvezza. La ricerca ha conquistato un punto di riferimento importante: rispondiamo a Dio nel­la vita quotidiana.
    Per raggiungere le conclusioni pratiche richieste dal­la formulazione di un obiettivo, ho bisogno di qualche nuova indicazione. La costatazione del significato del­la vita e del­le esperienze quotidiane riguarda di fatto ogni persona ed ogni suo gesto anche se non ce ne rendiamo esplicitamente conto? Oppure, al contrario, le cose vanno così solo quando ne siamo consapevoli e lo scegliamo in modo riflesso?
    Un esempio può servire a chiarire l’alternativa.
    Un oggetto che due amici si scambiano assume un valore che va oltre la materialità del fatto e che è specifico del momento. Non è legato al­la cosa donata, ma al­l’atto del donare. C’è qualcosa che supera l’oggetto stesso e lo co­stituisce in un orizzonte diverso. Ma è un semplice passaggio d’intenzioni, che non muta l’oggetto. Per la circostanza speciale in cui è utilizzato, l’og­get­to assume una funzione di mediazione: esprime simbolicamente un rapporto interpersonale.
    Tra esperienza umana e riferimento per la salvezza siamo solo a questo livel­lo? Esso va cercato e costruito con fatica progressiva o, al contrario, sug­gerisce la costatazione di qualcosa che esiste di fatto in ogni uomo (a prescindere dal­la consapevolezza esplicita), anche se ci preoccupiamo giustamente di possederlo in modo riflesso? È l’esito da costruire in un lungo cammino o, invece, è il possesso, progressivo e tematico, di un dato in cui siamo già costituiti?
    Le due posizioni incidono non poco sul­la comprensione del­l’obiettivo e sul­la sua realizzazione. Nel primo caso, la meta è tutta sbilanciata verso la costruzione di qualcosa che non esiste in partenza e che può essere assicurato solo aggregando interventi successivi. Nel secondo caso, invece, la ricerca sul­l’obiettivo è fondata sul­l’esperienza di un dato preesistente da accogliere e riconoscere, ed è di conseguenza orientata soprattutto verso una progressiva tematizzazione.
    Colui che affronta questi problemi in uno sguardo di fede, è sol­lecitato a confrontarsi con un dato decisivo: la presenza di Gesù Cristo nel­la storia quotidiana e la sua solidarietà profonda e salvifica con l’umanità di ogni uo­mo sono un evento oggettivo. Esso non dipende dal­l’intenzionalità del­la per­sona stessa, dal fatto, in altre parole, che lo sappia e lo desideri; dipende tutto dal progetto d’amore di Dio, che sta prima di ogni nostra decisione per lui. Gesù Cristo, infatti, è l’evento più radicale del­la volontà salvifica universale di Dio, perché in Gesù Cristo la salvezza di Dio si è realizzata efficacemente per tutti gli uomini. In Gesù Cristo la salvezza è diventata una dimensione del­l’esistenza di ogni uomo, nel­la prospettiva di un’offerta e di un dono che preesiste al­la sua libertà e al­la sua comprensione riflessa, anche se chiede la risposta personale di una vita vissuta nel­l’impegno serio e promozionale.
    Come la Pasqua è ormai un fatto nel­la storia del­l’uomo, così le esperienze quotidiane sono già col­locate definitivamente in questo orizzonte di salvezza. Questo è un fatto che ha peso, consistenza ed efficacia indipendentemente dal­la sua tematizzazione nel­la coscienza dei singoli uomini.

    17.3. La consapevolezza personale verso quel­lo in cui siamo costituiti

    La realtà è già col­locata in un processo di salvezza. Noi non abbiamo proprio nul­la di ulteriore da fare? La coscienza riflessa di quel­lo che siamo è inutile, indifferente rispetto al­la maturazione personale?
    La risposta è certamente negativa. Proprio a partire dal riconoscimento di quel­lo in cui siamo intimamente costituiti, nasce l’impegno e la responsabilità di al­largarne la consapevolezza. Colui che «è» nuova creatura deve aver­ne la gioiosa personale consapevolezza. Deve scoprire, nel­la quotidianità del­la sua vita, che ogni gesto in cui è in causa la sua serietà umana apre ad un orizzonte di trascendenza, segnato dal­la novità di significato e di autenticità, di cui è stato fatto ricco.
    Si raggiunge la pienezza del­l’espressività cristiana, quando l’implicito vie­ne anche tematizzato, si fa consapevolezza riflessa ed accettazione confessante del­la salvezza in Gesù Cristo. Il riferimento esplicito a Gesù Cristo porta al­l’incontro con la comunità che è segno e iniziale realizzazione del­la sua salvezza, la Chiesa. La confessione di Gesù Cristo e l’accoglienza del­la Chiesa esprimono, in modo tematico, il radicale orientamento di vita per la salvezza.
    La crescita è sul piano del­l’intenzionalità: dal vissuto al­la sua tematizzazione, dal­l’implicito al­la coscienza riflessa ed esperienziale. Ma è una crescita fondamentale, perché permette al­la persona di comprendersi in modo autentico, scoprendo la verità più profonda di se stesso.
    Il consolidamento di questa consapevolezza rientra tra i compiti che si prefigge colui che si interroga sul­l’obiettivo del­l’educazione al­la fede. Non si tratta di far accedere, a passi lenti, verso un esito che è tutto lontano e tutto da costruire. Immersi nel­la salvezza di Dio per una costitutiva solidarietà con Gesù di Nazareth, ci preoccupiamo di far crescere la coscienza riflessa di questa esperienza.
    Per fortuna, non possiamo aggiungere nul­la al dato di fatto. E questo ci libera da quel­l’affanno che spesso prende al­la gola gli operatori pastorali, convinti di avere tutte le responsabilità sul­le loro spal­le. Possiamo però – e ne abbiamo l’impel­lente dovere – aiutare le persone a tematizzare nel­la loro esistenza quel­lo in cui di fatto siamo costituiti per dono.
    Non è piccola cosa. Non solo la consapevolezza riflessa ci porta verso la verità di noi stessi. Essa ricade immediatamente sul piano pratico: chi conosce le ragioni più profonde del suo agire, è in grado di esprimersi con un coraggio e una radicalità imprevedibile. La consapevolezza riflessa di quel­lo che siamo diventa così sorgente di una qualità nuova di esistenza.

    17.4. Vivere di fede, speranza, carità

    Nel­la tradizione cristiana si è fatto spesso ricorso ad un’espressione molto precisa, per dire il livel­lo teologale di questa consapevolezza e per ricordare che essa attraversa tutta l’esistenza: si parla di fede, speranza, carità.
    La consapevolezza di vivere immersi nel­la salvezza di Dio e di essere diventati in Gesù Cristo «creature nuove» (come ricorda Rom 8) è una esperienza totale, che unifica l’esistenza. Ad essa fa riscontro la decisione radicale di accogliere questo dono di salvezza, mediante una risposta al­l’inizia­tiva di Dio, ancora totale ed unificante. Come ogni espressione esistenziale, questo orientamento globale può essere compreso e manifestato attraverso dimensioni particolari e tematiche. La fede, la speranza e la carità sono una specie di trama, armonica e articolata, del­l’esistenza cristiana, un modo di espri­mere a temi la risposta personale del­l’uomo a Dio, la scelta radicale di Gesù Cristo come «il salvatore».
    L’esistenza si fa confessione di Gesù il Cristo, quando l’uomo accetta l’atto rivelatore di Dio nel sì totale del­la fede: il sì del­la fiducia e del­la sottomissione nel­l’amore. In questo senso, l’esistenza cristiana è esistenza di fede.
    L’esistenza è fiduciosa attesa del­la manifestazione futura di Gesù. È sperare in lui nel Dio che si promette ad ogni uomo. Così l’esistenza cristiana è esistenza di speranza.
    L’esistenza è anche donazione personale a Gesù Cristo, compiuta nel­l’amore effettivo per il prossimo. L’amore a Gesù Cristo e, in lui, al Padre che per primo ci ha amati, si concreta nel­l’atteggiamento di fronte al prossimo: è vero cristiano solo colui che adempie le esigenze del­l’amore al prossimo. In questo senso, l’esistenza cristiana è esistenza di carità.
    Nel­la fede, speranza e carità poniamo Gesù Cristo al centro del­la nostra esistenza. Gesù Cristo è riconosciuto infatti come il significato ultimo e definitivo, che s’innesta in ogni autentica, anche se provvisoria, significazione personale. Questo significato, ricevuto per dono, rivela il valore pieno di ogni gesto umano. Assume l’umano e l’amplifica nel­l’orizzonte del divino. Do­na così al­l’uomo una visione totale del­la sua esistenza, capace di unificare una vita trascinata tra conflitti e contraddittorietà.
    Nel­lo stesso tempo Gesù Cristo si propone come il criterio profetico e normativo per ordinare, gerarchizzare, autenticare i personali progetti e rea­lizzazioni. Nel riferimento a Gesù Cristo l’esperienza quotidiana trova un cri­terio di valutazione. Tra i molti progetti di sé, il cui groviglio spesso rende difficile una vera autenticità umana, fede e salvezza orientano verso la verità del­l’uomo. Nel­la fatica quotidiana di realizzarsi in coerenza con il progetto sognato, fede e salvezza consolidano una speranza che supera ogni umana misura.


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