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     Giovani e vocazione:

    atteggiamenti e tensioni

    Franco Garelli

    (NPG 2009-01-17)



    I «numeri» dei preti

    I dati più recenti (forniti dall’Annuarium statisticum ecclesiae del 2008) indicano in 33.400 il numero dei sacerdoti diocesani presenti in Italia, per una media di un prete diocesano ogni 1.700 cattolici battezzati e per un rapporto di 13 sacerdoti ogni 10 parrocchie, anche se una quota di preti non sono impegnati a tempo pieno in una parrocchia, ma assolvono ai molti uffici e servizi di cui ha bisogno una struttura ecclesiale locale.
    Oltre ai preti diocesani, si contano in Italia 17.400 sacerdoti membri di congregazioni e ordini religiosi. Si tratta di una quota rilevante di clero (oltre il 50% di quello diocesano), parte del quale è impegnato nelle parrocchie per far fronte alla domanda religiosa di base, mentre la grande maggioranza si applica ad una pastorale di «settore», in rapporto al «carisma» dell’ordine o congregazione di appartenenza: la formazione dei giovani, la cultura, la sanità, l’assistenza, la comunicazione, ecc.
    Sommando i sacerdoti ‘diocesani’ ai ‘religiosi’, si hanno nel nostro Paese quasi 51.000 preti, uno ogni 1.160 abitanti circa e ogni 1.100 ‘cattolici’.
    Stando a questi numeri non si può certo dire che vi sia poco clero in Italia, anche considerando il fatto che la densità di clero è sensibilmente più elevata nel nostro paese che in altre nazioni europee (pur di cultura e tradizione cattolica); ciò con l’eccezione della Polonia, che oggi si avvicina alla situazione italiana. Ad uno sguardo più ampio, invece, emerge il vantaggio incolmabile in termini di figure sacerdotali che contraddistingue il nostro paese rispetto ad altre aree mondiali in cui la religione cristiana è presente: ad esempio, vi è un prete diocesano ogni 7.000 cattolici circa nelle Americhe, ogni 7.000 in Africa, ogni 4.000 in Asia, ogni 3.000 in Oceania.
    Tuttavia la pur alta densità del clero in Italia si scontra, come ben sappiamo, con una percezione diffusa e con dati strutturali che indicano che la situazione si sta profondamente modificando. Oggi molti ambienti ecclesiali lamentano la carenza del clero, non perché vi siano pochi preti in assoluto, ma perché ci si riferisce in genere ad un’età dell’oro delle vocazioni (come gli anni successivi alla seconda guerra mondiale) caratterizzata da un grande densità di sacerdoti (circa il doppio di quella attuale). Grazie alla ricchezza del ruolo sacerdotale si è affermato nel tempo un modello di chiesa che è difficile riprodurre in stagioni che vedono la riduzione di questo tipo di personale.
    Veniamo qui al problema strutturale, dovuto a vari fattori. Anzitutto la crisi delle vocazioni e delle nuove ordinazioni, il fenomeno delle defezioni, e soprattutto il processo di invecchiamento del clero. Negli ultimi 50-60 anni il numero dei sacerdoti in Italia è diminuito di oltre il 30%, ma quello dei seminaristi di circa i 2/3. Nell’ultimo decennio, a fronte di una media annuale di 750 decessi di sacerdoti, si sono registrate circa 40-50 defezioni e 500 circa nuove ordinazioni. In media, due o tre decenni or sono, si contavano ogni anno minori decessi, ma vi era un tasso un po’ più alto di defezioni e un minor numero di sacerdoti novelli.
    L’invecchiamento degli effettivi è dunque un fenomeno rilevante. Nel 2005, ad esempio, l’età media del clero era di 60 anni, dieci in più di quella media della popolazione maschile nazionale con più di 50 anni. Inoltre, il 36% del clero diocesano aveva meno di 50 anni, il 17% un’età compresa tra i 51 e i 60 anni, il 23% tra i 61 e i 70 anni, mentre il 25% era nella classe di età più alta (oltre i 70 anni). È per far fronte a questa «crisi» del clero che la chiesa nazionale ricorre al personale religioso proveniente da altri paesi e continenti. Circa il 5% del clero diocesano (oltre 1.500 persone) è composto da preti di ‘importazione’, anzitutto la Polonia, l’America latina, l’Africa. Si tratta di un clero più giovane (in media 45 anni), che sovente resta in Italia dopo gli studi nelle Università cattoliche romane. Sul ricorso a questo tipo di clero il dibattito è aperto anche negli ambienti ecclesiali. Molti si interrogano sull’opportunità dell’impiego in Italia di queste figure, che potrebbero essere utilizzate per creare delle diocesi intere nei paesi di missione.

    L’atteggiamento dei giovani verso la vocazione

    Da quanto detto è evidente che la vocazione sacerdotale gode di un minor appeal per i giovani d’oggi rispetto ad un passato più o meno recente. L’erosione degli aspiranti al sacerdozio che si è registrata negli anni ’70 e ’80 si sta un po’ ricomponendo, ma la stabilizzazione o la lenta ripresa non nasconde un certo malessere ‘comunicativo’ che attornia questo tipo di esperienza e scelta di vita.
    Può essere utile al riguardo analizzare sia l’atteggiamento dei giovani italiani nei confronti della vocazione sacerdotale (e religiosa), sia i problemi e le tensioni cui si espongono i soggetti che avvertono nel loro cammino questo tipo di vocazione.
    Sul primo aspetto si ricavano indicazioni molto interessanti da un’indagine promossa due anni fa dai Paolini, sul tema della vocazione, che ha coinvolto un campione rappresentativo degli oltre 9 milioni di giovani italiani di età compresa tra i 16 e i 29 anni.
    L’idea della «vocazione» non sembra essere estranea alla maggioranza dei giovani d’oggi. Anche se perlopiù si affidano al «carpe diem» e hanno lo sguardo corto, essi  non hanno smesso di sognare e di essere attratti dai grandi ideali. È diffusa la convinzione che ogni persona ha una missione da compiere, un progetto da realizzare, e che una vita degna di chiamarsi tale non è una sommatoria di scelte casuali. Ancora, i giovani ammirano le scelte di vita più costringenti, quelle che rispondono ad una ‘chiamata’ particolare e che richiedono forza d’animo e fedeltà di impegno. Così essi rivalutano chi sceglie la vita religiosa per dedicarsi ad una grande causa, ma anche quanti sono impegnati nel mondo in professioni fortemente coinvolgenti. Almeno in teoria, dunque, i giovani avvertono il fascino di prospettive più ampie, di condizioni di vita e professionali a cui «sentirsi chiamati» e per le quali sia possibile esercitare una scelta. Essere chiamati e scegliere: ecco la domanda ideale di molti giovani, che vorrebbero una vita meno dipendente dal caso, più orientata a esprimere il meglio di sé e socialmente più feconda.
    Tuttavia, i giovani d’oggi sono anche consapevoli di aver poche risorse per perseguire i grandi progetti, anche condizionati da una cultura che enfatizza la sperimentazione ad oltranza e che orienta a rinviare nel tempo le scelte di vita; tutti aspetti difficilmente compatibili con vocazioni impegnative e costringenti.
    Di qui la tendenza di molti a maturare un’idea minima di vocazione, capace di dar senso alle piccole opzioni della vita quotidiana, dai rapporti con gli amici alle dinamiche affettive, dall’ampliamento delle possibilità espressive al divertimento, dalla coltivazione del proprio potenziale umano alla ricerca di stili di vita distintivi.
    In sintesi, è diffusa nei giovani un’idea feriale di vocazione, capace di nobilitare l’esperienza ordinaria; ma a fianco di questo orientamento vi è una chiara tendenza a riconoscere l’importanza di vocazioni più impegnative, come una sorta di nostalgia di grandi orizzonti che si produce anche in chi è costretto a vivere nel mare (coinvolgente, anche se limitante) della quotidianità.
    Circa l’abbassamento delle attese da parte di molti giovani sembra esservi una precisa responsabilità sociale. Troppi giovani hanno difficoltà a individuare nel loro intorno immediato delle persone significative, capaci di richiamarli ad un’idea alta di vocazione. Molti dichiarano di non essere mai stati aiutati da alcuno a comprendere le proprie aspirazioni o a meglio perseguirle. Altri hanno difficoltà a individuare delle figure ‘vocazionali’ significative nei luoghi ordinari in cui essi scandiscono l’esistenza. Una certa quota di giovani, poi, dichiara di aver pensato – nel corso della propria sin qui breve esistenza – di abbracciare la vita sacerdotale o religiosa. Per i più si è trattato di un’intenzione dal fiato corto, come quelle che si maturano nell’infanzia o dell’adolescenza, all’epoca del catechismo, o dell’oratorio, o delle scuole cattoliche. Tuttavia, non pochi di questi giovani vi hanno riflettuto per più di tre anni, anche se poi vi hanno riununciato. È il segno che gli ambienti e le figure religiose esercitano ancora un certo fascino sui ragazzi d’oggi, mentre lo stanno perdendo per i giovani.
    Si ammira chi oggi ha il coraggio di andare in seminario o in convento, ma alla stessa stregua di quanti operano scelte radicali ed esigenti nella città secolare. Un sacerdote e un’assistente sociale, una suora missionaria e un medico realizzano delle vite di pari valore sul piano vocazionale. Di più, la stessa vocazione religiosa viene rivalutata soprattutto quando si traduce in forme di servizio di frontiera, ai margini della società e della storia.
    In sintesi, l’idea della vocazione esercita ancora un grande appeal tra i giovani, anche se – come nelle chiamate telefoniche – prevale il ritornello: «avviso di chiamata inoltrato… attendere prego!».

    Le tensioni

    Alcune delle tensioni prima enunciate si ritrovano anche tra  candidati al sacerdozio e condizionano le loro scelte e il cammino formativo. La celebre rivista Études ha dedicato di recente un articolo ai seminaristi francesi nel 2008. In esso vengono analizzate non soltanto le condizioni che meglio possono aiutare i giovani ad arricchire nel tempo questa scelta di vita (una disposizione umana e spirituale di fondo, la ricchezza di un’esperienza ecclesiale di base, la propensione e la formazione alla comunità, la ricerca interiore e intellettuale, l’apertura a valori e orizzonti di gratuità e di grazia, ecc.), ma anche le tensioni che i candidati al sacerdozio trovano nel loro cammino di vita.
    Ampliando questa riflessione si può anzitutto dire che un primo ostacolo alla vita sacerdotale è rappresentato da una scelta umana controcorrente rispetto alla cultura prevalente. I giovani che si orientano al sacerdozio sono chiamati a operare decisioni e orientamenti che contrastano la propensione della maggioranza dei loro coetanei a dilazionare nel tempo le scelte, a vivere ‘senza fretta di crescere’, a privilegiare un modello di realizzazione basato sulla molteplicità delle esperienze e su un forte accento sull’autorealizzazione. Occorre dunque del coraggio culturale per intraprendere la strada del sacerdozio, per non sentirsi ‘spostati’ o ‘estranei’ rispetto a una cultura che fa della sperimentazione a oltranza una ragione di vita. Come comporre dunque la tendenza alla sperimentazione con una condizione che richiama ad una decisione fondamentale che segnerà per sempre la propria esistenza? Come i giovani seminaristi possono sentirsi a pieno titolo parte dell’attuale condizione giovanile e nello stesso tempo smarcarsi dai tratti culturali allentati con cui le nuove generazioni affrontano il loro futuro? Come riuscire a operare delle scelte definitive in un tempo fortemente segnato dalla precarietà di vita e dall’incertezza circa il futuro?
    Una seconda tensione riguarda l’importanza che oggi tutti i giovani attribuiscono alla dimensione affettiva dell’esistenza e a rapporti comunitari significativi. Oggi i giovani sono assai attenti alle condizioni soggettive della loro presenza nei diversi ambienti. Hanno bisogno di avere di fronte a sé figure e modelli di riferimento significativi, in grado di testimoniare la validità di proposte di vita e di vocazioni impegnative. La vita sacerdotale rischia di essere di debole richiamo se l’orizzonte di realizzazione si consuma in contesti privi di slanci affettivi, carenti di gratificazione umana e spirituale, più orientati al fare che al significato, più informati dalla routine che dalla freschezza. In particolare i giovani  avvertono l’esigenza di comunità umanamente e spiritualmente ‘calde’, di leadership capaci di guida e di orientamento. In vari casi la vita sacerdotale concreta si presenta con una durezza di esperienza che rischia di sconcertare non poco i giovani che sono alla ricerca di rapporti autentici, di scambi arricchenti, di condivisione di ideali e progetti.
    Un’altra tensione è individuabile nella difficoltà di mantenersi fedeli nella propria biografia a una vocazione che richiede costantemente l’impegno e la dedizione per gli altri, così sbilanciata su un ruolo di orientamento etico e spirituale da esporre i soggetti al rischio di svuotamento e di inaridimento. Sovente questi problemi della condizione sacerdotale vengono nascosti dalla questione del celibato, dal fatto cioè che sia preclusa ai preti una vita affettiva di coppia e di famiglia. Ma le indagini ci dicono che in vari casi quella del prete è più una solitudine sociale che ‘familiare’, e che sovente quella familiare prende il sopravvento quando la solitudine sociale diventa dirompente.
    È dunque fondamentale affrontare in modo costruttivo queste diverse tensioni per aiutare quanti oggi sono alle prese con una vocazione così impegnativa. Ma anche per avvicinare i giovani ad una scelta di vita che può ampliare i loro orizzonti e arricchire i loro riferimenti.

    Bibliografia

    * F. Garelli, La chiesa in Italia, il Mulino, 2007.
    * F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino, 2006.
    * F. Garelli (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, San Paolo, 2006.
    * G. Le Stang, Séminaristes en 2008, in «Études», mars 2008, pp. 351-362.


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