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     I cammini della fede

    per i giovani oggi

    Don Pascual Chávez
    Rettor Maggiore dei Salesiani


    G
    ià da vari anni venivo maturando l’idea di offrire a tutta la Famiglia Salesiana qualche considerazione semplice e sistematica su ciò che costituisce il centro della nostra fede, accentuando qualche aspetto della nostra Tradizione Salesiana, a partire dal nostro santo Padre Don Bosco...

    Già da vari anni venivo maturando l’idea di offrire a tutta la Famiglia Salesiana qualche considerazione semplice e sistematica su ciò che costituisce il centro della nostra fede, accentuando qualche aspetto della nostra Tradizione Salesiana, a partire dal nostro santo Padre Don Bosco, e, come ho indicato nella Strenna 2010, nel Centenario  della morte del Beato Michele Rua: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. A imitazione di don Rua, come discepoli autentici e apostoli appassionati portiamo il Vangelo ai giovani".
    Sono stato invitato a parlare direttamente del tema,“Portiamo il Vangelo ai giovani”. Premetto che lo sto facendo negli articoli del Bollettino Salesiano di questo anno e che lo farò nel messaggio ai giovani del MGS il prossimo 31 gennaio. Qui ve ne offro alcuni elementi.

    1. PUNTO DI PARTENZA

    Tra desacralizzazione sociale e domande di religiosità

    Partiamo da una costatazione: Oggi non si diventa più cristiani attraverso le modalità di socializzazione religiosa che erano state valide per tanti secoli; sono saltati i canali di trasmissione intergenerazionale, e la fede è diventata una scelta soggettiva , frutto di una scoperta e decisione personale. Il problema, anche se marcatamente europeo o meglio dire occidentale, non è esclusivo. Questa situazione di secolarizzazione, indifferenza e diffidenza è presente soprattutto nel mondo occidentale, ma purtroppo si sta estendendo rapidamente anche ad altri continenti o contesti attraverso una cultura globalizzata, marcata da una visione materialista e individualista della vita.
    Le inchieste sui giovani mettono in evidenza che tra loro non esiste una vera crisi della religiosità e della ricerca di senso; esiste anzi un gruppo notevole di giovani che avvertono il bisogno di scavare nella dimensione della spiritualità per trovare l’equilibrio e l’armonia personale in questo mondo frenetico, frammentato e in rapida evoluzione. Ecco il loro desiderio di vedere Gesù.
    Certo, la dimensione religiosa tende ad essere relegata nella sfera del privato e ad essere assorbita dentro la logica della soddisfazione dei bisogni individuali. Si tratta di una religiosità ad uso individuale, per il conforto personale; una religione di consolazione e non di responsabilità, che coinvolge l’aspetto emotivo e quello psicologico e agisce come una sorta di solletico spirituale perché mette in gioco i sentimenti, la passionalità, il coinvolgimento emozionale, ma trascura i valori che servono a sostenerla nel tempo, come la fedeltà, la costanza, la coerenza delle scelte, l’assunzione di responsabilità, i progetti di vita.
    È una religiosità non istituzionale, ma privata, con presenza di credenze eterogenee e talvolta formalmente incompatibili (tipo New Age). I giovani percorrono così una continua migrazione spirituale da un’esperienza ad un’altra, nel ripetuto tentativo di abbeverarsi di nuove emozioni, più o meno mistiche, che li soddisfano individualmente ma non placano mai la sete, perché ogni scelta viene presto abbandonata nel momento in cui arriva il peso da sostenere, la comunità da incontrare o con cui confrontarsi.
    Una religiosità, inoltre, distaccata dall’etica: se in epoche precedenti la fede religiosa era collegata all’etica e all’impegno per la trasformazione del mondo, oggi è collegata all’estetica e allo spirito di convivenza e comunione. In questo senso l’identità religiosa dei giovani (identità che in molti conserva ancora il riferimento alla fede cattolica) diviene un’identità-rifugio, senza un vero approfondimento interiore, spirituale ed etico.
    In tutte le ricerche si sottolinea l’efficacia della partecipazione associativa per la costruzione di un’identità religiosa personale, favorendo la formazione e l’adesione di fede, il cammino religioso personale e anche la pratica sacramentale.
    Resta fermo il dato della larga fascia di giovani che manifesta una rilevante disponibilità ad un discorso religioso, che tuttavia deve evolvere verso forme più mature di identificazione e di appartenenza. Per questo è urgente rinnovare l’offerta religiosa delle Chiese: superare una razionalità strumentale, sviluppando la dimensione estetica e mistica della fede, spezzare una burocratizzazione alienante, promuovendo la dimensione di comunità e d’incontro personale,  affrontare l’assenza di cuore e di esperienza con un maggiore sviluppo del linguaggio simbolico e affettivo, e una maggiore presenza di esperienze di vita  condivise. Ecco la sfida del dire Dio ai giovani oggi.

    1.2 I giovani e la fede

    Il giovane è sempre aperto alla fede perché è aperto al futuro, alla ricerca della propria identità, alla vita e ai valori. Ma sovente quest’apertura è offuscata da un eccesso di cose e di soddisfazioni immediate e superficiali. Capita a molti giovani come alla “Samaritana” del racconto evangelico di Giovanni: hanno bisogno che qualcuno in nome di Gesù risvegli in loro quel desiderio profondo di salvezza e di felicità che si trova nascosto dalle attese immediate di piacere.
    Le domande di senso, se sono sincere, sono sempre spiragli che aprono alla trascendenza, soprattutto quando sono accolte con sincerità e sviluppate attraverso percorsi pazienti di profondità.
    Un impegno dell’evangelizzatore e dell’educatore è di aprire queste vie verso l’interiorità, aiutare i giovani a fare esperienze significative che riempiano il cuore: esperienze di silenzio, di contemplazione della natura, di comunicazione profonda, di accoglienza gratuita dell’altro, di servizio generoso, ecc. Vie tutte che, usate saggiamente, sviluppano l’apertura alla Trascendenza e risvegliano la sete di Dio, anche se non ancora conosciuto. Oggi questo primo passo di un cammino di fede è molto importante e in alcuni casi imprescindibile.
    Tra le difficoltà dei giovani per vivere la fede e fare una scelta di vita cristiana si possono segnalare:
    - Uno stile di vita che addormenta o acceca il desiderio profondo di senso, di verità, di Dio: la fretta, il rumore, la molteplicità di rapporti superficiali, la ricerca frenetica di esperienze nuove e sempre più forti che rispondano ai bisogni immediati, la poca capacità di interiorizzazione, ecc.
    - Ma anche, da parte della Chiesa e delle comunità cristiane, una forma di esprimere e vivere la fede troppo lontana della forma con cui i giovani vedono e vivono la realtà: una certa rottura culturale che fa sentire loro che la fede vissuta, celebrata e proclamata dalla Chiesa è una realtà estranea al loro universo mentale e affettivo.

    2. GESÙ, VANGELO DI DIO, BUONA E BELLA NOTIZIA PER L’UMANITÀ

    Visto che i giovani oggi vivono in una situazione in cui non ritrovano la fede come indiscussa eredità, come possesso già acquisito, chi vuole impegnarsi nell’educarli alla fede deve accostarsi alla Parola di Dio ed imitare la sua pedagogia.  Un confronto personale con la Parola di Dio, che sempre nei momenti di crisi appare particolarmente limpida, e la ‘passione’ evangelizzatrice ed educativa sono, a mio avviso, condizioni previe.
    Nella sua prima enciclica, Sua Santità Benedetto XVI ci ricordava che “non si comincia ad essere cristiano per una decisione etica o una grande idea, ma per l’incontro con un evento, con una Persona, che dà un nuovo orizzonte alla vita, e con ciò, un orientamento decisivo” (Deus Caritas est, 1).
    Il cristianesimo non è, anzitutto, un insieme di verità a cui si è giunti attraverso la riflessione di molti secoli, né un insieme di norme morali che i suoi membri sono tenuti a praticare, bensì l’incontro personale col Signore Gesù che, come vediamo in diverse pagine del Nuovo Testamento, cambia radicalmente la vita e ci fa veri “cristiani”, cioè: “coloro che sono di Cristo”.
    Tale caratteristica essenziale della nostra fede appare molto chiaramente in una parola chiave della Sacra Scrittura, a cui siamo troppo abituati, a volte senza riflettere sul suo significato: “vangelo”. Si tratta di un termine greco che vuol dire: “bella/buona notizia”, e che Marco, il primo che mise per iscritto le testimonianze orali della comunità cristiana su Gesù, usò come titolo: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1).
    Fin dall’inizio i cristiani, illuminati dallo Spirito Santo, compresero che Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo per amor nostro, era la migliore notizia per tutta l’umanità.
    Riflettiamo brevemente su quel che succede quando riceviamo una notizia veramente buona. Questa esperienza presenta tre caratteristiche principali: è qualcosa di inatteso – ci giunge “da fuori” – riempie il nostro cuore di gioia insolita.
    Applicandolo al Cristianesimo, comprendiamo perfettamente che non si tratta di gioia umana, per quanto profonda essa sia, ma della meravigliosa verità che Dio ci ama, e che ci ha fatti suoi figli e figlie in Cristo; è la migliore notizia che possiamo ricevere: nessuno l’avrebbe immaginato, nessuno avrebbe potuto prevederlo.
    Anche il popolo di Israele, che pure attendeva da secoli il Messia promesso, rimase sconcertato di fronte alla novità di Gesù e del Regno che egli annunciava; anche per loro, anzi,  per loro in primo luogo, si trattò di qualcosa di inatteso, che li colse di sorpresa, che solo coloro che  furono capaci di cambiare il loro modo di pensare riuscirono ad accettare, accogliendo con semplicità e gratitudine Gesù come Messia, il Cristo.
    D’altra parte bisogna riconoscere che non è stata per tutti una ‘buona notizia’ la persona di Gesù e il Regno da lui annunciato; per coloro che si facevano forti della propria orgogliosa autosufficienza, del proprio potere e della ricchezza (cfr. Lc 1,51-53) fu piuttosto una ‘cattiva notizia’ che finì per condurre il suo portatore alla morte in croce.
    Prendere sul serio il fatto che il Cristianesimo è la migliore notizia per l’umanità ha come conseguenza, inoltre, la preoccupazione e l’urgenza di comunicarla a tutti gli uomini e donne del mondo: “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10,14). Rinunciare al compito evangelizzatore e missionario della Chiesa costituirebbe la maggior infedeltà a Dio e l’atto più egoista di fronte all’umanità. Ecco perché per noi evangelizzare, portare il Vangelo ai giovani, è il nostro compito più importante.
    Immaginiamo che una famiglia molto povera ha ricevuto un biglietto della lotteria e che, per loro ventura, si tratta del numero premiato. Non avendo, a causa della loro povertà, accesso all’informazione, corrono il pericolo di non riscuoterlo; a noi, venuti a conoscenza del fatto, riesce indifferente informarli o no. Ebbene, tutta l’umanità, in Gesù Cristo, ha vinto il premio principale della lotteria; però più dei cinque sesti di essa lo ignora! Quanto saremmo egoisti se non comunicassimo loro questa notizia che, come dice Benedetto XVI, “dà un nuovo orizzonte alla vita” presente e, soprattutto, alla vita eterna.
    Contemplando il nostro Padre Don Bosco possiamo fare due riflessioni. In  primo luogo, nella sua vita e nel suo sistema educativo e pastorale non troviamo un insieme di idee o di norme, ma un itinerario di fede che porta ad un incontro vivo con la persona di Gesù Cristo. Con un simbolo umano universale, a cui sono sensibili tutti i giovani, li educò percorrendo un cammino di realizzazione umana e di santità cristiana imperniato sull’amicizia con Gesù Cristo, che presuppone questo rapporto personale vissuto al massimo grado.
    D’altra parte, sentì così vivamente la situazione di coloro che non hanno ricevuto questa notizia meravigliosa, che fin dall’inizio della sua opera e nella misura delle proprie forze (a volte anche al di là di esse) promosse il lavoro missionario, lasciando alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana questa preoccupazione come un tratto distintivo. Ogni anno ho la grande gioia di poter inviare, con la benedizione di Dio e la consegna del crocifisso missionario, molti membri della Famiglia Salesiana che si uniscono ad altre migliaia che già si trovano in terra di missione, seguendo una bella tradizione che si prolunga dal 1875. Eppure continua ad essere attuale la frase del Signore Gesù: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi”. Ognuno di noi è chiamato, secondo il proprio stato di vita e nella misura delle proprie possibilità, a portare ai fratelli e alle sorelle, con la parola, e soprattutto con la testimonianza della propria vita, la grande notizia, la più bella notizia che l’umanità può ricevere: siamo figli e figlie di un Dio che ci ama.

    3. CAMMINI DI FEDE

    Per quel che riguarda i processi del “venire alla fede”, Paolo li sintetizza magistralmente nel sopra citato brano della lettera ai Romani quando scrive: «se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza... Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?» (Rm 10, 9-10.14-15a).

    3.1 Alcuni modelli biblici

    Ma per arrivare a questa comunicazione e accettazione della fede in Gesù ci sono itinerari diversi, che dipendono – e vorrei sottolinearlo – dalle situazioni in cui si trovano i referenti del Vangelo, nel nostro caso i giovani. Ad esempio:
    − La vocazione dei primi discepoli di Gesù, stando al quarto evangelista, incomincia dall’indicazione fatta da Giovanni Battista che addita Gesù ai suoi discepoli, i quali lo seguono, gli domandano “dove abiti?”, restano con lui e rimangono talmente affascinati che abbandonano il loro maestro Giovanni e incominciano a rendere testimonianza di Gesù (cf. Gv 1,35-42).
    − L’incontro di Gesù con Nicodemo (Gv 3,1-21) o con la Samaritana (Gv 4,5-42), sempre secondo il quarto evangelista, sono altrettanti itinerari di fede che portano, attraverso un dialogo, da bisogni immediati ad un progressivo riconoscimento degli aneliti più profondi, fino all’accettazione di Gesù come Colui in cui può essere appagata la loro sete di senso, di felicità e di vita.
    − La predicazione fatta dagli Apostoli, che invitano al riconoscimento di Gesù Crocifisso e Risorto come Signore e quindi alla conversione dai propri peccati, suscita negli ascoltatori l’adesione di fede e il cambiamento di vita sino a formare comunità, con un solo cuore e una sola anima, che diventano una vera alternativa culturale e sociale (cf. At 2,14-41; 4,23-37).
    − La conversione di Paolo avviene invece direttamente attraverso un intervento di Dio, proprio mentre egli perseguita la Chiesa, senza agenda né preparazione, ma come frutto dell’elezione di Dio che conta su di lui come apostolo delle Genti, e diventa uno degli eventi più importanti della storia del cristianesimo (cf. Gal 1, 13-24; Fil 3,3-9 At 9,1-20).
    − Un’altra modalità la troviamo nel racconto di quel giovane che si avvicina a Gesù e gli domanda che cosa deve fare per ottenere la vita eterna; dopo aver risposto a Gesù che lui era stato fedele sin dalla infanzia alla legge del Signore, dice il testo che Gesù lo contemplò con amore e lo invitò ad andare oltre, distanziandosi da quanto poteva essere di ostacolo per raggiungere la pienezza («Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi»). Ma, a differenza dei discepoli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù, questo giovane “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni”. E Gesù conclude con un giudizio molto severo: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio” (Mc 10,17-23).
    Una scena particolarmente illuminante è il cammino di fede dei due discepoli di Emmaus, disincantati dalla non realizzazione delle loro speranze – distrutte per la morte in croce di Gesù –, e che ritrovano la fede mentre incontrano un pellegrino che fa con loro il cammino, illumina la loro mente e riscalda il loro cuore con l’interpretazione della Scrittura, e si fa riconoscere da loro nella “frazione del pane” (cf.Lc 24, 13-35).
    In questo rinomato brano, tanto bello dal punto di vista letterario, ma soprattutto tanto ricco sotto il profilo catechetico, abbiamo gli elementi fondamentali della esperienza di fede: la Parola che illumina e riscalda, il Sacramento che nutre e rinsalda,la Testimonianza che ci rende evangelizzatori, la Comunità che nasce dalla fede comune. E ritroviamo pure il cammino di venire alla fede, esemplarmente descritto: dall’ abbandono della comunità al suo ricupero, dalla perdita di fede alla testimonianza comune, dal camminare soli al camminare col Gesù non ancora riscoperto, dal raccontare tutto quello che era accaduto al lasciarsi raccontare tutto illuminato dalla Parola, dall’incontro fortuito all’invito a restare a casa, dalla spiegazione biblica alla dimostrazione eucaristica, dall’incontro con Gesù, scoperto nella pane spezzato al rincontro con i fratelli, riscoprendo la vita comune.

    3.2 Due vie paradigmatiche di accesso personale alla fede

    Ci sono delle vie privilegiate per accedere alla fede, esperienze particolarmente significative che mettono in moto, sollecitano, approfondiscono, interiorizzano personalmente i processi del venire alla fede.
    Nella tradizione biblica la figura prototipo di credente è stata sempre quella di Abramo, che a ragione è chiamato “padre della fede” o “padre dei credenti”, innanzitutto perché con lui inizia la storia della salvezza e perché egli incarna l’apertura più umana al disegno di Dio, che vuole salvare l’Uomo ma vuole farlo contando sulla collaborazione di uomini e donne. Ad Abramo si chiede di tagliare con il proprio passato, lasciare patria, familiari e beni, e lasciarsi guidare dalla promessa di Dio (cf. Gn 12,1-9), e, quando avrà finalmente un figlio, Isacco, gli si domanderà anche di sacrificare quel figlio, che era il suo futuro (cf. Gn 22,1-19). A volte Dio sembra chiedere troppo, ma in fondo non ci domanda altro che di liberarci da tutto quanto non sia Dio, sì da poter vivere la vita con tutte le sue vicende, gioie e tristezze, soddisfazioni e frustrazioni, speranze ed angosce, come si vedessimo l’Invisibile.
    Insieme ad Abramo dobbiamo anche parlare di Maria come modello di credente. Così appare, sin dal primo momento nel vangelo di Luca, che nel racconto dell’Annunciazione la fa vedere aperta in forma incondizionata alla volontà di Dio, anche se questa non coincideva con il suo progetto personale e anche se non capiva tutto (cf. Lc 1, 26-38; 2,19.50.51). Stando alla testimonianza dello stesso Gesù, la grandezza di sua madre è quella di aver ascoltato la Parola di Dio e averla custodita con amore (cf. Lc 11,28). Ecco la sua vera maternità! Questa visione di Maria come modello di fede e madre di credenti appare anche nel Vangelo di Giovanni, che la nomina solo due volte, e come “donna”, all’inizio nelle nozze di Cana (Gv 2,1-11), suscitando con la propria fede nel Figlio la fede dei discepoli, e alla fine ai piedi della croce (Gv 19,25-27), quando viene affidato alla sua “scuola” il discepolo amato e a questi viene consegnata Lei come madre. La grandezza di Maria è dunque la sua fede e in questo ci viene offerta come modello da imitare e come madre da accogliere.

    3.3 Cristo, inizio e meta della fede

    Tuttavia l’iniziatore e consumatore della nostra fede, come dice benissimo la Lettera agli Ebrei dopo aver fatto l’elogio dei grandi credenti della storia, è Gesù Cristo, che imparò a vivere da Figlio non cercando altro che la Volontà del Padre sino alla morte di croce. Ed il Padre rispose alla sua fedeltà filiale risuscitandolo dai morti e rendendolo Cristo e Signore (cf. Eb 12,1-2: Fil 2.6-11).
    Penso che nella Sacra Scrittura la via privilegiata per venire alla fede sia l’incontro personale con Dio, per la semplice ragione che – come diceva un grande teologo – “l’unica cosa degna di fede è l’Amore”. E la fede è prima di tutto l’esperienza dell’uomo che incontra Dio e trova risposta ai suoi grandi interrogativi. Tale è stata l’esperienza personale dei grandi credenti, uomini e donne, come Abramo, Mosè – il quale ha dovuto soffrire un grosso fallimento alle proprie attese ed iniziative di liberazione prima di trovare Dio e tornare al suo popolo –; così, per Samuele, Davide, Elia, Maria, Giuseppe, Pietro, Paolo. Tutti quanti si sono sentiti avvolti dall’amore tenero di Dio e coinvolti nel suo disegno di salvezza, e dimentichi di tutto si sono protesi in avanti, non perché capissero tutto, anzi senza capire affatto, ma afferrati da Dio e con una missione da svolgere.
    Certo ci sono altri incontri, in circostanze diverse, che possono essere anche delle vie per venire alla fede. Si pensi ad esempio alla partecipazione dei discepoli alle nozze di Cana, dove la fede di Maria è causa della loro fede: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui” (Gv 2,11). O all’incontro di Gesù con la Samaritana, che provoca la sua confessione di fede e la conversione dei samaritani dietro la testimonianza della donna: “Quando i samaritani giunsero da Lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (cf. Gv 4, 41-42). O al dialogo di Marta con Gesù dopo la morte di Lazzaro in cui Marta arriva ad una delle confessioni di fede più perfette: “Sì, o Signore, io so che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (Gv 11,27). O al caso del centurione, la cui figlia morta e risuscitata da Gesù porta alla confessione di fede del centurione e di tutta la sua casa (cf. Gv 4,1-4). Quello che mi interessa ribadire è che portare il Vangelo ai giovani non significa altro se non portare i giovani a Cristo. Dire il Vangelo e dire e dare Cristo.

    4. L’IDENTIKIT DEL GIOVANE CREDENTE CHE HA TROVATO IL CRISTO

    Il venire alla fede è un percorso che apre a un’esperienza, con tratti significativi e peculiari che definiscono il credente, il cristiano.
    A me affascina molto l’esperienza di San Paolo, anche perché è l’unico che parla autobiograficamente, in forma testimoniale. Sentirlo raccontare che cosa era prima dell’incontro con Cristo, che egli perseguitava accanitamente nei suoi seguaci, e che cosa è stato dopo, fa vedere i criteri di verifica di ogni autentica esperienza cristiana (cf. Gal 1,13-17). Sovente ci illudiamo di aver avuto una esperienza di Dio perché ci siamo sentiti commossi, ma dopo, dietro quel sentimento psicologico religioso, non c’è stato nessun cambiamento di vita.
    Sentire Paolo, come si esprime nella lettera ai Filippesi, che tutto quanto era per lui prezioso lo reputa “una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose (quelle che umanamente potrebbero essere la fonte e il fondamento della sua fierezza) e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo” e prendere parte alla sua risurrezione (cf. Fil 3,8-10). Sentire Paolo che non si lascia condizionare da nessuno e difende con coraggio, senza cedere a compromessi, “la verità del Vangelo” (Gal 2,5.14). Sentire Paolo che confessa che per lui “il vivere è Cristo” (Fil 1,21), sì che è “stato crocifisso con Cristo” e non è più lui che vive ma Cristo che vive in lui: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,19-20). Sentire Paolo che non ha voluto altra scienza “se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2), e che ha dei criteri di verifica per rendere palese e credibile il suo amore alla Chiesa come nessun altro apostolo può vantarsene (2Cor 11,18-30). Sentire infine Paolo che è fiero di portare nel proprio corpo le stigmate di Cristo per cui il mondo è crocifisso per lui e lui per il mondo (Gal 6,14-17).
    Il giovane è chiamato a essere cristiano, restando giovane in questa società. Quale l’identikit del giovane credente oggi, a confronto con i problemi e le sfide del suo esistere oggi, dunque della sua vita personale e sociale?
    · Una persona che vive la vita come vocazione, come realizzazione di un progetto che dà senso e unità a tutte la diversità di azioni e preoccupazioni; una persona che vive la vita come risposta di amore all’amore di Dio, capace di assumerla come un dono, sviluppare i suoi aspetti migliori con gratitudine e viverla con gioia.
    · Una persona di speranza, che sa vedere sempre il positivo, anche se piccolo e imperfetto, che sa rallegrarsi per i piccoli passi, che sa credere nel futuro e impegnarsi per esso, perché crede che la forza della risurrezione è presente e agisce nella vita quotidiana delle persone e della storia.
    · Una persona interiore, capace di fare silenzio, di ascoltare la voce di Dio nella sua vita quotidiana, alla luce della Parola; di sviluppare un rapporto di amicizia con Gesù attraverso i sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione e mediante l’accoglienza e il servizio dei più poveri e dei più piccoli.
    · Una persona di comunione, di dialogo, di accoglienza e di collaborazione, capace di creare amicizia e comunità attorno a lui.
    · Una persona che vive l’impegno quotidiano dello studio, del lavoro, della professione, della vita di famiglia, con fedeltà, con competenza, come risposta d’amore al Signore e servizio agli altri.
    · Una persona che sente e partecipa delle grandi aspirazioni e prospettive dell’umanità e della Chiesa: la pace, la giustizia, la difesa del creato, l’evangelizzazione e la costruzione di una civiltà dell’amore, attraverso l’impegno nel concreto della vita quotidiana e tra i propri compagni.

    4.1 La santità come traguardo di una vera educazione alla fede

    Una delle povertà del nostro tempo è la reticenza e il sospetto davanti agli ideali; ci accontentiamo e ci affidiamo soltanto a progetti a nostra misura, di piccola prospettiva; pensiamo soltanto ad una navigazione di ordinario cabotaggio, escludendo a priori i sogni di nuove rotte planetarie. Presentiamo ai giovani come ideali di vita le piccole mete del quotidiano: avere un buon lavoro, denaro, una famiglia, ecc. Ma i giovani hanno bisogno di grandi orizzonti, capaci di risvegliare e orientare il dinamismo delle loro vite. In modo particolare i giovani più poveri, che vivono e soffrono nel quotidiano tante limitazioni e difficoltà per realizzare la loro crescita umana, hanno bisogno di credere e affidarsi a possibilità di vita piena alla loro portata. Dobbiamo aiutare i giovani a sognare, a concepire grandi ideali, capaci di ispirare e motivare il loro sforzo per superare la strettoia del quotidiano e credere nelle possibilità inedite in loro presenti.
    Il linguaggio della santità usato nella catechesi, nella pastorale e nella predicazione sovente è caratterizzato da una visione antropologica e teologica poco integrale, moralista, talvolta narcisista (la ricerca dell’auto-perfezione), individualista, spiritualista e dualista. Ma questa visione non corrisponde al concetto evangelico di santità. Santità, secondo il Nuovo Testamento, è seguire ed imitare Gesù con tutto il cuore e con tutta la vita, lasciarsi condurre dallo Spirito Santo da figli, amare come siamo amati da Dio, vivere secondo la grazia del nostro battesimo. La santità cristiana è un dono, prima di essere frutto del nostro sforzo, è lasciarsi amare da Gesù, affidarsi a Lui e seguirlo con tutta la vita e con tutto il cuore. Allora la santità non si misura per lo sforzo di perfezione morale, ma per la grandezza del cuore che ama e si dona totalmente per amore.
    Soltanto così si può superare una concezione della santità per una élite di privilegiati, che esclude quasi per principio i più poveri o lontani. Ritengo che pensare questo sia un gran peccato contro il cuore del Vangelo. Gesù stesso diceva che il Regno di Dio è dei poveri e dei semplici; Paolo nella sua lettera ai Corinzi ci ripete che Dio ha scelto “ciò che è stoltezza del mondo… debolezza del mondo… ignobile nel mondo…”(cf. 1Cor. 1, 26ss). Gesù affermava di essere venuto non per i sani, ma per i peccatori, e che i poveri e i peccatori sono i primi destinatari dell’amore di Dio… Come possiamo pensare che la santità non sia una proposta per loro, che la santità sia soltanto per quelli che hanno già superato certe tappe di sviluppo umano?
    Evidentemente, credere questo ci impegna, come fece Don Bosco, a cercare un cammino educativo e pedagogico che apra con efficacia questi giovani all’incontro con Gesù, che li incoraggi a darsi con tutto il cuore, che li accompagni nello sviluppo delle proprie qualità e risorse: un cammino di vita cristiana adatto a loro, sempre verso la santità.
    Oggi esistono modelli significativi a cui il giovane può sentirsi ispirato nel suo cammino di fede, senza dover ricorrere a personaggi di un lontano passato Disponiamo di un patrimonio molto ricco e variegato: partendo dalle figure più note, come quelle di Domenico Savio, Laura Vicuña, Zeffirino Namuncurá, passando per la categoria dei martiri come i cinque giovani polacchi, e giungendo alle figure con aureola come la beata Teresa Bracco, il beato Piergiorgio Frassati e il beato Alberto Marvelli, o senza aureola ma ugualmente esemplari, come i vari Salvo D’Acquisto, Giacomo Maffei, Sean Devereux, Sigmund Ocasion, Fernando Calò, Ninni Di Leo, Xavier Ribas, Paola Adamo, Flores Roderick, Domenico Zamberletti, Bartolomé Blanco, Petras Pérkumas, Willi De Koster, Cruz Atempa, Renato Scalandri…
    Davanti a tanti giovani cresciuti negli ambienti salesiani delle diverse parti del mondo e che nella loro vita ordinaria hanno vissuto il Vangelo in una forma significativa ed esemplare, il  vocabolo "santità" non deve dunque intimidire, quasi volesse dire vivere un eroismo impossibile, proprio solo di pochi.

    4.2 Una appartenenza più cordiale e intensa alla Chiesa

    Anche se sentirsi Chiesa può oggi risultare particolarmente stretto o problematico per il giovane, che vede il mondo come suo orizzonte, e che vive un orientamento portato alla tolleranza, all’accettazione di un pluralismo religioso, dobbiamo rivendicare la comunità cristiana come il luogo e lo strumento per apprendere a vivere da giovane cristiano oggi.
    Nessuno oggi, soprattutto nessun giovane, può vivere come cristiano da solo, ma integrato in un gruppo o in una comunità, nella quale possa condividere la propria fede, confrontare i propri dubbi e difficoltà, appoggiare i propri sforzi, sostenere il lungo cammino di maturazione.
    I giovani in cammino di fede cercano gruppi e comunità con una chiara identità cristiana, nei quali si sentano stimolati e motivati a vivere e approfondire la propria fede; ma, allo stesso tempo, gruppi e comunità aperte, dialoganti, che assumano gli interrogativi, che sostengano la ricerca, capaci di accettare la diversità di ritmi e approcci.
    Queste qualità sovente non le trovano nelle comunità cristiane che incarnano la Chiesa nei propri ambienti (parrocchie); si sentono delusi ed estraniati davanti al formalismo, la burocratizzazione e la lontananza delle comunità cristiane adulte; scandalizzati per la debolezza, la paura e il silenzio dei pastori. Ma quando trovano comunità aperte, accoglienti, disponibili al dialogo e al confronto, quando trovano pastori che si mettono al loro livello, disponibili al dialogo e alla ricerca condivisa quando fanno esperienza di apertura all’universalità e di un’espressione pubblica e chiara della fede, come possono essere le Giornate Mondiali o altri incontri internazionali…, allora si sentono stimolati e incoraggiati a confessare e vivere la fede e a collaborare alla costruzione di una tale comunità.
    Una sfida importante per la Pastorale Giovanile è di trovare vie di sintonia tra i giovani e la Chiesa, tra la cultura giovanile e la ricchezza della tradizione della Chiesa di Gesù; trovare cammini che conducano ad una convergenza e approccio sempre più cordiale e fecondo. Non è facile rispondere a questa sfida; c’è bisogno di una pedagogia che aiuti i giovani ad aprire la loro soggettività alle ricchezze della tradizione, e che aiuti le comunità cristiane adulte a capire e dialogare con la cultura giovanile, cercando con loro di esprimere la fede in modo significativo.

    5. UN SOGNO, A MO’ DI CONCLUSIONE

    Come successore di un “sognatore”, mi permetterete di concludere con un sogno personale, una scommessa, sui giovani d’oggi.
    Vorrei sognare con la stessa passione apostolica di Don Bosco, che voleva felici i giovani in questa vita e per sempre. Il mio sogno è proprio questo, vedere i giovani che incontrano Cristo e vi trovano il senso e la gioia della vita, la risposta alle loro attese e ideali, il loro ruolo nella Chiesa e nel mondo. Il mio sogno è appunto di vedere i giovani come risorsa del presente, cui si devono offrire tutte le opportunità per lo sviluppo dei loro talenti e delle loro energie di bene, in modo da ringiovanire la società e la Chiesa.
    Don Bosco però non era soltanto un grande sognatore. Era ugualmente uno straordinario realizzatore dei suoi sogni, come sta a dimostrare tutto ciò che mise in piedi per venire incontro ai bisogni dei giovani. Perciò il mio sogno va accompagnato dall’impegno mio, della Congregazione e di tutta la Famiglia Salesiana per diventare sempre più chiaramente ed esplicitamente missionari evangelizzatori dei giovani, guide intelligenti e capaci per accompagnarli nella ricerca di progetti di vita.
    Vi incoraggio a non restare più alle soglie dell’evangelizzazione, ma ad essere propositivi, ad annunciare i giovani la Buona Novella, a portarli ad un incontro col Cristo, a dire e dare loro Gesù.

    (Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana 2010 - Roma Salesianum – 23 gennaio 2010



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