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     Storia della Pastorale giovanile /2

    Il Medioevo

    Ottorino Pasquato

    (Da: Dizionario di pastorale giovanile, Elledici 1989)


    È risaputo che il Medioevo (=M.E.), come l’antichità cristiana, non conosce una pastorale giovanile vera e propria. È possibile però storicamente documentare che la cristianità medievale si è fatta carico della formazione cristiana del fanciullo e del giovane, sia pur secondo modalità e con spirito propri. In ciò, comunque, essa si è mossa in continuità con l’antichità cristiana (e classica), non senza sviluppi innovativi.
    Stabiliamo anzitutto il significato dei termini «infante», «fanciullo», «adolescente», «giovane», secondo i medievali. Premettiamo con J. Leclercq (Pedagogie et formation spirituelle du VIe au XIe siècle, in Aa. Vv., La scuola nell’occidente latino dell’alto M.E., Spoleto 1972, p. 257) che i termini indicanti le distinte età dell’uomo nelle diverse tappe della sua crescita (infanspueradulescensiuvenis) sono di rado usati con la precisione dei teorici. Di solito si è ammesso che, dopo la nascita, un fanciullo attraversa infantiapueritiaadulescentia, così da Agostino passando per Cesario d’Arles, Gregorio M., Beda, Isidoro, Alcuino [...]:infantiapueritiaadulescentiaiuventusgravitas (senectus). Per Isidoro di Siviglia eccone i limiti cronologici: infantia (1-7 anni), pueritia (7-14), adulescentia (14-28), iuventus (28-50), gravitas (50-70), senectus(70-..) (B. McKee Craig, Les enfants et la pénitence avant Latran IV (1215). De ludibus puerilibus, in 172 [1987], p. 90). A 21 anni l’adolescente, secondo Isidoro, raggiunge 1’aetas legitima, ma la possibilità di sposarsi è già a 12 anni per le ragazze e a 15 anni per i ragazzi. I testi monastici, seguendo Benedetto (Regula, c. 33), parlano di pueri fino a 15 anni, poi di adulescentes (P. Riché, Le scuole e l’insegnamento nell’occidente cristiano dalla fine del V secolo alla metà dell’XI secolo, Roma 1984, p. 208). Per Gregorio M. i parvuli et infantes sono innocenti, ma leggeri e gli adulti sono pieni di vizi: tra queste due età egli situa l’adolescenza aperta al bene come al male. J. Leclercq (Pedagogie, p. 354) riscontra nei testi grande imprecisione di vocabolario circa i limiti cronologici dell’infanzia e dell’adolescenza; egli ritiene che l’infanzia duri a lungo, talora fino a 20 anni e più: pedagogicamente si è iuvenis fino a che si abbisogna d’apprendere. Sono dati da tener presenti per interpretare bene i testi, pur attribuendo ai termini attuali, bambino, fanciullo, adolescente, giovane il significato che oggi hanno. Inoltre, notiamo come gli antichi e i medievali conoscono la crescita, ma non lo sviluppo del fanciullo e dell’uomo: ignorano la psicologia del bambino, del fanciullo, dell’adolescente e del giovane, che, per loro, sono diversi, per dimensioni, dall’adulto, concependoli però come «uomini in piccolo» e ignorando così la psicologia dell’età evolutiva: è l’errore denunciato col termine di adultismo (Aa. Vv., Cf. Éducation, apprentissages, initiation au Moyen Age, Montpellier 1993; A. Giallongo, Il bambino medievale. Educazione e infanzia nel Medioevo, Bari 1990; J.A. Schultz, The Knowledge of Childhood in the German Middle Ages, 1100-1350, Philadelphie 1995).
    In regime di cristianità infine, come quello medievale, sono determinanti ai fini formativi l’ambiente familiare (sul ruolo del padre, cf. , sociale ed ecclesiale. I limiti cronologici, poi, della nostra trattazione vanno dalla fine del sec. VI all’inizio del sec. XVI. Seguiremo lo sviluppo formativo del fanciullo dalla ricezione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana fino alla sua maturazione giovanile mediante la pastorale familiare e comunitaria ecclesiale. Tipica formazione è riservata ai giovani destinati alla vita monastica, clericale, così a coloro che frequentano le scuole o ricevono un’educazione aristocratica a parte (cf. P.T. Stella, Medioevo, in J.M. Prellezo et Alii,Dizionario di Scienze dell’educazione, Leumann [Torino], ecc.1997[ Bibl.]), pp. 668-679 (fondamentale); 674-675: i destinatarii dell’educazione).

    1. PASTORALE SACRAMENTALE DEI FANCIULLI

    La prima fase della pastorale è quella riguardante i sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia) e quello della penitenza.

    1.1. Battesimo e catechesi

    Nell’Europa mediterranea e occidentale gli ultimi pagani vengono battezzati prima della fine dell’antichità. Insediatisi i barbari in occidente la Chiesa «passa ai barbari», li battezza: «Poiché ora il nome di Cristo s’afferma con forza ovunque e i figli nascono da padri cristiani, bisogna presentarli senza indugi, affinché ricevano la grazia del battesimo, anche se non parlano ancora» (Giona, De institutione laicali I, 8). Ne sono conferma le aggiunte al rituale gelasiano (tra la 2a metà del VI e la 1a del VII sec.), che comportano un rituale «organizzato esclusivamente per i bambini» (P. M. Gy, Évangélisation et sacrements au M. A., in Kannengiesser C.-Marchasson Y., Humanisme et foi chrètienne, Paris 1976, p. 566). Dal VI secolo, non solo a Roma, la Chiesa raccomanda il battesimo dei bambini appena nati; i testi dell’epoca presentano tale prassi come abituale, anche se i genitori ne saranno solo più tardi vincolati (sin.di Cashel, a. 1172). Il battesimo viene conferito nelle parrocchie e in Gallia, contro i canoni, a Natale o alla festa di S. Giovanni o di un altro santo (Gregorio di Tours, Historia8,9). Il lungo catecumenato non ha più ragione di essere; dalla metà del sec. V al sec. VI esso cessa gradualmente di essere una struttura pastorale efficace per divenire un insieme di riti, sempre più restringentisi nel tempo. Dal sec. VI e lungo tutto il M.E. permangono i nomi (catecumenato, catecumeno), i riti (sia nel battesimo degli adulti, sia in quello dei bambini che finisce per soppiantare il primo), tuttavia si giunge alla scomparsa definitiva della struttura pastorale propria del catecumenato antico (cf. A. Angenendt, Der Taufritus im Frühhen Mittelalter, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale, I [Settimana XXXIII], Spoleto 1987, 275-321; 287-294: battesimo e catechesi; 309-314: cresima; O. Pasquato, Quale tradizione per l’iniziazione cristiana? Dall’età dei Padri all’epoca carolingia, in Aa. Vv., Iniziazione cristiana degli adulti oggi (Atti 26a Sett. di Studio Ass. Proff. di Liturgia, 1997), Roma 1998, pp. 75-105; P.T. Stella, Padrinato e madrinato battesimali a Napoli sull’inizio del sec. XIV […], in M. Maritano (ed.), Historiam Perscrutari. Miscellanea di studi offerti al prof. O. Pasquato, Roma 2003, pp. 409-421). Il M.E. ignora un vero catecumenato, che rinascerà in parte solo nell’epoca moderna in zone di missione. I pastori corrono ai ripari: Cesario di Arles fa precedere ogni battesimo da una sintesi di quelle catechesi battesimali anteriormente in vigore nella quaresima. Si effettuano esorcismi. «Nel quadro della più lunga preparazione al battesimo del periodo pasquale, aveva parte precipua una speciale istruzione destinata prevalentemente ai padrini. Questi s’impegnavano a fornire in seguito al bambino il minimo dei rudimenti della fede (il Credo, il Pater) e a garantirne l’avvio alla virtù» (A. Vauchez, "Faire croire". Diffusion et rèception du message religieux au Moyen Age, Paris 1980, 31-40; H. J. Vogt, in Storia della Chiesa, dir. da H. Jedin, III, Milano 1978, p. 301; L. La Rosa, La formazione cristiana nel medioevo, Leumann [Totino] 1998, pp. 60-72). Il pedobattesimo viene ribadito alla fine del1’VIII secolo da un capitolare di Carlo M. alla Sassonia, in cui si prescrive che i bambini siano battezzati infra annum, prima del compimento del primo anno di età, anche se non è da escludersi il significato di evangelizzazione forzata nello spazio di un anno (Capitolare de partibus Saxoniae, 19, a. 775-790). Si arriverà presto alquamprimum. Il passaggio poi, già avvenuto nel 754 con Pipino, alla liturgia romana, diviene definitivo con Carlo M., che verso il 785-786 si procura a Roma un sacramentario gregoriano, portandolo ad Aquisgrana come modello obbligatorio.
    La prassi, instaurata col pedobattesimo già con Cesario di Arles, della catechesi, cioè ai genitori, ai padrini e alle madrine continua in età carolingia. II vescovo di Basilea, Aitone, afferma: «Bisogna che l’Orazione domenicale, [...] e il Simbolo degli apostoli [...] siano appresi da tutti in latino o in lingua volgare, affinché ciascuno creda e comprenda nel suo cuore ciò che confessa con la sua bocca » (Monumenta Germaniae Historica[=MGH], Capit. I, p. 363; per Beda cf. G. Caputa, Il sacerdozio dei fedeli secondo Beda. Un itinerario di maturità cristiana, Città del Vaticano, 2002, pp. 228-234: i sacramenti dell’iniziazione cristiana). Gli adulti devono reimparare, se ce n’è bisogno, il Credo e il Pater. Intanto dopo il battesimo la formazione del bambino ha luogo in famiglia, anzi il bambino stesso viene cointeressato, se il conc. di Parigi (829) richiede che egli, raggiunta l’età della ragione, rinnovi le promesse battesimali (can. 54). È il tempo in cui egli dovrà anche iniziare a frequentare la scuola, dove imparerà sia a leggere, sia i rudimenti della fede: «Ciascuno mandi il proprio figlio a imparare le lettere e questo rimanga nella scuola fino a che non sia bene istruito» (MGH, Capit. I, p. 234). Anzi, qualora i genitori avessero dimenticate le preghiere, egli, ritornato a casa, dovrà insegnarle loro (conc. di Magonza, can. 45, a. 813; cf O. Pasquato, Parrocchia e liturgia nella tradizione, in Riv. Lit. 78 [1991]204-236: M. E.; qui: p. 218). Chi poi non frequenterà la scuola rurale, riceverà la stessa istruzione degli adulti col partecipare alla predicazione, principale insegnamento religioso in un contesto di civiltà basata sulla trasmissione orale (cf L. Csonka, Storia della catechesi, in (P. Braido [ed.], Educare. Sommario di scienze pedagogiche, vol 3, Zürich 1964, pp. 90-102; per l’uso della lingua tedesca cf. F. Delbono, La letteratura catechetica in lingua tedesca (Il problema della lingua nell’evangelizzazione), in La conversione al cristianesimo nell’Europa dell’alto medioevo (Settimana XIV), Spoleto 1967, pp. 697-741; 733-741: i testi catechetici).
    Nei secoli XIII-XIV il battesimo, prima fissato per la Pasqua e la Pentecoste, viene raccomandato subito dopo la nascita, anzi, se possibile, nello stesso giorno. In questo periodo, inoltre, troviamo disposizioni sinodali, che impongono al sacerdote di istruire i giovani nella fede e nella morale (sin. di Béziers, Mansi XXIII, p. 693, a. 1246; sin. di Albi, Mansi XXIII, p. 837, a. 1254). Dal tardo M.E. genitori e padrini devono insegnare ai fanciulli 1’Ave Maria e i 10 comandamenti. Opere edificanti, come La via del Cielo di Stefano di Landskron (m. 1477) e lo Specchio del cristiano di Teodorico Kolde (m. 1515) aiutano genitori e padrini ad osservare questo dovere.

    1.2. Confermazione

    Fino circa il sec. IX i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana vengono conferiti insieme come nella Chiesa antica. Nelle due famiglie di codici liturgici presenti in Italia nel sec. XI, battesimo e confermazione sono ancora uniti. Nel sec. XII appaiono i Pontificali romani con la presenza autonoma dei riti del vescovo: qui per la prima volta il rito della confermazione appare separato dal contesto battesimale. Fuori d’Italia, Onorio d’Autun riporta una celebrazione della confermazione otto giorni dopo il battesimo (Operum pars, III, LiturgicaPL 172, 673). A Roma da tempo vengono battezzati solo i nati nella settimana santa; gli altri, battezzati quamprimum, quella notte vengono solo confermati. Dopo il concilio Lateranense IV (1215) in Italia e in Europa la confermazione viene impartita dai 4 ai 7 anni. In pratica la varietà di situazioni è grande. Dai richiami dei sinodi e delle costituzioni si deduce l’importanza attribuita alla confermazione, che viene però disattesa, per la lontananza del vescovo. Per S. Bonaventura l’età del conferimento è quella della ragione (Sent. IV, d. VI, a. 3, q. 1). Ma S. Tommaso, pur non facendo problema per l’età, propende per l’età infantile per una più degna ricezione e per poter offrire anche alla fanciullezza la vita perfetta della grazia (Summ. Theol. III, 72,8 ad 2). Di fatto molti confermandi sono pueri, ci sono gli infantes e parecchi adulti. Lo sviluppo indicato giunge alla sua fase decisiva con Innocenzo VIII che adotta nel 1485 come testo ufficiale della chiesa di Roma il pontificale di Guglielmo Durando di Mende (m. 1296) e che sarà imposto a tutta la Chiesa dal concilio di Trento. Il rituale del Durando (De chrismandis in fronte pueris) contiene, tra l’altro, la raccomandazione ai padrini di insegnare ai figliocci il Credo, il Pater e l’Ave Maria. La separazione della confermazione dal battesimo ha favorito l’approfondimento teologico di essa nel suo significato, valore ed effetto peculiare, che è il dono dello Spirito S., colto nel suo valore di forza (robur) in vista della testimonianza.
    Le disposizioni del concilio Lateranense IV, inoltre, circa l’eucaristia sortiscono pure l’effetto di spostare la confermazione. Le conseguenze in campo pastorale sono positive col favorire una più efficace preparazione al sacramento. Passato il M.E., in cui la formazione cristiana era basata sull’ambiente cristiano, quando si delineerà un nuovo modello di società, sarà necessario organizzare in modo più appropriato la preparazione all’eucaristia e alla confermazione: sarà il periodo postridentino dei catechismi.

    1.3. Eucaristia

    L’evoluzione a proposito dell’eucaristia è simile a quella della confermazione. Appena battezzato, il bambino viene comunicato almeno sotto la specie del vino; ma poiché alcuni sacerdoti usano, per il solo segno, vino non consacrato, l’uso viene proibito. Questi abusi accelerano la separazione della comunione dal battesimo. Fra il V e il VI secolo si ha una forte riduzione della frequenza all’eucaristia. Il concilio di Agde del 506, can. 18, stabilisce la comunione almeno per Natale, Pasqua e Pentecoste ed esige una rigorosa preparazione alla comunione più frequente. Cesario non osa chiedere la comunione domenicale proprio per la preparazione seria che esige (per es. almeno più giorni di continenza matrimoniale) (Serm. 16,2; 19,3; 44,3). Si avverte intanto, sotto il profilo pastorale, l’esigenza che il bambino prenda coscienza del sacramento, almeno in proporzione all’età: l’aspetto soggettivo va prendendo il sopravvento su quello oggettivo. Per comunicarsi si esige un minimo di catechesi sul sacramento. Il concilio Lateranense IV farà obbligo a tutti di comunicarsi una volta l’anno, dall’età di 12 anni, così pure di confessarsi (cf. R. Foreville, Storia dei concili ecumenici. VI. Lateranense I, II, III e Lateranense IV, ed. italiana a cura di Ottorino Pasquato, Città del vaticano2001, pp. 290-292). Nei secc. XIII-XIV ci si accosterà più di rado alla comunione, riservata alle grandi solennità e in parte al rito di riconciliazione, durante il quale i partiti opposti ricevono ciascuno una parte dell’ostia. Il M.E. non conosce però un insegnamento specifico per la comunione.

    1.4. Penitenza

    Nelle fonti antiche sono individuabili almeno tre punti di contatto tra i fanciulli e la pratica penitenziale nella Chiesa antica: essi sono legati alla remissione del peccato nel contesto battesimale (poenitentia prima); si distingue, poi, tra quelli che hanno meno di 20 anni e quelli che ne hanno di più e sono sposati (ci si riferisce a penitenze per peccati di bestialità o di omosessualità) (conc. di Ancira, can. 15, a. 314); infine, mai imposte ai fanciulli, le esigenze della penitenza canonica sono proibite ai giovani (conc. di Agde, can. 15, a. 506; sin. di Orléans, can. 24, a. 538). Cesario suggerisce al riguardo che nessuno di età inferiore ai 40 anni prenda parte al rituale. Nell’alto M.E. la prassi penitenziale passa dalla modalità pubblica a modalità privata sotto l’influsso monastico caratterizzato dal consiglio spirituale (Craig B. McKee, Les enfants et la pénitence avant Latran IV (1215). De ludis puerilibus, in La Maison-Dieu 172 (1987) 95-96; cf O. Pasquato, Parrocchia e liturgia, pp. 218-221). Il medesimo A., previa analisi di 28 Libri Penitenziali, rileva importanti indicazioni circa i fanciulli e la penitenza. Il fanciullo viene considerato in quanto soggetto (peccatore) e in quanto oggetto (vittima del peccato di un altro, adulto o fanciullo più anziano): ne risulta approfondita la dimensione antropologica e teologica di lui nella sua graduale crescita (ivi, p. 96). I dati che la critica storica ha ricavato dai Libri Penitenziali ci ragguagliano sul fanciullo come soggetto peccatore e penitente, dal punto di vista cronologico, ma sopratutto il loro interesse s’incentra sul peccato stesso e la pena corrispondente alla natura del peccato e l’età del penitente. Si tace però sulla forma rituale della pedoconfessione (cf R. Kottje e G. Hagele). Gli studiosi rilevano la persistente identità del metodo classificatorio dei peccati e tariffario. Si distinguono i peccati di natura non sessuale da quelli di natura sessuale e questi secondi, concernenti i fanciulli, superano i primi nella proporzione approssimativa da 4 a 1 (cf C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel medioevo, Leumann-Torino 1988, pp. 90-92). Dai testi esaminati dal Kraig risulta che il numero dei canoni aumenta (da 2 a 20) in proporzione diretta al crescere dell’età (dal di sotto dei 10 anni fino quasi a 20). 1 canoni poi riguardanti la bestialità (cum pecude) e della masturbazione reciproca (se invicem manibus) risultano comportare una codificazione sacramentale configurata nei termini tipici: penitente-peccato-tariffa. È la dimostrazione della prassi sacramentale in riferimento al soggetto-fanciullo.
    Quanto alla pena, Avito di Vienne consiglia di lasciar morire senza penitenza dei giovani, privi di culpae capitales, piuttosto che metterli nel pericolo, in caso di guarigione, di non poter mantenere la continenza matrimoniale e di dover quindi essere considerati apostati (Ep. de sub. poen.).
    Vincenzo di Ruspe stabilisce con tatto pastorale che la penitenza ricevuta in pericolo di morte obbliga alla castità, solo col consenso dell’altro coniuge; ma anche qui prevale una certa indulgenza. Cesario esorta i giovani lussuriosi ad accostarsi al più presto alla confessione e alla penitenza (Serm. 66,1; 56,3; 65,2). Nel sec. XII ci si interroga sul peccato dei bambini e la loro responsabilità. È piuttosto diffusa l’opinione di Abelardo che nega la capacità del fanciullo di distinguere tra bene e male. La posizione è condannata dal conc. di Sens. Una vera svolta giuridica è segnata dal concilio Lateranense IV (can. 21) che ingiunge ad ogni fedele, giunto all’età della discrezione, la confessione sacramentale almeno una volta all’anno al proprio sacerdote e la comunione eucaristica almeno a Pasqua . Salta in aria ufficialmente la tipica triade antica dell’iniziazione cristiana. Il concilio, sotto la spinta dei mutamenti socio-culturali, ristruttura così deliberatamente il procedimento dell’iniziazione cristiana, introducendo come elemento nuovo il sacramento della penitenza da riceversi prima dell’eucaristia, anche se il M.E. non avrebbe conosciuto un’istruzione specifica sulla penitenza. I teologi si sforzano di definire gli anni discretionis, ne segue una formulazione canonica; S. Tommaso (m. 1274) approfondisce il rapporto tra fanciulli e eucaristia (Summ. Theol. III, q. 80, art. 9, ad 3). Il contributo sarà recepito da Pio X (1910), ripreso da Paolo VI (1973), codificato nel Codice di Diritto Canonico (1983), can. 989. La diffusa mancanza di istruzione religiosa trova un rimedio nei formulari per l’esame di coscienza e, verso la fine del M.E., nei libretti per la confessione in latino o in volgare. Dal 1410 al 1520 si contano una cinquantina di edizioni di simili libretti: l’invenzione della stampa offre il suo apporto anche alla catechesi sacramentale.
    Nei secoli XIV-XV G. Gersone (1363-1429), cancelliere all’Università di Parigi, esercita una profonda e vasta azione in rapporto alla confessione dei fanciulli e giovani. La sua classica operetta Del dovere di attrarre i fanciulli a Gesù (De parvulis ad Christum trahendis) (a cura di L. Locatelli - G. Allegranza, Milano 1945), composto a Lione nei suoi ultimi anni di vita, tratta in due capitoli (III e IV B) della confessione dei fanciulli, che egli classifica come quarto modo, proprio della religione cristiana, di portare i fanciulli a Gesù: «Se ne pensi ciò che si vuole, io per me, nella mia semplicità, giudico che la confessione, purché sia ben fatta, è la via più breve e sicura che dirige verso Gesù Cristo» (III, p. 50). L’abilità del confessore «espelle dal cuore il pestifero veleno» del peccato, a causa di cui il fanciullo «non sa muovere un passo verso Gesù Cristo» (III, pp. 50-51). Sulla frequenza auspica che i fanciulli facciano «almeno una volta all’anno una buona confessione», ma giudica «necessario che ogni fanciullo possa, una volta almeno, fare ad un confessore prudente una confessione di tutta la sua vita, [...] con calma e precisione (ivi, 1. c). Da qui un triplice vantaggio: purificazione dei fanciulli che spesso «commettono delle vergognose enormità: colpe che non sanno o non osano dire se non dopo di essere stati istruiti e interrogati seduta stante»; imparano così ciò che devono accusare in confessione e a non nascondere nulla e infine «essi raggiungono nella loro coscienza una pace più soave» (III, p. 53). Nel capo IV B.Gersone esorta i fanciulli ad accostarsi con fiducia alla confessione: il confessore, da parte sua, non violerà il segreto della confessione; egli desidera però che anche il penitente faccia altrettanto; toglie poi loro il timore di una penitenza troppo austera: «preferisco mandare gli uomini in purgatorio con una penitenza leggera che compiranno volentieri, piuttosto che gettarli all’inferno per una penitenza che non si sentiranno di fare». A conclusione esorta i penitenti ad osservare quattro cose: «1. Con parole o con opere non corrompere mai alcuno; ti basti almeno il dannarti da solo. 2. Se hai corrotto alcuni con consigli o con azioni, presto sforzati di migliorarli con garbo! 3. La vergogna non ti impedisca di confessarti bene. Manifesta i peccati conosciuti, se no essi ti nuoceranno. 4. Per ringraziare del perdono, per non ricadere, impegnati a osservare qualche pia pratica facile» (ivi, pp. 91-92; cf. J. Delumeau, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo, Cinisello B. [Milano] 1992).

    2. PASTORALE FAMILIARE

    Nel M.E. la Chiesa non esercita una speciale cura pastorale sui fanciulli e sui giovani; i catechismi non esistono. Ai giovani destinatari essa propone ciò che propone agli adulti, per la loro formazione si affida all’ambiente cristiano (famiglia, scuola, società) e all’assemblea liturgica col popolo. Il primo ambiente è quello familiare, in cui il fanciullo è formato dai genitori entrando con essi in rapporti personali di comunicazione, di difesa, di amore (J. Delumeau (éd.), Histoire des pères et de la paternité, Paris 1990). Possono anche essere trattati duramente, percossi, se necessario (cf P. T. Stella, Puer quasi res parentum, in Or. Ped. VIII [1961], pp. 910-925). «Esistendo in seno alla comunità familiare, così legato ai suoi genitori, egli è innalzato al livello di essere che i genitori sono riusciti a dare a questa comunità, e, quando questo ambiente, che sostiene il fanciullo e lo fa esistere come uomo, è un ambiente cristiano, il fanciullo, che riceve da Dio nei sacramenti i principi della sua vita religiosa, è "elevato" in realtà ad essa (nel senso letterale della parola) mediante la comunità umano-cristiana, che gli conferisce le sue dimensioni d’uomo» (A. Chavasse, Histoire de l’initiation chrétienne des enfants de l’antiquité à nos jours, in 7 [1951] 36-37). Perciò la Chiesa dà fiducia alla famiglia, parte di se stessa in quell’ambiente. Il conc. di Aix-le-Chapelle nell’836 ordina ai genitori d’insegnare ai fanciulli il Pater e i loro doveri. Per secoli l’ambiente familiare ha assicurato la catechesi: come nell’alto M.E., così nei secc. X1-XII. Pure i predicatori del sec. XII ribadiscono ai genitori il dovere di condurre alla chiesà i figli; essi li devono educare alla preghiera frequente nella giornata (al mattino, a tavola, al suono delle campane [...]), come pure, particolare inedito, devono far recitare loro l’Ave Maria davanti l’immagine della Vergine (Jacques de Vitry; D.A.Bidon-D. Lett, Les enfants au Moyen Age Ve-Xve siècles, Paris 1997, pp. 97-125). Nel sec. XIII gli statuti sinodali in Francia, in rapporto alla messa domenicale, dispongono che i genitori insegnino ai figli, sia in francese che in latino, l’Angelus, il Pater, il Simbolo e i Comandamenti di Dio (Statuti d’Angers, a. 1220). Dell’annuncio in famiglia tratta Ildeberto di Lavardin (Serm130Ad pop.): si deduce che i genitori impartiscono quasi ufficialmente l’insegnamento religioso ai figli, tanto sostenuto dagli eretici. Nelle famiglie nobili l’educazione è affidata al cappellano del castello, ma chiunque frequenti la scuola elementare vi trova l’educazione umana e cristiana, poiché la religione è legata alle altre discipline, basti pensare che è su di un salterio che si apprende a leggere (E. Germain, Langages de la foi à travers l’histoire. Mentalités et catéchèse, Paris 1972, p. 24). In occasione della confessione annuale il parroco deve cominciare col far recitare il Pater e il Credo a ogni penitente (Reginone di Prúm, De synod. causis I, 275). In certi luoghi il sacerdote interroga sulla fede nella Trinità, risurrezione dei corpi, giudizio sul bene e sul male. Non mancano nel sec. XIII tentativi frenanti la catechesi in nome della semplicità del cuore (Rolando da Cremona) o dell’ortodossia. I genitori possono essere aiutati da libri, come traduzioni del salterio, ProverbiAtti degli ApostoliLibro dei Re, Vite dei Santi, contenenti aneddoti utili come exempla. L’Elucidarium di Onorio Augustodunense (m. 1130), dialogo tra un adulto e un giovane, tradotto, dovette servire più ai preti che ai genitori (P. Riché, L’enfant dans la société dans la socitétè chrétiénne aux XIe-XIIe siècles, in Aa. Vv., La cristianità dei secoli XI e XII […], Milano 1983, pp. 300-301). Col sec. XIII i libri edificanti si moltiplicano. Gersone più tardi deplorerà la mancata preoccupazione di molti genitori «per la custodia dei fanciulli, per la loro morale educazione e la diligente vigilanza su di loro» (Del dovere, 11, p. 39). Ciò è tanto più deplorevole, in quanto «i fanciulli sono atti a ricevere i primi elementi dei buoni principi, quando le false massime non li abbiano ancora penetrati troppo profondamente, quando le perverse esperienze non si siano ancora radicate in loro» (ivi, 1, p. 29). La famiglia riusce a insegnare a pregare? Essa riusce anzitutto a insegnare le formule. «Da Carlo M. fino agli statuti diocesani dei due ultimi secoli del M.E. constatiamo come ogni volta che lo sforzo pastorale è stato effettivo si è giunti a questa specie di alfabetizzazione cristiana» (P.-M. Gy, Evangelisation et sacraments au M. A.,p. 567). Dove poi, come pare, in Germania si sono introdotti il Pater e il Credo in volgare, la loro comprensione è stata facilitata; dove, invece, le lingue neolatine si sono andate scostando dal latino, il Pater e il Credo non sono stati più compresi. C’è anche chi, come il vescovo di Liegi, Garibaldo, raccomanda che le due preghiere vengano apprese non tanto come conoscenza e alimento della fede quanto per la loro forza (virtus) contro il demonio, a prescindere dalla comprensione del loro significato (Boretius, Capit. I, p. 242). Si va verso un senso magico della preghiera. Nel 1502 all’Università di Bologna si approva la traduzione volgare del Pater, Ave Maria e Credo, essendo il latino sconosciuto a molti: «Padre nostro, che sei in cielo, santificato sia il nome tuo [...]». Al concilio di Trento nel 1546 contro lo scandalo dei latini il card. Madruzzo, arcivescovo della città, dichiara: «Io so che è nella nostra lingua tedesca che mi è stata trasmessa da mia madre l’orazione del Signore, il Simbolo [...] e molte altre preghiere, che in Germania tutti i genitori sogliono insegnare ai loro fanciulli: da memoria d’uomo questo insegnamento non causò mai scandalo alcuno» (Conc. Trid. V, 30). Pur coi limiti di preparazione e di impegno educativo dei genitori e dei padrini, non si può negare l’efficacia cristiano educativa sui figli da parte della famiglia medievale (cf. Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma-Bari 1989, pp. 397-480).

    3. FORMAZIONE DEI GIOVANI ALLA VITA MONASTICA

    Non pochi fanciulli e giovani finiscono nei monasteri. Qual è la loro formazione?

    3.1. Dagli inizi al secolo VI

    Nel monachesimo orientale non sono riscontrabili né una struttura scolastica, né una progettata educazione dei giovani alla vita monastica o secolare. L’unica forma educativa è quella basata sul rapporto dialogale tra guida spirituale e discepolo ai fini di discernere la presenza o meno in questo del carisma monastico; egli viene formato sull’aneddotica sapienziale (Apoftegmi dei Padri) per conoscere Dio. Basilio legifera sui giovani aspiranti a divenire monaci circa la loro accoglienza, preparazione professionale e letteraria (Regulae fusius tractatae XV, 1,4,3). Benedetto (m. 547) si rifà alla «Regola del nostro padre S. Basilio» (Regula, c. 73). La prima vera scuola monastica è l’esercizio ascetico per vincere Satana e far trionfare in sé Cristo (cf Atanasio, Vita di Antonio, 7).

    3.2. Nel secolo VI

    La Regola del Maestro, in Occidente, ingiunge agli infantuli di «meditare le lettere>> (vol. 1, 50,25-35, a cura di M. Bozzi osb, Brescia 1995, pp. 131-133), ossia di imparare a leggere sul salterio. La Regola di Benedetto attesta la presenza in comunità di ragazzi e di giovani (pueriadulescentesinfantesusque ad quindecim annorum aetates [...] (cc. 30, 37, 39, 63, 70). Non può mancare un tipo di insegnamento biblico e liturgico per loro, ma non se ne dice nulla. Le scuole monastiche sorgeranno più tardi. La Regola però di Fereolo (m. 581) ingiunge: «Che nessun monaco ignori le lettere>> (imparare il salterio) (c. 11); all’incirca anche laRegola di Paolo e Stefano (c. 2), così Cesario per le vergini (Statuta sanct. virg., c. 7) fin dai 6 o 7 anni. Il tipo di didattica non è manifesto. Ciò che guida tutto è la preoccupazione della formazione spirituale, legata a modelli vivi, monaci già formati, «uomini spirituali e santi» (Regula Benedicti, c. 7), eccellenti nella bontà: «gli anziani accordino ai giovani un affetto paterno» (Regula Pauli et Stephani, c. 2). Dei giovani monaci Benedetto dice: «Infatti sovente Dio rivela ciò che c’è di meglio a chi è più giovane» (Regula c. 3,3). Istruzione e educazione pare dipendano da educatori sotto la guida del superiore, in seno alla comunità, luogo di formazione reciproca (J. Leclercq, Pédagogie, p. 268). Nelle regole monastiche si coglie un certo empirismo e diffidenza a riguardo del fanciullo. Il monastero non è per lui, a meno che non aspiri a farsi monaco, entrando nella scuola del servizio del Signore, dove cultura e spiritualità sono unite (R. Grégoire, Scuola e educazione giovanile nei monasteri dal sec. IV al sec. XII, in P. Braido (ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia. I: sec. IV-XVII, Roma 1981, p. 20). 3.3. Nei secoli VII-VIII Gregorio M. offre linee di una vera pedagogia e pastorale riflessa. Verso l’adolescente, bivio del bene e del male, è realista. Sottolinea l’impegno degli educatori (Ep. 7,23). Egli trasmette la lezione del monachesimo: «La vita dei buoni è una lezione vivente» (Moralia in Job, 24,8,16). Quanto alle vergini, Donato, vescovo di Besançon (m. 660 ca.), dispone che vengano accettate nel monastero fanciulle dai 6 o 7 anni già in grado di leggere. Al greco Teodoro (m. 690), arcivescovo di Canterbury, si deve una lunga serie di scuole monastiche nella chiesa anglosassone, di cui sono esponenti Beda (m. 735) e Alcuino (m. 804); è anche il tempo in cui a Canterbury molti allievi «erano tanto valenti nelle lingue greca e latina come nella propria» (Beda, Hist. Eccl. IV, 2). La Regola di Waldeberto di Luxeuil (m. 665), la più aperta, contiene un capitolo De nutrientibus infantibus (Regola ad virgines, c. 24). Vi regna un metodo: «Disciplinae ministerium». In S. Colombano (m. 615) la pedagogia tende alla formazione spirituale (cf. I. Biffi, La disciplina e l’amore. Un profilo spirituale di san Colombano, Milano 2002, pp. 14-23).

    3.4. Nei secoli IX-X

    L’apporto carolingio. La politica scolastica di Carlo M. con la collaborazione di Alcuino nel 789 prescrive: «Che in ogni diocesi, in ogni monastero si insegnino i salmi, il canto, il computo, la grammatica e che si abbiano libri accuratamente corretti» (Admonitio generalis, 72). Il progetto si attua non nel popolo, ma nei monasteri e nella gerarchia, pur essendo state avviate le scuole cattedrali e collegiali, monastiche e parrocchiali. Dell’813 è la deliberazione che i genitori inviino i figli a scuola o in un monastero o presso sacerdoti per apprendere la religione cattolica (conc. di Magonza, c. 45). Quanto alle scuole nei monasteri esse sono propedeutiche alla vita monastica e sono riservate, di per sé, solo agli oblati, secondo Ludovico il Pio nell’817 (conc. di Aquisgrana, c. 5). J. Leclercq rileva: «Non ci sono scuole monastiche, a dir il vero, non ci sono nemmeno scuole nei monasteri, ma nel momento in cui i monaci lavorano o leggono, i futuri monaci imparano a leggere, niente più» (in Pédagogie, p. 268). Tuttavia fino al sec. XII sono mantenuti ed educati nel monastero i figli di benefattori. Alcuni pochi monasteri hanno la scuola esterna; in questo tempo parecchi monasteri, anzi, si trasformano in chiese collegiate in mano a canonici regolari, che aprono scuola per pueriadulescentes (conc. di Aquisgrana, c. 135). La struttura monastica non c’è però più.
    «Dall’inizio del sec. XII si sviluppano altre scuole, in altri ambienti e il monachesimo non partecipa più, in prima persona, allo sviluppo e alla trasmissione della cultura. Il suo orizzonte scolastico si chiude sulle strette necessità della pedagogia claustrale e probabilmente in ordine alla liturgia, lectio divina, intelligenza della Bibbia, familiarità coi Padri» (R. Grégoire, Scuola, p. 35). Sulla confessione nei monasteri, cf. J. Leclercq, Confessione nella vita religiosa, II, Occidente, DIP, Roma 1975, pp. 1433-1436.

    3.5. Nei secoli XI-XII

    Il rapporto educativo. In ordine all’apprendimento caratteristici sono i cosiddetti ioca monachorum, giochi dei monaci consistenti in domande e risposte. A tali tecniche didattiche sono riconducibili sia le Disputationes puerorum (PL 101, 1099-1144), articolate pure in domande e risposte su tematiche varie (messa, fede, Pater), sia le Propositiones ad acuendos juvenes (PL 101, 1145-1160): nel giro di 53 domande a base di indovinelli si passa in rassegna il programma scolastico. In fatto, inoltre, di punizioni, l’informazione non manca: sappiamo, tra l’altro, di un ragazzo dell’abbazia di S. Gallo che, nel maggio 937, mandato in soffitta per riportarne dei rami secchi, quali verghe per venire percosso lui e i compagni, appicca il fuoco con pericolo anche della biblioteca (Ekkhardus, Casus S. Galli, 6). Anselmo di Canterbury è costretto a cercare di persuadere un abate di mitigare i suoi castighi, poiché l’assenza di libertà è controproducente. Ciò egli riconosce: l’educazione è cosa del cuore (Eadmerus, Vita S. Anselmi, 30-31). Talora i castighi sono insostituibili, come nel caso di un giovane dell’abbazia di Corbie, che infierisce talmente con la sua tabula su di un compagno da farlo morire. Significativa l’iscrizione, in età carolingia, in due monasteri, invitante a scegliere tra taverna e scuola! (cf. C. Xodo, Cultura e pedagogia nel monachesimo altomedievale."Divinae vacare lectioni", Brescia 1980).
    Ma i secc. XI-XII sono decisivi per la scuola monastica. Nella polemica infatti tra monaci e canonici si assiste ad un cambio di mentalità, che avverte l’incompatibilità tra il chiostro e la scuola. I monaci sono così ricondotti alle origini, quando lo studio era solo via alla ricerca di Dio. «Si accentua il distacco tra il monachesimo con la sua pedagogia caratteristica e una società che trova la sua identità in altre manifestazioni di cultura e d’impegno. Questa eredità sarà assunta dai canonici regolari e collegiali, ma ancor di più dagli Ordini nuovi: Francescani e Domenicani» (R. Grégoire, Scuola, p. 44).
    Un giudizio storico sulla formazione pedagogico-spirituale dei giovani candidati alla vita monastica, a parte gli elementi negativi esposti, non può non tener conto di una profonda dimensione pedagogica presente nel monachesimo, così pure dell’influsso formativo del vivere comunitario quotidiano del monastero stesso.

    4. FORMAZIONE DEI GIOVANI ALLA VITA CLERICALE

    Un certo numero di fanciulli e di giovani si avvia alla vita clericale. È interessante seguirne le tappe formative. La formazione del prete e dell’ecclesiastico in genere è questione più di pedagogia che di istruzione, perciò «la storia della formazione sacerdotale non è che una parte della storia generale dell’insegnamento e dell’educazione; quella storia non può essere staccata da questa», anche se essa si deve occupare «di ciò che le è specifico da sapere: il proprio della formazione pastorale e del ministero delle anime, che ne sono la base» (J. van Laarhoven). Rispetto ai religiosi, i sacerdoti secolari sono stati insufficientemente studiati. I chierici frequentano per lo più le scuole presbiterali e episcopali.

    4.1. Ruolo formativo delle scuole presbiterali ed episcopali. Tra Chiesa e Stato (fino al secolo X)

    Fino alle invasioni barbariche (sec. V) le uniche scuole ecclesiastiche in occidente sono le monastiche; chi aspira allo stato ecclesiastico viene formato dal vescovo, così a Vercelli con Eusebio, a Milano con Ambrogio, a Ippona con Agostino. Le scuole pagane antiche, sopravvissute alle invasioni, formano alla cultura classica in vista di una carriera e dove esse non sopravvivono, subentra il precettore.
    «È per reagire contro questo insegnamento che i chierici, sotto l’influsso degli ambienti monastici, organizzano scuole di un nuovo tipo. In sostanza denunciano la vanità degli studi preziosistici e artificiali» (P. Riché, Les écoles, l’Église et l’État en Occident, du Ve au XIe siècle, in Préaux (ed.), Église et enseignement, Bruxelels 1977, p. 34). Le arti liberali non bastano più. «Non è la scomparsa della scuola antica che rende necessaria la creazione di una scuola religiosa. La scuola antica ha sempre successo» (P. Riché, ivi, p. 36). Le scuole presbiterali (rurali) e episcopali (cattedrali), sorte all’inizio del sec. VI, portano un’anima nuova, cristiana; in esse lo studio è orientato a conoscere e imparare a memoria la Bibbia; invece della poesia classica, i salmi; invece delle scienze, la Genesi; invece della storia, le Cronache dell’AT; invece della filosofia pagana, il Vangelo e le Lettere degli Apostoli.
    Nel 529 i giovani candidati al sacerdozio sono affidati al prete della parrocchia (sin. di Vaison, c. 1): è la scuola presbiterale o parrocchiale rurale, sorta per il moltiplicarsi delle parrocchie, annessa alla chiesa e dove il parroco deve essere un bonus pastor spiritualis. Il programma è quello monastico: conoscenza dei salmi e dei testi sacri (divinae lectiones); la scuola è a tipo di convivenza nella casa del parroco che, pare, gode di libertà nell’educazione; la formazione morale non manca. « Quando i giovani arriveranno alla maggiore età, se alcuni di loro, a causa della debolezza della carne, vorranno sposarsi, non si rifiuti loro il permesso» (sin. di Vaison, c. 1). Nel 666 i parroci sono esortati ad allevare presso di sé gli schiavi della Chiesa (familia Ecclesiae) e farne, oltre che dei servi, dei chierici di grado infimo (sin. di Mérida, c. 18). Un primo esempio, poi, di scuola episcopale è, nel VI secolo, quella istituita da Cesario d’Arles per la formazione permanente di chierici della cattedrale. Egli esige dai chierici, prima del diaconato, che leggano la Bibbia almeno 4 volte, a lettura continua. Il conc. di Toledo nel 531 precisa la fondazione della scuola episcopale, i cui alunni, giunti all’età di 15 anni, sono interrogati se preferiscono il sacerdozio o il matrimonio. Il vescovo, sotto cui è il maestro (magister scholae), è il superiore della scuola. Per Milano pare certo ci sia una scuola per il clero al tempo di Ambrogio (Agostino, De mor. eccl., 33) e che egli ne sia il maestro. Agostino istituisce a Ippona ciò che aveva visto a Milano, probabilmente. Alla fine del V sec. Lorenzo 1 (m. 511) restaura a Milano dopo le invasioni barbariche gli studi ecclesiastici e forse l’eloquenza viene insegnata nel suo palazzo vescovile. Anche il vescovo successore, Eustorgio II (m. 518), ama la scienza; ma dopo la sua morte tutto declina per rinascere col ritorno dei vescovi a Milano, specie dopo i decreti sulla scuola di Carlo M. Col capitolare di Lotario, per Milano la scuola è fissata a Pavia, pur perdurando le scuole cattedrali. La riforma gregoriana pare avervi segnato una ripresa degli studi; si perverrà così alla fioritura dei secc. XIII-XIV (cf A. Bernareggi, Studi sacri e scuole ecclesiastiche a Milano. Prima dei seminari, in Humilitas 1 [1928] 24-28; ivi 3 [1928] 87-90 e nn. segg.).
    Sorgono pure le scuole canonicali, istituite dai canonici della chiesa locale, priva di cattedrale, affini alle episcopali. Tutte queste scuole accoglieranno più tardi anche laici. Nel sec. VIII esse aumentano e ne sorgono anche in Inghilterra con programma sacro e profano insieme. Vengono fondate anche scuole cristiane superiori ad opera di letterati cristiani: Cassiodoro fonda a Vivarium una scuola monastica di lettere classiche e cristiane. Coi Carolingi, a metà dell’VIII secolo, si effettuano tentativi di riforma scolastica; l’illustre restauratore delle scuole ecclesiastiche, decadute, è Carlo M. «Non si rileva alcun progresso della pastorale dell’infanzia prima del momento, in cui nell’ultimo terzo dell’VIII secolo essa tende a diventare una politica dell’infanzia con Carlo M.» (J. Leclercq, Pédagogie, p. 282). Egli ha ristabilito un’organizzazione ecclesiastica regolare sulla base essenziale di scuole ecclesiastiche e monastiche secondo il modello anglosassone. In una lettera circolare (De litteris colendis, Capit. 1,79) ordina che tutti gli episcopia e i monasteria procurino l’istruzione delle lettere a tutti quelli che ne sono in grado. «Queste scuole saranno aperte a tutti, ma poiché esse devono inculcare agli scolari l’ordine di una vita regolare e la sanctae religionis conversatio, al tempo stesso che l’istruzione, esse sono essenzialmente destinate all’educazione dei chierici e dei monaci» (E. Lesne, Les écoles de la fin du VIIIe siècle à la fin du XIIe siècle, Lille 1943, p. 15). Resta il fatto che la scuola di una chiesa deve formare anzitutto quelli di quella chiesa. La stessa vita dei sacerdoti deve attrarre molti fanciulli al servizio di Dio, sia tra gli schiavi come tra i liberi. I successori di Carlo continuano sulla sua scia: è la seconda rinascita carolingia: Ludovico il Pio rilancia l’insegnamento per i chierici e i monaci (sin. di Aix-le-Chapelle, a. 816). Al clero delle chiese cattedrali viene imposto lo statuto canonicale: i pueri, gli adulescentes, istituiti nella congregatiocanonica vengano seguiti, affinché la loro età, incline al peccato, non ne trovi l’occasione. Un fratello li assisterà con rigida disciplina, per essere elevati, appena degni, ai gradi ecclesiastici. «Si affidino i fanciulli alla custodia di un anziano provato; anche se vengono istruiti da un altro» (Instit. canonicorum, c. 135); questo sarà ripreso dalla Regula canonicorum di Crodegango di Metz (c. 48): è l’intento della politica scolastica di Carlo M. risalente al monachesimo e a Gregorio M. In questa linea si pongono il capitolare dell’assemblea a Corte di Olona (Pavia), in cui sono scelte 10 città italiane come sedi di scuole (Capit. I, p. 327), il papa Eugenio II in un concilio romano, Leone IV (metà del sec. IX), il concilio di Savonnières nell’859, in cui viene formulato il voto di creare pubbliche scuole (scholae publicae) per la scienza divina e umana (Mansi XV, p. 539): tutti vi sono ammessi, però sono anche scuole ecclesiastiche stabilite nei chiostri dei capitoli cattedrali, qualora mancassero (E. Lesne, Les écoles, p. 31). Pare non siano mai venute meno scuole laiche; Raterio di Verona ritiene che gli allievi di privato maestro (apud quemlibet sapientem) possano venire ordinati sacerdoti (Synod. Rateri, c. 13). Anche altrove si creano scuole. Con la riforma gregoriana i vescovi ottengono la libertà dai principi anche per le scuole.
    In rapporto alla formazione cristiana notiamo come il programma delle scuole di cui sopra, a livello di trivio, conglobi, oltre la parte pagana delle grammatiche-epitomi di classici, anche opere di poeti cristiani. I maestri medievali, spesso monaci e chierici, non mettono in guardia gli allievi dai pericoli dei classici: è un rischio necessario. In queste scuole inoltre la storia umana è vista come storia sacra in sei età (dalla creazione alla fine del mondo), la retorica offre l’occasione di composizioni profane o religiose: monaci e chierici amano poetare, componendo anche, come Guiberto di Nogent, poemetti amorosi sulla scia di Virgilio e Ovidio (De vita sua I, 17). Tra le materie del quadrivio c’è la musica, indispensabile per l’ufficio ecclesiastico (Rabano Mauro, De cler. instit. III, 24). 1 cantori possono essere laici, ma non mancano chierici come quei diaconi romani del sec. VI che trascurano la predicazione e il servizio dei fedeli, attratti dal canto (Conc. rom., a. 595, Mansi X, p. 434). 1 cantori devono edificare e non dilettare, la chiesa non è un teatro (Isidoro di S., De eccl. off. II, 12). Ci sono maestri che per conservare inalterata la bella voce di fanciulli li fanno castrare.
    Dentro e fuori le scuole la disciplina è ferrea, meno però nelle scuole episcopali e collegiate che nelle monastiche. Alle parole può subentrare la ferula o frusta. Nel Colloquio di Aelfric Beta si legge: «Il maestro: - Accettate di essere picchiati per imparare? - I discepoli: - È meglio essere picchiati che restare ignoranti -»; ma un allievo di Hildesheim si lamenta col proprio vescovo: «(Il maestro) mi ha inflitto una grandinata di colpi, di pugni» (Ep. 18). Guiberto di Nogent ricorda come quasi ogni giorno viene «colpito da una grandinata di parole e di schiaffi, mentre è costretto a imparare ciò che il maestro non sa insegnare» (De vita sua 1, 5). Ci sono però maestri che preferiscono farsi amare che temere, come Raterio (Praeloquia 1, 16), anche se non manca chi rimprovera alle scuole di usare più le fruste che le parole, uscendone così il corpo indebolito e lo spirito non formato (Egberto di Liegi, Fecunda ratis, ed. Voigt, p. 178). Ciò infine che riguarda la sfera sessuale è ritenuto, da gran parte di chierici e monaci, male per principio.

    4.2. Ruolo formativo delle scuole presbiterali, episcopali e delle università (secoli X-XVI)

    Lo sfasciarsi dell’impero carolingio provoca la decadenza della scuola (metà sec. IX - fine sec. XI). Col rifiorire però del contesto socio-religioso anch’essa si rinnova specie per mezzo della Chiesa col concilio Lateranense III nel 1179, che assegna ad ogni scuola cattedrale un beneficio ad un maestro per l’istruzione dei chierici e degli scolari poveri, mentre tutti possono essere autorizzati ad aprire scuole (can. 18, Mansi XXII, p. 999). Ricompaiono le scuole presbiterali con Lucio III nel 1185. Il sec. XII conosce un moltiplicarsi di scuole e di maestri. Nel corso di quattro secoli dopo Carlo M., nessuna autorità secolare o ecclesiastica (eccetto il concilio Lateranense III) aveva ordinato di aprire scuole, né proibito di fondarne, né decretato che solo le chiese ne avrebbero avuto il diritto (E. Lesne, Les écoles, p. 421). Si matura intanto la sintesi tra istituzione (schola) e maestro (scholasticus) preparando così l’università medievale, cui le altre scuole sono propedeutica. Verso il 1200 sorge l’università di Parigi (teologia, arti, diritto, medicina), poi quella di Oxford, Cambridge, Napoli, Bologna e Padova. Nella facoltà di teologia si ha la lectio o lettura commentata di un testo biblico. Nel sec. XIII il testo comune di teologia è il Liber sententiarum di Pietro Lombardo. Le altre scuole permangono, estromettendo però a poco a poco i laici, che confluiscono nelle pubbliche scuole.
    Ma la nuova crisi della Chiesa (secc. XIV-XV) vedrà re e imperatori nel tentativo, anche riuscito, di mettere le scuole a servizio dello Stato. Sorgono intanto collegi ecclesiastici per la vita comune dei chierici in Europa alla fine del sec. XIV e a Roma il Capranica nel 1457, cui seguiranno il Collegio Romano e quello Germanico da parte dei gesuiti. Il concilio di Trento stabilirà il seminario diocesano, in cui il vescovo potrà alere et religiose educare et in sacris disciplinis instituere i giovani candidati al sacerdozio (sess. XXIII, cap. 18, De Reform., 15/VII/1563; cf. O. Pasquato, L’Istituzione formativa del presbitero nel suo sviluppo storico (sec. I-XVI), in Salesianum 58 (1996) 269-299; qui: 292-298).
    Circa la formazione dei giovani candidati al sacerdozio immediatamente prima del concilio di Trento la fonte più appropriata sono gli statuti sinodali, non i regolamenti universitari riguardanti anche gli studenti che vogliono diventare clerici, ma non preti. Ora, i sinodi, prima del concilio di Trento, ripetono i sinodi medievali, convinti che basti l’antica precettistica, perché le cose vadano bene. Dal candidato al sacerdozio non si esige nulla di nuovo al di là della sola pratica sacramentale, così poco pastorale, in vigore nel M.E. Modello del candidato al sacerdozio è il ministro in grado di amministrare rite et ordinate i sacramenti, di leggere i testi e il calendario, di spiegare il Simbolo e il Pater. Poco slancio, poca creatività, poca originalità, assenza di una spiritualità della pastorale. È effetto in fondo dell’abuso primo indicato dalla commissione cardinalizia nel 1536, incaricata da Paolo III di redigere un rapporto sulla situazione della Chiesa: «Primo abuso [...] è l’ordinazione di chierici, e soprattutto di sacerdoti, dalla quale è assente ogni preoccupazione, ogni diligenza».
    Non è difficile cogliere, da quanto, esposto la precarietà della formazione dei giovani alla vita ecclesiastica nel M.E., a motivo soprattutto, oltre che della situazione socio-religiosa contingente, della inadeguatezza dei formatori, preoccupati di assicurare dei funzionari più che degli autentici pastori.

    5. FORMAZIONE CRISTIANA DEI GIOVANI ALLA VITA LAICALE

    I fanciulli non destinati alla vita monastica, né clericale prolungano l’educazione cristiana oltre che in famiglia e nella comunità ecclesiale anche, in modo più o meno diretto, nella scuola. I nobili hanno il precettore.

    5.1. Educazione cristiana nella scuola

    I cristiani della tarda antichità accettano l’educazione classica come propedeutica alla comprensione della Bibbia. Giovani laici trovano in Agostino (De doctrina christiana, 1. IV) un progetto illuminato proposto anche a loro. Del resto unica per tutti è la cultura nel V-VI secolo, ed è quella cristiana. C’è pericolo che essa cada nel formalismo e nella retorica. Gregorio M., che da giovane aveva frequentato come Benedetto da Norcia la scuola a Roma, scrive ad un laico: «Studia, ti prego, medita ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere le parole di Dio nelle stesse parole di Dio» (Ep. V, 46).

    5.1.1. I giovani laici e le scuole

    Essi possono man mano frequentare le scuole episcopali, dove sono formati allo studio della Bibbia, specie del salterio, come pure le scuole presbiterali, che istruiscono giovani lettori a conoscere e imparare a memoria il salterio, altri testi sacri e sono educati alla legge divina, con la libertà di scegliere poi il matrimonio (conc. di Vaison, can. 1). Anche in Inghilterra e nel continente vengono ammessi giovani laici a queste scuole. Nella crisi del1’VIII secolo la scuola monastica, la più resistente nella sopravvivenza, si vede costretta ad accogliere anche giovani laici. L’essere ammessi ad una scuola monastica è un favore; essa talora accoglie infatti anche fanciulli non oblati, ma a questi assimilati. «Gli oblati sono dei nutriti (educati), ma tutti i nutriti non diventeranno professi, anche se sono tutti nutriti e istruiti dalla comunità» (E. Lesne, Les écoles, p. 434). Teodulfo invita i genitori a mandare i figli alla scuola monastica di Fleury, della quale il biografo dell’abate Gozlino (1004-1030) scriverà: «Il sole di Fleury non era nient’altro che il torrente delle arti liberali e il gymnasium della scuola del Signore» (Vita I, 1).
    Qualche raro testo (per es. la pianta di S. Gallo, dopo 1’817) mostra una scuola esterna. Nei secc. IX-X i molti monasteri presi dai canonici, trasformati in collegiate con regola canonicale, prevedono l’istruzione e l’educazione di pueri e di adulescentes, così a Tours, Poitiers, Liegi, Canterbury. La scuola presbiterale, restaurata da Carlo M., è pur essa destinata all’istruzione anche dei giovani laici: «è lodevole che (i genitori) inviino i propri figli alla scuola sia monastica, sia presbiterale» (MGHLeges I, p. 271). Ancora lo stesso Carlo M. stabilisce a riguardo delle scuole episcopali, oltre che monastiche, che debbano essere aperte a tutti. Principi e vescovi poi aprano pubbliche scuole. ovunque c’è chi è in grado d’insegnare. All’inizio del sec. IX si pensa a scuole accessibili a tutti, dette publicae, secondo la richiesta di Ludovico il Pio nell’829. Sono pubbliche, perché tutti vi possono accedere, ma sono ecclesiastiche (E. Lesne, ivi, p. 31). All’inizio del sec. XI Bencardo di Worms ricorda che i preti devono aprire scuole e invitare i parrocchiani a mandarvi i figli (Decret. II, 56). Ci sono pure scuole private (scholae triviales aut privatae), individuabili nel caso in cui un giovane chierico, terminati gli studi e ritornato al paese, diviene maestro dei figli dei vicini o nel caso dell’eremita, che si auspica abbia solo due o tre discepoli (Grimlaico, Regula, 41). All’inizio del sec. XII Guiberto di Nogent vedrà studiis fervere grammaticae negli oppidaurbesvillas (Ep. ad Lysiardum). «Il monopolio scolastico, di cui ciascuna chiesa gode nell’arco della sua giurisdizione, ha potuto così accordarsi con un regime liberale che permette di insegnare a chiunque è riconosciuto provvisto d’una scienza competente (licentia docendi) e a chi vuole industriarsi a cercare il proprio maestro» (E. Lesne, ivi, pp. 429-430; H. J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione occidentale. Dalle origini alla fine del Medioevo, Bologna 1989, pp. 69-146; P. Riché, Il cristianesimo nell’Occidente carolingio [dalla metà del secolo VIII alla fine del secolo IX], in Storia del cristianesimo. Religione- Politica- Cultura, 4, Vescovi, monaci e imperatori [610-1054], Roma 1999, pp. 742-766: vita e cultura religiosa in Occidente; A. Vauchez, La vita pastorale nella chiesa d’Occidenteivi, 5, Apogeo del papato ed espansione della cristianità [1054-1274], Roma 1997, pp. 705-732).

    5.1.2. Scolari e maestri

    Nel M.E. il rapporto tra loro è molto vivo e fecondo. Alcuino ha un vivido paragone: «Così la luce della scienza è nella natura dello spirito umano, ma se lo sforzo assiduo del maestro non la fa uscire, essa resta nascosta, come la scintilla nel ciottolo» (De grammaticaPL 101, 850). Gli scolari conservano un caro ricordo dei loro maestri, che, morti, rivivono nei lamenti (planctus), nei poemi degli allievi e nelle Vitae (Vita Wolfangi, 7). Il legame stretto tra maestro e scolaro si spiega anche per il fatto che «per il maestro dell’alto M.E. non ci sono frontiere tra formazione umana, religiosa e intellettuale dei fanciulli; egli è nello stesso tempo educatore e professore» (P. Riché, Le scuole, p. 222). I giovani apprezzano la scienza del maestro, se dotto, attinta dalla biblioteca, mai mancante: «Un chiostro senza biblioteca è una piazzaforte senz’armi», recita un proverbio medievale. Il maestro poi è invitato a sapersi adattare all’indole dell’allievo: «Voi che siete maestri sappiate esercitare il vostro magistero in modo tale da formare e non soffocare lo spirito dei vostri discepoli. [...]. Gli uni comprendono facilmente, ma dimenticano ancor più facilmente. Gli altri capiscono con difficoltà, ma ricordano bene ciò che hanno capito» (Raterio, Praeloquia, I, 16). Essi mandano a memoria testi sacri, specie il salterio. Sapere a memoria equivale a sapere. Quando nella seconda metà del sec. XII aumentano le scuole, i maestri, i discepoli, è significativo notare come «i laici pretendono, in ragione della loro istruzione, elevarsi al di sopra delle condizioni comuni dei laici e avvicinarsi a quella dei chierici» (E. Lesne, Les écoles, p. 517).
    Nei monasteri, infine, femminili, dotati di scuole per l’istruzione delle puellae destinate al chiostro, ci sono talora fanciulle nobili, che vi vengono istruite. Il conc. inglese di Cloveshoe del 747 prescrive che non solo gli abati e i vescovi, ma anche le abbadesse procurino di far coltivare le lettere.
    Nel sec. XII si opera una trasformazione: nelle città, luogo di afflusso dei chierici studenti, dove l’antica schola si avvia a trasformarsi in studio generale, la disciplina non può perdurare col rigore che conserva dove la scuola non cambia. I maestri per attirare discepoli cedono ai gusti di questi. Talora studenti maturi non sono più sottoposti alla verga (F. Harveng, De scientia clericorum, 28). Ma se la disciplina si attenua nelle scuole (superiori) di tipo nuovo, essa rimane invariata nelle altre, dove non sono istruiti che fanciulli e adolescenti.

    5.2. Insegnamenti e educazione cristiana

    La scuola nel M.E. partecipa in misura limitata, ma incisiva, all’educazione religiosa. Non è incluso l’insegnamento della religione nelle discipline, ma queste, specie fino al trivio compreso, prendono la religione come punto di riferimento.
    Nell’insegnamento elementare il fanciullo, che apprende a scrivere e cantare, impara a leggere sul salterio, in cui egli rintraccia lettere, sillabe e parole. Impara a memoria i salmi e gli agiografi sogliono presentare il fanciullo sulle ginocchia di un adulto e mentre ripete i salmi s’addormenta, per- risvegliarsi al mattino, conoscendo a perfezione i salmi studiati la sera precedente: fenomeno di ipnopedia, per i medioevali invece è miracolo (Vita Rusticulae, 6)! I fanciulli ricorderanno i salmi per sempre; la loro cultura religiosa sarà salmodica.
    Essi imparano a scrivere ricopiando i salmi su tavolette (tabulae dictales) sotto la guida severa del maestro, pronto a picchiare la mano al primo fallo. Carlo M. introduce il canto nell’insegnamento elementare in vista della liturgia, così pure il calcolo (calculatio) ossia lo studio del calendario oltre che del calcolo, cui ci si prepara con indovinelli (Alcuino, Ep. IV, 285; Propositiones ad erudiendos puerosPL 101, 1155). La tecnica più insegnata è quella digitale, loquela digitorum (A. Quacquarelli). Nel sec. X è introdotto l’abaco (tavola di calcolo).
    L’uso del salterio in latino esige l’apprendimento del latino (o grammatica). Nella scuola romana, come in altre, s’imparano a memoria i Distici di Catone cristianizzati, i Praecepta vivendi di Alcuino con principi di morale, i Proverbia attribuiti a Seneca, pure cristianizzati e posti in ordine alfabetico. Otlone di S. Emerano destina ai giovani scolari un suo Libro di Proverbi, cui premette quanto segue: «Qualunque scolaro, se lo desidera, potrà essere istruito con i proverbi qui riuniti. Si presentano infatti sotto forma di sentenze molto più brevi e facili da capire delle favole di Aviano, e sono più utili di certi distici di Catone. Quasi tutti i maestri hanno l’abitudine di far leggere queste due opere ai fanciulli che iniziano lo studio, non tenendo conto di dover presentare, sia ai giovani fedeli di Cristo, sia ai più grandi, i primi elementi che sono religiosi e non pagani, affinché gli allievi così istruiti possano conseguentemente imparare in modo più sicuro le lettere profane e l’arte grammaticale. In effetti, sebbene i giovani non siano capaci di distinguere il bene dal male, conservano più facilmente in sé e più sicuramente, di solito, il male che il bene. Coloro che si preoccupano di procurare ai giovani, che istruiscono, una buona conclusione degli studi, devono fare qualcosa per i loro inizi, cioè sorvegliare il cominciare della loro istruzione» (PrefazionePL 146, 299). L’intento di cristianizzare la scuola non può essere presentato più lucidamente!
    I programmi contemplano anche favole moraleggianti, racconti, enigmi in distici e trittici, da mandare a memoria, come la Fecunda ratis (II naviglio carico), suddiviso in Prua (proverbi, favole di Orazio, Ovidio o di autori cristiani) e in Poppa (componimenti religiosi e morali su Giacobbe e Sansone o sui 7 modi di cancellare i peccati [...]). Persistente è il dissidio tra il latino di Donato imparato a scuola e quello della liturgia con barbarismi e solecismi. Molti non conoscono il latino, perciò in certo modo sono analfabeti, cui tuttavia si verrà incontro con traduzioni in lingua nazionale; così in Inghilterra, dove Alfredo il Grande traduce e fa tradurre per i laici, oltre che per i chierici, opere di Agostino, Orosio, Gregorio M.
    Nell’insegnamento secondario del trivio, in cui si studia l’Ars maior di Donato, cui nel IX secolo fa concorrenza Prisciano, l’allievo ricopia dalle grammatiche i testi classici pagani e cristiani, che vi si vanno aggiungendo. I maestri poi rilevano i valori dei classici anche in chiave religioso-morale (Platone, Cicerone, Virgilio, ma pure Orazio, Ovidio [...]). Il quadrivio offre minori addentellati all’educazione cristiana che il trivio. Se in seno all’astronomia si sviluppa l’astrologia con i pericoli della superstizione, la musica può presentare un contributo essenziale all’educazione religiosa e liturgica. La musica si distingue dal canto, il quale è musica pratica senza teoria (Guido d’Arezzo). La scuola carolingia riprende le teorie classiche (già riprese da Agostino, Capella, Boezio) secondo cui gli otto toni terrestri corrispondono agli 8 movimenti celesti prodotti dalla Terra e dai 7 pianeti.
    Il valore del trivio e del quadrivio medievali è riposto nel fatto che introducono ad una disciplina non esteriore, alla sacra disciplina, alla doctrina spiritualis, alla divina scientia, che, partendo dalla Scrittura, fa accedere ai misteri divini. «La preghiera ci purifica, la lettura ci istruisce. [...]. Quando preghiamo, siamo noi a parlare con Dio; ma quando leggiamo, è Lui che ci parla» (Isidoro, Sent. I, 3,8). «La Scrittura cresce in qualche modo con coloro che la leggono: i lettori incolti credono di conoscerla, quelli invece che sono istruiti la trovano sempre nuova» (Smaragdo, Diadema dei monaci, 3; PL 102, 597). La Bibbia non viene però insegnata in modo vero e proprio, se non alla fine del ciclo delle arti liberali. I maestri preparano allo studio della Scrittura piuttosto che applicarsi al suo insegnamento. Oltre la Bibbia c’è lo studio dei Padri, accostati anche attraverso Florilegi (cf. O. Pasquato, Florilegi: nel medioevo, in M. Sodi-A.M. Triacca (edd.), Dizionario di Omiletica, Leumann [Torino]- Gorle [Bergamo] 1998, pp. 561-565) e serie di testi riferentisi ad un determinato tema.
    Possiamo, in sintesi, individuare quattro fasi in rapporto all’insegnamento medievale: fase creativa (sec. VIII) con riforma di Carlo M. di tipo ecclesiastico, in cui si coniugano arti liberali classiche con la cultura cristiana; fase di stabilizzazione (sec. IX); fase di declino (fine sec. IX - fine sec. X); fase di rinascenza (fine sec. X - sec. XII). Si produce in secondo luogo una trasformazione nella struttura, organizzazione, metodi nei secc. XI-XII in seguito ai vari rinnovamenti. In particolare si affermano la teologia e i maestri di teologia e delle università (universitas magistrorum et scholarium). Nell’umanesimo le scuole sono segnate dal ritorno ai classici (trivio). La riforma luterana (sec. XVI), dove si afferma, fa sparire le scuole ecclesiastiche e le scuole riformate divengono mancipia dell’autorità civile. La riforma tridentina (sec. XVI) ristabilisce le scuole cristiane, ciascuna delle quali deve avere un maestro per l’insegnamento gratuito della grammatica a poveri e ricchi, gli ordini religiosi insegnanti sono incoraggiati e le università cattoliche si moltiplicano. Queste scuole possono influire positivamente sulla formazione cristiana dei giovani, in linea di principio, dati i contenuti dei testi scolastici in buona parte cristiani. Assai dipende, però, dai maestri e dall’ambiente che si crea, oltre che dalle finalità concrete che genitori e allievi si prefiggono. C’è, come nell’antichità cristiana, il pericolo di considerare la scuola solo in vista della professione di domani. Se, poi, il numero di chi la frequenta è limitato, non è da dimenticare che questi allievi occuperanno posti importanti, perciò influenti, nella società di domani (Cf. L. La Rosa, "Il buon cristiano": vivere bene credendo rettamente [sec. VI-XIII], in M. Maritano [ed.], Historiam Perscrutari, pp. 587-608).

    6. FORMAZIONE CRISTIANA DEI GIOVANI ARISTOCRATICI

    6.1. Presenza di elementi educativi cristiani

    Se pochi sono i giovani che frequentano la scuola, molto meno sono quelli che ricevono un’accurata educazione in privato da un precettore, com’è il caso dei nobili e talora anche di non nobili. 1 figli aristocratici ricevono la prima educazione dalla madre in famiglia, dove imparano a leggere su qualche libro di preghiera, specie il salterio (discere psalterium), come si legge in molte Vitae; il salterio è per tutto il M.E. il libro di lettura elementare, strumento di formazione cristiana, specie se recitato in seno alla comunità. Il conte di Nortampton in prigione «canta ogni giorno i 150 salmi imparati nella sua infanzia» (Oderico Vitale, Hist. Eccl. IV, 14). Appena cresciuti i figli sono affidati ad un chierico, per lo più il cappellano del castello, talvolta ad una donna. Il padre del giovane Odone, futuro abate di Cluny, lo affida «al suo prete» in un luogo remoto per la sua prima istruzione (Vita Odonis I, 7). Nessuna chiesa s’oppone alla scelta, da parte dei genitori, di un pedagogo di un loro figlio. Numerosi testi del sec. XI-XII mostrano un fanciullo sotto la guida di un precettore. A Roma nel 972 Gerberto insegna le scienze anche al sedicenne Ottone II. Wipo, precettore del giovane Enrico III, scrive dei Proverbia per il suo allievo reale undicenne. Precettori di un giovane aristocratico possono essere anche monaci, dai quali egli dovrà essere educato in saeculari habitu o in habitu laicali, alla condizione laicale, e, una volta pubere, deve ritornare a casa (Vita Carthagi, 31). Nel1’VIII secolo i monaci cominciano ad accettare i figli di aristocratici, infatti; meno facilmente questi vengono accettati nelle scuole episcopali. In Italia taluni giovani frequentano le scuole urbane. Anche la corte del re, che poi sceglierà i suoi fidi collaboratori tra quanti da giovani hanno condiviso la propria vita con la sua, partecipato ai suoi svaghi e studiato con lui, può essere, dopo la prima formazione, luogo di educazione. La scuola di corte mira a far acquisire modelli di comportamento (vestire, parlare, agire) con correttezza e moralità (P. Riché, Le scuole, pp. 307-309).
    Le fanciulle aristocratiche ricevono in piena parità coi fratelli un’educazione accurata. Più tardi, collaboratrici e sostitutrici dei propri mariti in guerra, tenderanno a superare la imbecillitas sexus. Così in Italia, Aquitania, Catalogna all’inizio del sec. XI.
    Le biblioteche ci mostrano gli interessi culturali e religiosi degli aristocratici: oltre a libri di utilità pratica vi si trovano libri di diritto, di storia e libri religiosi per la loro formazione politica e morale. Re e principi si recano alla chiesa più volte al giorno nell’alto M.E. I laici sono esortati a recitare le Ore canoniche e usano libretti di preghiere private. Il De usu psalmorum (Dell’uso dei salmi), attribuito ad Alcuino, è noto ai laici e Dhuoda lo ricopia e raccomanda al figlio di recitare le Sette ore, di scegliere i salmi per la confessione delle proprie colpe ed essere forte nella prova (Manuale, X). Laici chiedono salteri a chierici e monaci, fanno commenti patristici alla Bibbia. Geraldo d’Aurillac, conte, legge ogni giorno la Bibbia (Vita Il, 9), ne dà spiegazioni ai giovani del suo palazzo (ivi I, 14). Circolano poemi religiosi come quello di Otfrido di Weissenburg in 5 libri sulla vita di Gesù in base all’Armonia dei Vangeli di Taziano. L’autore auspica che esso serva all’istruzione dei laici, specie giovani, che, conquistati dalla dolcezza del vangelo, dimentichino i lazzi e i canti osceni (EpVI, 167). Poemi per i giovani sono pubblicati in Germania: uno sulla Genesi, in dialetto bavarese, inoltre il Muspilli sul giudizio finale, 1’Heliand su Cristo Salvatore dai tratti germanici. Tali opere impressionano i germani cristianizzati, che possono leggere in traduzione Vite di santi, i nuovi eroi cristiani.

    6.2. In particolare: gli Specchi (Specula)

    La crisi dell’VIII secolo crea un’involuzione culturale nei laici: «Un gran turbamento è sorto nel cuore dei laici. Essi dicono: - Che m’importa sentir leggere le Scritture, frequentare i preti e andare in chiesa? Se fossi chierico, farei ciò che è dovere dei chierici» (Paolino d’Aquileia, Liber exhortat.; PL 99, 240). È crisi d’identità. I chierici però mostrano ai laici la loro dignità specifica e come sono inseriti in un ordo, quello dei laici (ordo laicorum) con norme scritte: a metà dell’VIII e nel IX secolo si moltiplica il genere degli Specchi (P. Riché, Le scuole, pp. 300ss.). Sono trattati pedagogici, sorti già nel mondo antico e barbarico, ripresi dai carolingi, dedicati dal re o da un padre al figlio. Gli Specchi carolingi presentano ai giovani laici una morale, non più stoica, ma veterotestamentaria. Il primo a scriverne fu Alcuino. I figli di grandi, come il figlio di Carlo M., ricevono lettere dai padri. Carlo M. dedicherà al conte Guido di Bretagna il Liber de virtutibus et vitiis. Incmaro, arcivescovo di Reims, dedica ai figli orfani del re Ludovico, il Balbo, il De ordine palatii; Paolino d’Aquileia invia al duca Enrico del Friuli un Liber exhortationis contenente il ritratto del miles Christi, dove professionalità e salvezza dell’anima s’accompagnano. Gli Specchi dei principi (Specula principum) uniscono insieme consigli dei chierici sull’esercizio del potere regale e quelli sull’umiltà, la preghiera, la castità, il disprezzo delle ricchezze; tali consigli sono frequenti anche negli Specchi degli aristocratici.
    Come esempi citiamo le Institutionum disciplinae, contenenti anche il programma d’istruzione per un aristocratico visigoto: «Le nutrici e poi i maestri educhino alla castità coloro che hanno da allevare». «Quando raggiunge la prima età della fanciullezza, conviene che egli prima conosca le lettere elementari, poi brilli nella conoscenza delle arti liberali». «Quando comincia a diventare adolescente [...] stia virilmente in piedi, il corpo robusto, i muscoli saldi. Poiché un cuore forte deve comandare un corpo anch’esso vigoroso, la pigrizia e il piacere dell’ozio e dell’opulenza, [...] non lo infiacchiscano». «Uno dei principali scopi degli studi [...] è che il perfetto oratore reclami come suo bene tutta la dialettica, che trovi le sue armi non solo nelle fucine di declamazione dei retori, ma anche nel campo delle Sacre Scritture». Ecco i consigli di un vescovo ad un giovane re merovingio: «Conviene, piissimo re, che tu rilegga frequentemente le Sacre Scritture, affinché tu possa impararvi le ragioni dell’agire degli antichi re, risultati graditi a Dio». « [...] bisogna che voi ascoltiate anche i vescovi e amiate i vostri più anziani consiglieri. [...]. Esprimiti con saggezza, interroga con prudenza; non aver vergogna di chiedere ciò che non sai ». A questo re ideale si rifaranno gli Specchi carolingi, come lo Specchio di Giona di Orléans in tre libri, di cui uno dedicato al matrimonio cristiano (PL 106, 121-278).
    Il secondo Specchio carolingio fu composto da Dhuoda (Manuale di Dhuoda). Esso è dedicato al figlio sedicenne Guglielmo alla corte di Carlo il Calvo. Dal prologo: « [...] mi auguro che tu, oberato dalla folla delle occupazioni del mondo e del secolo, non trascuri di leggere spesso, per ricordarti di me, questo piccolo libro che ti dedico, come se si trattasse d’uno specchio». «Ci troverai tutto ciò che hai voglia di conoscere, per sommi capi; ci troverai anche uno specchio, in cui potrai contemplare senza esitazioni la salvezza della tua anima di modo che tu possa piacere del tutto non solo al mondo, ma anche a Colui che ti ha formato dal fango della terra». Essa vuole che nel piccolo libro il figlio ritrovi la madre, che gli trasmette, tra l’altro, il concentrato della sua cultura. 1 contenuti sono: Dio, Trinità, virtù teologali, vizi e virtù (castità), i sette doni dello Spirito S. […]. GliSpecchi quindi offrono il profilo del perfetto aristocratico, comprese le virtù guerriere; così alla fine del IX secolo si sostituisce allo schema chierici-laici lo schema tripartito, che resterà definitivo nel M.E.: coloro che pregano, coloro che combattono, coloro che lavorano (monaci-chierici, guerrieri, lavoratori).

    7. PASTORALE ORGANICA: ADULTI E GIOVANI NELLA COMUNITÀ CRISTIANA

    Da linee pastorali in qualche modo differenziate, passiamo a considerare la pastorale nel suo insieme, i cui destinatari sono anche i giovani che vivono in mezzo agli adulti. È necessario esaminare la pastorale organica per cercare di comprendere quale influsso essa può avere sui giovani; si tratta comunque, in certa misura, di intuire, di interpretare con un largo margine di aleatorietà e di imprecisione.

    7.1. Pastorale altomedievale: tra paganesimo e cristianesimo, tra Stato e Chiesa

    L’essenziale della formazione cristiana comunitaria nel M.E. si realizza nella chiesa parrocchiale e sempre nel concreto, dalla più tenera età alla morte, al ritmo della liturgia. Gioia natalizia, penitenza quaresimale, preghiere comunitarie, uffici dell’anno liturgico, ricezione dei sacramenti, canti, vetrate delle cattedrali, rappresentazione sacra dei misteri sotto il portico delle chiese [...] tutto serve per far penetrare le realtà cristiane, cui la vita familiare e sociale sono orientate. La Chiesa che prega e celebra costituisce per tutti, grandi e piccoli, un ambiente vitale, un clima spirituale. In simbiosi con l’ambiente il fanciullo e il giovane vivono la propria fede: crescono in seno ad una comunità. La maggioranza poi di coloro che formano la comunità sono lavoratori (laboratores), che seguono ai guerrieri (bellatores) e ai monaci e chierici che pregano (oratores). Ma c’è chi predica l’uguaglianza (Giona, De instit. laic. II, 3) in base ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, identici per tutti. D’altra parte in regime di cristianità l’autorità laica e religiosa impone obblighi religiosi e chi disubbidisce viene punito. Da una simile situazione si ricava anzitutto l’urgenza d’istruire e formare il popolo cristiano da parte dei chierici e dei laici stessi responsabili.
    D’altronde, la caduta dell’Impero romano d’occidente, l’insediamento di popolazioni germaniche pagane o ariane pongono in crisi i metodi pastorali tradizionali. L’evangelizzazione urbana da parte dei vescovi (secc. IV-V) attraverso il catecumenato è, come visto, inattuabile. L’evangelizzazione inoltre è legata alla conquista militare coi re merovingi e poi carolingi, consacrati con unzione regale (P. Riché, Sec. VI-XI secolo. La pastorale popolare in Occidente, in F. Bolgiani [ed.], Storia vissuta del popolo cristiano, dir. da J. Delumeau, Torino 1995 2a ed., pp. 219-221). Una peculiare difficoltà all’evangelizzazione deriva dalla vastità del territorio (1 milione di km’ circa), ripartito in più di 20 province metropolitane, suddivise in diocesi, assai estese in Inghilterra, Germania e Francia del nord e suddivise nel IX sec. in arcidiaconati e questi in diaconati sotto la guida di un arciprete responsabile dei preti rurali. Il clero urbano si riunisce in capitoli collegiali. I sacerdoti di ogni decanato si riuniscono mensilmente e ascoltano una conferenza (collatio) sui doveri parrocchiali (A. J. Jungmann,Storia della Chiesa, IV, dir. da H. Jedin, Milano 1978, pp. 398-399). 1 vescovi visitano annualmente le diocesi investigando anche sui costumi morali dei laici. Nell’800 l’esame del vescovo si trasforma in synodus, in cui la comunità può deporre anche contro il sacerdote. Per queste visite e processi Reginone di Prüm scrive verso il 900 il Liber de synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis, in 2 volumi, di cui il secondo contiene norme giuridiche per i laici. Nelle domeniche e giorni festivi i fedeli devono intervenire al mattutino, alla messa e al vespro, osservando il riposo festivo. La cura d’anime, sostenuta dalla Chiesa e dallo Stato, si svolge in forme primitive, ma con contorni precisi, dove le forme tradizionali delle funzioni religiose, della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti costituiscono l’elemento portante di questa pastorale soprattutto liturgica.Tale serie di modalità ed altre ancora sortiscono anche l’effetto di ovviare agli inconvenienti derivanti dalla vastità del territorio da evangelizzare. Altra difficoltà è il persistere del paganesimo specie nelle campagne, dove le popolazioni si portano in luoghi reputati sacri come fonti, rocce, alberi, o celebrano feste per i solstizi di dicembre e giugno e per il ritorno della primavera. Fonti per conoscere tutto ciò sono i Sermoni di Cesario d’Arles in Provenza (sec. VI), le lettere di Gregorio M. (secc. VI-VII) sui costumi rurali in Italia, il manuale per i missionari rurali di Martino di Braga (sec. VI), cioè, il De correctione rusticorum (cf. Contro le superstizioni. Catechesi al popolo, a cura di M. Naldini, Firenze 1991 [Biblioteca Patristica], i libri penitenziali per le isole britanniche (secc. VII-VIII). Missionari e vescovi dell’età carolingia completano queste opere. Per la Germania (secc. VIII-XI) abbiamo Scarpasus di Pirmino di Reichenau, il Liber, già citato, di Reginone di Prüm, il Corrector sive medicus con misure contro le credenze popolari. Sulla linea pagana si pongono canti e danze popolari, di cui abbiamo conoscenza indiretta attraverso i canoni dei concili e gli statuti sinodali (canti di laici: Reginone, Liber II, 5, 44, ecc.; conc. di Magonza, a. 813 e romano, a. 826, canti turpi e lussuriosi, diabolici, stupidi e agricoli, rusticae cantilenae). Danze spesso non castigate accompagnano i canti, con battiti di mani e di piedi, con frenetiche gesticolazioni, con campanelli e cembali; famosi i mimi cantatori e danzatori (Alcuino,Ep. 124, 244, 281). Date di esibizioni sono sparse lungo l’anno, iniziando con le calende di gennaio. Gli interventi ecclesiastici sono sollecitati anche da danze e canti presso le chiese. Burcardo di Worms (inizio sec. XI) asserisce: «Hai cantato incantesimi diabolici e hai danzato le danze inventate dai pagani secondo le istruzioni di Satana? Hai bevuto e fatto scherzi e, in disprezzo della pietà e della carità hai agito come se ti rallegrassi della morte di tuo fratello? Se sì, trenta giorni di digiuno a pane e acqua» (Decreto XIX, 91). Vedremo più avanti i correttivi, cui i pastori ricorrono.
    La riforma dei costumi del resto è continuamente ripresa; alla radice c’è il basso livello culturale dei fedeli e dei preti: la Chiesa è costretta a tenerne conto. Nel periodo carolingio vige un metodo autoritario: «Il rispetto delle prescrizioni esterne raggiunge il lealismo veterotestamentario; si punisce l’infrazione di una legge, si antepone l’interesse del gruppo sociale al progresso spirituale individuale. Il prete o il vescovo passa più per un gendarme incaricato di far rispettare le leggi che per guida spirituale incaricata di sospingere ciascuno sul cammino della fede» (P. Riché, Le scuole, p. 335). Più tardi, all’inizio del secolo X, l’arcivescovo di Reims propone una collezione canonica in 24 capitoli ispirati ad una pastorale graduale in linea con Gregorio M., che aveva scritto: «La santa Chiesa corregge alcune cose per fervore, alcune tollera per mitezza, altre ancora dissimula di proposito e sopporta» (MGHEp. I, p. 336). È un metodo pastorale tollerante in antitesi con quello del tempo carolingio, ammissibile finché non viene intaccata la sostanza della fede. Ma già nella prima metà del sec. XI la fede è messa a dura prova dai catari. Il popolo è attratto da predicatori erranti, che travisano la Bibbia, i vescovi allora riprendono coscienza del proprio ruolo di pastori e abbracciano la riforma gregoriana: s’apre per la storia della pastorale una nuova epoca, che vedrà anche l’inquisizione.

    7.2. La pastorale medievale: tra nuovi ordini religiosi e ascesa dei laici

    Mutato il quadro socio-religioso, entro cui la pastorale altomedievale si era svolta, si configura una nuova pastorale, i cui due poli sono i nuovi ordini religiosi e i laici. È anche il tempo, in cui si stabiliscono parrocchie diocesane, conventuali o abbaziali in continuo aumento (in Germania esse passano dalle 250 nel 1200 alle 3000 verso la fine del M.E., con pochi abitanti e con alta percentuale di preti e religiosi, esenti da tasse: manomorta), ma parallelamente si viene affermando, specie in Germania, la facoltà di eleggere il parroco da parte dei laici, detentori spesso del diritto di patronato sulle chiese cittadine; scuole e ospedali passano in mano ai laici, nuove università sorgono. Assai meritevoli della cura pastorale sono gli ordini mendicanti, che finiscono in urto coi diocesani per i privilegi conferiti loro da Martino IV e ridimensionati da Bonifacio VIII (12/11/1300). Tra clero secolare e Mendicanti, questi ebbero il favore del popolo.
    I laici, da parte loro, nei secc. XIII-XIV partecipano più attivamente alla vita della Chiesa, in forza forse della cura pastorale più responsabile seguita al successo dei Mendicanti. I laici ricevono una regolare istruzione religiosa, sono aiutati alla vita sacramentale, col culto dei santi e i pellegrinaggi comunicano con la devozione di tutta la Chiesa (A. Vauchez, Il Santo, in J. Le Goff (ed.), L’uomo medievale, Bari 1987, pp. 351- 390). Anche grandi teologi predicano loro in tono popolare. Ci sono predicazioni per ogni classe di persone (H. Wolter, Storia, V/1, dir. da H. Jedin, Milano 1976, pp. 155-156). I secc. XIV-XV sono profondamente attraversati da una corrente spirituale-pastorale che li caratterizza: la Devotio moderna. Iniziata nei Paesi Bassi nel sec. XIV, diffusasi in Europa specie in Germania, nel sec. XV sottolinea l’esperienza, il sentimento e l’autocontrollo: «Essa preferisce sentire il pentimento piuttosto che conoscerne la definizione» (Imit. di Cristo, I, 1, 9), ponendosi così in giusta critica con la scolastica decadente e operando il divario tra teologia e devozione. Il padre della Devotio moderna Gerardo Groote (1340-1384) ne stabilisce i principi: la via dell’unione con Dio deve includere una vita attiva nel mondo, la santificazione personale deve includere il servizio al prossimo, si accentua l’imitazione di Cristo. Egli dà una regola alle Sorelle della vita comune (1379), nel tempo in cui a Deventer si riunisce un’analoga comunità di Fratelli presso F. Radewinjs (1350-1400). Dà come idea centrale la sequela di Cristo umile: «Perseverate nell’umile semplicità e Cristo sarà con voi»; vita di preghiera e di lavoro tra la borghesia cittadina come i Padri del deserto, con devozione sobria e autocontrollo. Si ricollega a Gersone, che avrebbe sostenuto: «Se si vuole riformare la Chiesa, la via più facile passa attraverso gli uomini che sono diventati capaci di una tale impresa, praticando la virtù e i buoni costumi nel fiore della loro giovinezza» (G. Dambar). Il lavoro dei Fratelli della vita comune si concentra sui giovani studenti, nel tempo extrascolastico, per impegnarsi in alcune scuole solo nella seconda metà del sec. XV. La loro attenzione ai giovani trova espressione in 4 trattati pedagogici di Dirc van Herxen (1381-1457). Notiamo, infine, come con la critica da parte dell’Imitazione di Cristo alla devozione, incentrata sulle opere a danno della giustizia interiore, la Devotio moderna si pone in linea sia con la riforma protestante che con quella cattolica. In Ignazio di Loyola, che assimilò la spiritualità dell’Imitazione di Cristo, troviamo un rapporto diretto fra Devotio moderna e la riforma cattolica del sec. XVI (E. Iserloh, Storia V/2, p. 180). Ma la liturgia ha sempre il suo ruolo di rilievo lungo tutto il M.E.

    7.3. Liturgia eucaristica

    Il popolo, in particolare i fanciulli e i giovani, seguono la liturgia con disagio, distratti e insoddisfatti, separati da una cancellata dal clero, che volge loro le spalle e parla latino. La recita silenziosa del canone, introdotta verso 1’800, indica che il sacerdote deve addentrarsi da solo nel santuario del canone. Ma una serie di interventi del popolo lo aiuta a uscire un po’ dalla inerte passività: è invitato infatti a rispondere ai saluti del celebrante con l’Amen, a piegarsi alla Colletta, a inginocchiarsi nei giorni feriali, e, recitato il Credo, a recarsi a portare doni davanti all’altare; anzi, al tempo dei Carolingi, si ripristina la processione offertoriale. Dal sec. X si porta pane, vino, cera, olio e denaro. Si continua a scambiarsi il bacio di pace. Nella trasformazione della liturgia influisce il carattere popolare nordico e il linguaggio simbolico germanico. L’accentuazione di elementi sensibili dipende anche dal fatto che persino il popolo romano non capisce più il latino liturgico. Popolo e altare inoltre si vanno distanziando sempre più: l’altare viene portato vicino all’abside, mentre particole di pane azzimo e l’ostia, posta non più in mano, ma in bocca, accentuano il distacco dalla vita quotidiana.
    La riforma carolingia si preoccupa in verità a che il popolo comprenda la liturgia e, infatti, nel capitolare dell’802 Carlo M. afferma che uno dei compiti dell’ecclesiastico è spiegare ai fedeli totius religionis studium et christianitatis cultum. Purtroppo solo la spiegazione allegorica del Liber officialis di Amalarico di Metz attraverserà trionfante tutto il M. E. Viene anche insegnato, però, che la celebrazione eucaristica esige la purificazione corporale (abluzioni e astensione dai rapporti matrimoniali) e spirituale (la confessione) (conc. di Châlon, a. 813). Notiamo che Giovanni VIII aveva permesso a Cirillo e Metodio, nel IX secolo in Moravia, di usare la lingua nazionale (contro il trilinguismo del conc. di Francoforte del 794) con le parole: «Colui che creò tre lingue principali, ebraico, greco e latino, predispose tutte le lingue per sua lode e gloria» (MGHEp. V, p. 223). Unico tentativo, per di più fallito, e la lingua latina resterà in occidente l’unica lingua liturgica fino al Vaticano II.
    Nei secc. XIII-XV si assiste ad un ulteriore processo di proliferazione di forme esteriori e periferiche. Dal sec. XIII il celebrante deve leggere tutto. La liturgia non è più considerata un servizio di tutta la comunità, ma diviene una liturgia del celebrante. La messa non è più l’annuncio della Parola, sempre meno comprensibile; viene conferita piú importanza al rito, al cerimoniale, al sacramento. La celebrazione eucaristica vivifica quindi poco la pietà popolare.
    Poiché pertanto non si può sentire nulla, si finisce per contemplare l’ostia all’elevazione. Guglielmo d’Auxerre (m. 1230) dice: «Durante la contemplazione del corpo del Signore, molte preghiere vengono esaudite e molte grazie concesse» (Summa aurea, Parigi 1500, p. 260). Nelle chiese si passa da un altare all’altro per captare il momento dell’elevazione sempre più prolungata. Nel sec. XIV processioni, esposizioni, benedizioni vengono incontro al bisogno di guardare l’ostia. Il carattere di sacrificio e di banchetto passa in secondo ordine. L’evento eucaristico si congela in una cosa ed è esposto al pericolo della magia. In base ad una teologia che dice essere la messa di valore limitato, si moltiplicano le messe (meno i partecipanti, più i benefici!); il duomo di Costanza e di Ulma vengono dotati il primo di 54 e il secondo di oltre 60 altari. Un solo rito sacrificale (offertorioconsacrazione-comunione) può servire per più celebrazioni solenni della Parola. Il celebrante di una missa sicca (senza canone e senza consacrazione) può ricevere l’offerta di una messa senza consacrazione e comunione. La tendenza al privato adegua il rito alle esigenze del singolo, facendo prevalere le messe private e votive. A ragione A. J. Jungmann afferma: «Il Santissimo che la chiesa possedeva non cessò di costituire il centro della vera devozione, ma le nubi e le ombre formatesi attorno ad esso, unite ad altre circostanze, fecero sì che l’istituzione fondata da Cristo, [...] diventasse oggetto di derisione» (Missarum Solemnia 1, Friburgo 1962, p. 174).
    Una tal liturgia eucaristica è inadeguata a far crescere la fede nei fanciulli e nei giovani.

    7.4. Ruolo preminente della predicazione. Catechesi in ripresa

    7.4.1. Predicazione

    La liturgia eucaristica, come sopra descritta, va creando, nonostante tutto, un bisogno sempre più vivo della predicazione e della catechesi. In particolare ai fanciulli e ai giovani esse necessitano per prolungare la formazione ricevuta in famiglia. Fortunatamente nel M.E. si predica molto specie nelle città; in campagna-meno assai e verso il 1500 Cornelio di Suckis lamenterà: «Il popolo delle campagne chiede pane, ma di rado ci sono parroci che glielo spezzano ». Del resto il prete manca di sufficiente istruzione per assolvere degnamente questo difficile compito. Gli Ordini mendicanti assumono l’incarico della predicazione per l’impreparazione dei preti diocesani, ma anche in risposta al crescente interesse religioso dei laici e per difendere la fede dei cristiani minacciata dalle insorgenti eresie.
    Quanto poi alle modalità della predicazione, esse sono imposte già nell’alto M.E. dalla mutata situazione socio-religiosa. Se nella Chiesa tardoantica il vescovo poteva usare le regole della retorica, ora il vescovo o il sacerdote (dal sec. VI questo può predicare in città e campagna), con un uditorio più popolare devono usare un linguaggio semplice e chiaro: « [...] quel che viene predicato ai semplici possono capirlo anche i letterati, ma quel che si predica ai letterati, i semplici non arrivano del tutto a coglierlo» (Cesario d’A., Serm. 86). Sull’importanza di una predicazione differenziata per età, sesso, condizione socio-culturale tratta Gregorio M. nella suaRegola Pastorale («i giovani diversamente dai vecchi»), così pure Crodegango (sec. VIII) nei suoi consigli ai canonici di Metz (PL 89,1094).
    Il ricorso inoltre alle lingue nazionali ormai s’impone, se il predicatore vuole essere capito, come lo comprova tutta una serie di testimonianze, da Beda ai vescovi riuniti a Cloveshoe (747) circa la spiegazione in lingua nazionale delle preghiere liturgiche, dai missionari insulari intenti all’evangelizzazione della Gallia settentrionale e della Germania aiutati da giovani pagani battezzati e formati nei monasteri, dalle disposizioni secondo cui un chierico non può divenire prete, se ignora la lingua del popolo (Statuto di Vesoul, 13) e dal concilio di Tour dell’813, che stabilisce per la prima volta che «tutti i vescovi nelle loro omelie daranno esortazioni necessarie all’edificazione del popolo e tutti tradurranno tali sermoni in lingua romana o germanica (in rusticam romanam linguam aut theotiscam), affinché tutti possano capire quel che essi diranno». Ruolo importante hanno gli esempi (exempla) della vita dei santi, anzi le Vitae di essi forniscono elementi, la cui presentazione supplisce la trattazione morale. Riservata piuttosto alla festa del santo e al pellegrinaggio, la letteratura agiografica è per i vescovi di natura sospetta.
    «In particolare la classificazione cronologica si può configurare così (secondo J. Longère, La prédication médiévale, Paris 1983 (fond.), pp. 35-138; G. Groppo, Appunti di storia della predicazione e della catechesi antica e medievale, Roma 1984 (dattil.), pp. 92-94): Dal VII al XII secolo: caratteristico è l’uso degli Omeliari patristici (per es. quello di S. Pietro a Roma, quello di Eginone di Verona), carolingi (per es. quelli di Rabano Mauro, di Smaragdo) nonché il tipo di predicazione missionaria ai barbari. I secc. XII-XIII: l’ambito è quello monastico da parte di predicatori benedettini e cistercensi (S. Bernardo) e canonici regolari, vittorini e premostratensi. Protagonisti sono i magistri (Abelardo, Pietro Lombardo [...]), specie universitari. Per il sec. XII il Longère nota la convinzione che l’impegno della predicazione sia sotto un certo aspetto il più importante dei tre, che ha il magister in sacra pagina; il sec. XIII costituisce lo splendore della predicazione universitaria (lectiodisputatio). Notevole è pure lo sviluppo della predicazione popolare da parte non solo di magistri, di religiosi, ma soprattutto da parte di poveri, penitenti (numerosi laici) itineranti imitatori della vita apostolica, tra cui ci sono eretici (per es. Pietro Valdo), ma pure Francesco d’Assisi e Domenico, fondatori dei grandi ordini mendicanti; vengono emanate norme dalle autorità ecclesiastiche (La prédication, pp. 75-82). Vengono redatte le prime grandi raccolte di sermoni de tempore de sanctis, che hanno per autori in genere dei magistri. I secc. XIII-XV: la predicazione dei religiosi, specie domenicani e francescani, è abbondante e di rilievo; tra essi Antonio da Padova, Bonaventura, Bernardino da Siena (francescani), Alberto M., Tommaso d’Aquino, M. Eckart, E. Susone, Savonarola (domenicani). I secc. XIV-XV: di rilievo sono alcuni vescovi e preti secolari, in particolare G. Gersone, cancelliere all’università di Parigi. Ricordiamo poi i predicatori riformatori inglesi (Wiclif) e cechi (boemi) (Huss) e i concili dei secc. XV-XVI di Costanza, Basilea-Firenze e il Lateranense V nel loro impegno di rinnovamento della predicazione (cf. O. Pasquato, Predicazione: nel medioevo, In M. Sodi-A.M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, 1222-1230; Id., Predicabili: nel Medioevo, pp. 1159-1167; C. Del Corno, La trasmissione nella predicazione, in G. Cremascoli. C. Leonardi (edd.), La Bibbia nel Medioevo, Bologna 1996, pp. 65-86).

    7.4.2. Catechesi in ripresa. Prontuari catechistici

    La catechesi
    Già dalla fine del sec. V l’antica catechesi preparatoria al battesimo degli adulti deve lasciare il posto a quella postbattesimale per la diffusa usanza del pedobattesimo, anche se nei paesi pagani essa continua ad essere prebattesimale, così Isidoro di Siviglia e S. Ildefonso, che distingue tra catecumeno e competente. Nel VI secolo Avito lascia un poemetto in 5 canti, che si rifanno a parte della narratio agostiniana; Cesario d’A., eco di Agostino, ricorda gli impegni dei genitori (Serm. 6,6) e dei padri verso i bambini (Serm. 265,5), enumera vizi e superstizioni da abbandonare col battesimo (Serm. 265,5), spiega il Simbolo (Serm. 237-243). Così Gregorio di Tours (Hist. Francorum III ss.). Il quadro del V-VI secolo è destinato a rimanere incompleto, poiché nessuna catechesi di S. Patrizio agli Irlandesi, di S. Colombano ai Pitti e Scotti (cf. comunque, I. Biffi, La disciplina e l’amore. Un profilo spirituale di san Colombano, Milano 2002, pp. 14-23), di S. Agostino di Canterbury agli Anglosassoni, di S. Gallo agli Alemanni è rimasta. Si tratta,però, di superare il paganesimo superstizioso e idolatrico: in tal modo ritornano elementi della catechesi patristica. L’Ep. 11 di Gregorio M. ad Agostino per la conversione di Etelberto, re anglosassone, nel Natale 797 a Canterbury, lascia trasparire il metodo catechetico di Agostino. L’Ep. poi di Bonifacio V del 624 a Edwino, re sassone, è una catechesi della storia della salvezza; così S. Eligio, che si rifà alla catechesi di Cesario e di Agostino; così S. Gallo. Nel sec. VI perciò la catechesi al battesimo presenta il messaggio centrale del cristianesimo, anche se si passa dal catecumenato antico alla catechesi postbattesimale inadeguata del pedobattesimo.

    La catechesi va man mano configurandosi tanto che nel sec. VIII con il conc. inglese di Cloveshoe (747) la catechesi parrocchiale è ben organizzata (can. 3 e 10), così nell’impero carolingio col sin. di Francoforte dei 794 (can. 33), in Italia col conc. di Cividale del 736 (can. 12-15), mentre numerosi capitolari di Carlo M. legiferano in materia. Addentrandoci in pieno M.E., nei secc. XII-XIII, ricchi di predicazione, la catechesi vi si trova incorporata. Del resto il concetto di predicazione comprende anche il genere di catechesi (cf G. Groppo, Appunti di storia della predicazione, pp. 106-112).
    Allontanandoci dal sec. XIII verso il Rinascimento con il moltiplicarsi delle scuole in mano anche a maestri laici, la catechesi diminuisce tanto che il conc. Lateranense V (Bulla de Reform. Curiae, sess. IX del 5/VI/1514) prescrive che tutti i maestri devono istruire i propri alunni nelle discipline umane, ma anche negli argomenti religiosi: Chiesa e scuola pare vogliano procedere insieme. L’editore A. Manuzio, a Venezia, nel 1495 e nel 1508, fa precedere a due testi scolastici le formule delle preghiere per i fanciulli; nella dedica poi ai due volumi dei poeti cristiani, pubblicati nel 1501, spiega di averli pubblicati, perché i fanciulli li leggano al posto delle favole pagane (C. Testore, Catechesi medioevale, in Enc. Catt. III, 1949, col. 1110).
    La catechesi è tenuta le domeniche e feste, nelle varie chiese secondo le prescrizioni sinodali. Sussidi catechistici sono tavole murali con le principali preghiere, quadri illustrativi appesi accanto alle tavole o portati in giro dai predicatori.

    Prontuari catechistici
    È possibile individuare omelie o trattazioni (talora a dialogo) configurantesi come catechistiche con una istruzione più dettagliata. Per facilitare il dovere dell’istruzione religiosa tanto ribadito dai vescovi, dai sinodi e dai concili vengono composti dei prontuari per sacerdoti, talora pure per i fanciulli e il popolo, anche in forma dialogata. Ricordiamo la Disputatio puerorum per interrogationes et responsiones (PL 101, 1097-1144) al tempo di Alcuino, che tratta in 10 capitoli della creazione, di Dio, degli angeli e dell’uomo, dell’A e NT, della Chiesa e sacramenti e in 2 capitoli, a dialogo tra alunno e maestro, del Simbolo e del Pater. J. C. Eckart nel 1713 pubblicherà un formulario catechistico, anonimo, medievale, contenente in tedesco antico la spiegazione del Pater con un elenco di 20 peccati criminali contro la carità e il decalogo, insieme al Simbolo e il Gloria. Nel medesimo volume egli raccoglie tra gli altri, 2 formulari per la confessione (esame oltre che sui comandamenti di Dio anche sulla frequenza alla Messa, sul digiuno e le opere di misericordia). Inoltre Brunone di Wiirzburg (+ 1045) e Abelardo hanno spiegazioni del Pater e del Credo. Nel sec. XIII si diffondono i Lucidari, di cui primo e più importante è quello di Onorio Augustodunense, Elucidarium, sive Dialogus de summa totius christianae theologiae (PL 172, 1109-76) (fine sec. XI), che contribuirà al formarsi dei catechismi moderni. È redatto a domande e risposte, in tre parti (spiegazione del Credo, del male fisico e morale, dei novissimi). Tradotto (e più volte ristampato) in italiano con il titolo: Libro del maestro e del discipulo, un anonimo milanese ne compone uno per fanciulli e popolo: Qui comincia el Libro del maestro e del discipulo. Oltre i Lucidarici sono i Settenari, ricchi di successo, che prendono particolare importanza con Ugo di S. Vittore e il suo De quinque septenis seu de septenariis: la dottrina dogmatica e morale è esposta in chiave settenaria (le 7 domande del Pater, le 7 beatitudini, i 7 peccati capitali, i 7 doni dello Spirito S., ecc.). Oltre che da S. Edmondo di Canterbury (+ 1242) con lo Speculum Ecclesiae, il genere viene ripreso da S. Tommaso nei suoi opuscoli, il cui inizio risale al 1256: per es. Expositio Symboli apostolorum (op. 16), Expositio Orationis dominicae (op. 7): chiarezza e concretezza li caratterizzano ed essi tanto contribuiranno al sorgere dei catechismi moderni, dopo di aver ispirato il manuale catechistico dovuto alle prescrizioni del sinodo di Lavaur presso Narbona del 1369. Il Lay Folks Catechism (1357), composto dal card. Thoresby, arcivescovo di York, ha il termine catechismo adoperato molto tempo prima di Lutero. Il sec. XV vede un progresso, in quanto si pensa ad un sussidio da mettere in mano al popolo stesso: Gersone lancia l’idea di trattatelli catechistici per le persone semplici «aliquis tractatulus super punctis principalibus nostrae religionis et specialiter de praeceptis ad instructionem simplicium, quibus nullus sermo, aut raro fit» (Opera I, col. 124, ed. Anversa 1706). Anzi egli stesso pubblicò tre opere: Compendium theologiae breve et utileOpus tripartitum de praeceptis decalogi, de confessione et de arte moriendil’ABC des simples gens, oltre al già citato De parvulis ad Christum trahendis. Anteriore almeno di sessant’anni ai catechismi di Lutero è un vero e proprio catechismo attribuito a S. Antonino, Libreto della doctrina christiana per i fanciulli (puti pizolie giovanetti (zovenzelli). Solo nel 1528 uscirà il piccolo catechismo (Klein Katechismus) di Lutero, per i fanciulli semplici, dapprima in tavolette, come al tempo di Carlo M., poi in un libretto, Enchiridion (cf C. Testore,Catechismo, in Enc. Catt. III, 1949, coli. 1185-1125). Rimane comunque vero che «una catechesi propria e regolare per i fanciulli non si trova nel M.E.» (L. Bopp, Katechese, Lexfür Theol. Kirche, VI, 1961’, col. 28).


    7.5. Devozione

    Dalla poca istruzione religiosa nei secc. VIII-XII, deriva nel popolo poca vita interiore. «La forza dell’educazione popolare risiedeva nell’elemento istituzionale. Era sufficiente osservare ciò che era prescritto dalla legge e dalle norme vigenti» (J. A. Jungmann, Storia, IV, p. 404). Sebbene i laici non vengano debitamente formati, vivono una certa spiritualità, che non essendo loro specifica per essere i tempi prematuri, è di tipo monastico; essi infatti per i gruppi di preghiera s’appoggiano ai monasteri. II sinodo di Cloveshoe del 747 ordina per la prima volta a tutte le chiese la recita delle sette ore canoniche con salmi e cantici secondo l’uso romano (can. 15); dopo il sinodo di Aquisgrana dell’816 la norma vale ovunque anche per le chiese parrocchiali. Anche tra il popolo si diffondono raccolte dei più bei versetti dei salmi, poi questi perdono della loro popolarità e la penitenza si esprime non più in salmi, ma solo col Miserere o il Pater (50 o 150 volte). Si forma il salterio di 150 Padre nostro, sostituito nel sec. XII dal salterio mariano (preludio del rosario). Si diffondono libri di preghiera, che attingono alla liturgia, ai Padri e ai salmi; maggiore importanza assumono gli esercizi esteriori (genuflessioni, pregare a braccia distese), la devozione converge verso il Crocefisso glorioso per arrivare alla Trinità. Cresce il culto alla Madonna e nel sec. XI il quotidiano Officium parvum beatae Mariae Virginis è assai diffuso. Col diminuire della luce pasquale di Cristo trasfigurato il cristiano si rivolge al Cristo terreno: il Natale, la Passione, la Risurrezione (cf O. Pasquato, Sangue e umanità di Cristo nei concili ecumenici del medioevo. Tra teologia, devozione e pietà popolare, in Aa.Vv., Sangue e antropologia nella teologia medievale III, Roma 1991, pp. 1137-1173).
    Alla fine del M.E., mentre si diffondono sintesi del cristianesimo in forma catechistica come il Discipulus de eruditione Christifidelium di Giovanni di Herolt (+ 1468) con 12 edizioni dal 1490 al 1521, vengono stampate opere quali testi scolastici per gli scolari, senza la forma tipica di catechismo, essendo libri di preghiera e di formazione religiosa come i titoli lasciano comprendere: Conforto dell’anima, La strada del Cielo, Lo specchio dei laici, Lo specchio del cristiano di Teodorico Kolde (m. 1515), il più noto dal 1470 (E. Iserloh, Storia, V/2, pp. 355-356). La stessa Bibbia ha vasta diffusione: sino al 1500 compaiono circa 100 edizioni della Vulgata e sino al 1522 (edizione del NT di Lutero) vengono stampate 14 bibbie complete in tedesco. In Francia, utili per i ragazzi e giovani, appaiono dopo il 1200 1e Bibbie istoriate, che, con opportune integrazioni, vengono stampate nel 1477 (o nel 1487), mentre in Italia, a Venezia, erano già apparse due diverse traduzioni in lingua italiana.

    7.6. Strategie pastorali.

    Forme d’inculturazione della fede
    Si riscontrano interessanti tattiche d’evangelizzazione, espressioni di una pedagogia graduale innata nella Chiesa, perché proveniente da Cristo stesso. Sotto un altro profilo si tratta di prudente adattabilità in ciò che non intacca la sostanza della fede.


    7.6.1. Collaborazione tra potere politico e religioso

    La fine del paganesimo è esigita energicamente dai re barbari, quali Childerico I, che dispone la distruzione di idoli consacrati ai demoni, comminando pene pecuniarie e comparizione davanti al tribunale regio (MGH, Capit. Merov. 1, p. 2). Idolatri, maghi, stregoni sono puniti da re e vescovi visigoti, da leggi bavare e longobarde. Nell’Admonitio generalis c’è una sintesi di una tale legislazione: «Ordiniamo che non ci siano più coloro che praticano la divinazione, incantatori, osservatori del tempo, maghi; dove ce ne sono, facciano ammenda o siano condannati. A proposito di alberi, pietre e fonti dove qualche insensato accende lumi o anche pratica altri riti, sia soppressa, ovunque esiste, questa abitudine esecrabile a Dio e abolita» (c. 65). C’è però bisogno di un periodico ritorno alla proibizione, per es. con Ludovico il Pio e i vescovi franchi nell’829, con Carlo il Calvo nell’873.

    7.6.2. Evangelizzazione tra costrizione e convinzione

    In regime di cristianità vige l’obbedienza alla legge da parte dei sudditi: i genitori sono tenuti a far battezzare i figli neonati pena un’ammenda, i fedeli, porcari e bovari compresi, devono intervenire alla liturgia la domenica e le feste stabilite, ottemperare alla legge del riposo festivo, confessarsi all’inizio della quaresima e comunicarsi almeno tre volte l’anno e digiunare in certe occasioni. Gli stessi rapporti sessuali cadono sotto precise prescrizioni, così pure l’uso dei cibi. Un tale metodo pastorale non può essere efficace; lo prova Carlo M. coi Sassoni e Alcuino conclude: «Se i Sassoni hanno rinnegato tante volte il battesimo è perché non si è mai preso cura di fissare nel loro cuore basi solide della fede [...]. L’uomo che possiede un’intelligenza razionale deve essere istruito e conquistato da una predicazione diversificata, in modo che recepisca il carattere veridico della santa fede». «Chi desidera sinceramente convertire alla vera fede coloro che vivono fuori della religione cristiana deve usare non sistemi rudi, ma bontà. C’è infatti da temere che il nostro antagonismo rigetti coloro che una spiegazione completa potrebbe invece portare all’adesione. Chiunque agisce altrimenti, e con questo pretesto vuol impedire il loro culto tradizionale, mostra di essere più preoccupato di sé che degli interessi di Dio. Si deve agire in modo che essi vogliano seguirci piuttosto che evitarci, perciò si dovrà fare appello alla bontà e alla ragione» (Ep. XIII, 15). Siamo in linea con la pastorale missionaria in Germania, dove Bonifacio (m. 754) applica la metodologia anglosassone attraverso i consigli del vescovo Daniele di Winchester: far vedere ai pagani che si è al corrente delle loro dottrine, lasciar parlare i Germani dei loro dèi e condurli per mano a riconoscere l’inverosimiglianza delle loro credenze; il missionario opporrà da parte sua la prosperità dei cristiani, che costituiscono quasi tutta l’umanità, alla povertà dei pagani relegati in lande deserte e gelate. «Tutto ciò, deve essere esposto con dolcezza e moderazione, non con il tono di una controversia passionale e irritante» (Ep. 23). Così si dirà più tardi nel sec. IX nella Ratio de catechizandis rudibus per i missionari carolingi.
    Ma già per la prima missione benedettina con Agostino, Gregorio M. aveva impartito direttive d’evangelizzazione, con riflessi nella catechesi, ispirate, di fatto, a forme d’inculturazione della fede, quali non abbattere i templi di divinità, ma benedirli per il culto al vero Dio, sostituire le feste pagane con feste cristiane, i banchetti al diavolo con altri a Dio munifico. «Così mentre è riservata loro una qualche gioia esteriore, più facilmente possono godere di una gioia interiore. Non c’è dubbio infatti che è impossibile toglier via tutto, in un sol colpo, da menti indurite, poiché anche colui che si sforza di salire in alto sale gradatamente e a piccoli passi, non a salti» (Beda,Hist. Eccl. I, 30). Anche Bonifacio, pur conservando il latino nel rito battesimale, rivolge in tedesco le domande al battezzando, associa l’uso dei fuochi del solstizio d’estate alla festa della natività del Battista (24 giugno) e sostituisce infine il culto del Dio della guerra, Wotan, con quello del capo delle schiere celesti, S. Michele Arcangelo. Se poi nella liturgia e nelle formule dogmatiche la lingua è quella latina, alla spiegazione catechistica è riservato il volgare.

    7.6.3. L’uso dell’immagine o «predicazione muta» (scriptura silens)

    Come aiuto alla comprensione della Scrittura i pastori intensificano l’uso dell’immagine, che comincia ad assumere ruolo pedagogico-didattico con Gregorio M. Al vescovo di Marsiglia, che aveva fatto scomparire le immagini dalla sua cattedrale, egli infatti scrive: «L’immagine nella chiesa è utile, affinché, guardando i muri, coloro che ignorano le lettere possano almeno imparare quello che non possono leggere nei libri. Si devono conservare le immagini, pur proibendo al popolo di adorarle... Per i popoli barbari l’immagine sostituisce la lettura» (Ep. 1, p. 195,270). Nel sec. VIII le lotte iconoclaste fanno sì che la Chiesa ribadisca la sua posizione. Gregorio II ricorda «gli uomini e le donne che tengono in braccio i figlioletti e li istruiscono facendo loro vedere col dito le immagini» (Ep. all’imperatore Leone Isaurico; PL 89,521). Nel sec. IX Walfido Strabone scrive: «Spesso vediamo gli spiriti semplici e senza intelligenza, i quali non possono essere condotti alla fede da parole, ma che sono toccati dalla raffigurazione della Passione di N. S., e di altri miracoli, al punto da testimoniare con le lacrime che quelle immagini sono impresse profondamente nel loro cuore» (MGH, Capit. II, p. 482). Ancor’oggi ammiriamo i dipinti di S. Giovanni di Müstair, rappresentanti in 20 tavv. 1’AT e in 62 il Vangelo, così pure quelli di S. Giorgio di Oberzel nell’isola di Reichenau. Immagini dipinte e scolpite sarebbero state più tardi chiamate la Bibbia dei poveri (Biblia Pauperum: sul significato originario e derivato di essa cf. O. Pasquato,Bibblia Pauperum, in F. Lever et Alii, La comunicazione. Il Dizionario di scienze e tecniche, Roma 2002, pp. 107-108). Le immagini sacre dipinte sulle pareti, sulle finestre e sugli altari sono la Bibbia e la catechesi di chi non è in grado di leggere e di scrivere (O. Pasquato, Chiesa e immagini, ivi, pp. 191-195; qui: 192-193). Perciò, a causa della mancanza di un insegnamento diretto e metodico, in questo «vuoto catechistico del M. E.» (R. Padberg), il popolo, soprattutto i giovani, può giungere alla fede solo attraverso la vita e l’esperienza fatta in un ambiente impregnato di cristianesimo.

    7.6.4. Dalle feste pagane alle feste cristiane

    Per distogliere giovani e adulti dagli spettacoli e usanze pagane si riprendono forme sostitutive secondo la collaudata strategia dei Padri: trasporto di reliquie e processioni si moltiplicano nei secc. IX-X, assurgendo a feste popolari, con veglia di preghiera, agapi fraterne, canti e danze, in cui il popolo, specie i giovani, si ritrovano attori, dopo la passività nella liturgia della chiesa. 1 vescovi devono intervenire per impedire intemperanze e ricordare le finalità spirituali delle feste. La traslazione di reliquie diviene intanto una delle forme più spettacolari di pietà popolare, anche se Alcuino insiste che «è preferibile imitare gli esempi dei santi che portare le loro ossa» (MGH, Ep. IV, p. 299). Si pratica pure la legge del contatto con le ossa del santo come nelle pratiche magiche. All’inizio del sec. IX in territorio carolingio si stabilisce anzi il calendario con numerose feste. Nei secc. XII-XIV il culto dei santi, specie dei santi-re, si sviluppa come quello di Carlo M. (1164) e di Tommaso Becket (1173). Mete salienti di pellegrinaggio sono Canterbury, Gerusalemme, Roma e Compostella. Di rilievo sono i pellegrinaggi a luoghi mariani, dietro la spinta della devozione mariana suscitata dagli ordini religiosi. Nascono inoltre in questo contesto le paraliturgie nelle feste di Natale e di Pasqua ad opera di monaci in Francia e in Inghilterra, preludi del teatro medievale (K. Young). Il Quem quaeritis del mattino pasquale diviene il punto di partenza della sacra rappresentazione pasquale (sec. XI, in tutto l’occidente); più recenti sono le rappresentazioni della Passione, del Natale e di altre scene, ma tutte esprimono un crescendo d’interiorità del popolo cristiano incidendo specie sull’animo dei fanciulli e dei giovani. Con lo sviluppo del culto del Bambino Gesù nel sec. XII i chierici sono spinti a dare ruolo particolare ai fanciulli in chiesa. C’è il presepe presso l’altare. Poco dopo il Natale è celebrata la festa degli Innocenti e Giovanni Beleth (m. 1182) scrive: «Perché gli Innocenti sono stati uccisi per Cristo, i bambini in questo giorno riempiano tutti gli uffici in Chiesa» (Rationale; PL 202,77). Parallelamente sono organizzati giochi paraliturgici con disapdisappunto dei vescovi.
    Vengono composti anche canti cristiani fuori della liturgia, finalizzati a sostituire i canti pagani lascivi. Cesario d’A. chiede che vengano rimpiazzate le canzoni d’amore, che corrono sulle bocche dei giovani e dei non più giovani, con i salmi; il pastore Caestmon di Whitby parafrasa in versi anglosassoni passi biblici (Beda, Hist. Eccl. IV, 24), Adelmo cristianizza canti popolari (Vita Aedhelmi, ed. Hamilton, p. 336), il poeta cantore (= bardo) cieco è invitato dal missionario Lindger, suo guaritore, a diventare poeta cantore cristiano, Ottfredo di Wissenburg traduce il Vangelo in tedesco in concorrenza ai canti osceni dei laici (MGH, Scrip. XI, pp. 322-323). I canti popolari banditi dalla Chiesa sono spesso degli incantesimi, sortilegi per il successo nella professione o per scongiurare le forze maligne. È presente pure qui il tentativo di sostituire gli incantesimi pagani con gli incantesimi cristiani: preghiere, benedizioni e canti vengono composti per accompagnare gli atti principali della giornata, con connotazione veterotestamentaria: il prete benedice i campi, il letto nuziale, il taglio della prima barba d’un adolescente, recita preghiere per l’arrivo della pioggia, per il raccolto, per tener lontana la grandine, per guarire i malati [... ]. Le forme di inculturazione della fede si son venute moltiplicando. Ci troviamo di fronte ad una pastorale popolare variamente articolata, con aspetti positivi e negativi da noi delineati; non è facile valutare l’incidenza sui fanciulli e sui giovani delle singole componenti pastorali, così come non lo è a riguardo degli stessi adulti. Ci pare però poter affermare che, sugli uni come sugli altri, essa abbia avuto un limitato influsso soprattutto per l’incapacità dei pastori e l’inadeguatezza dei metodi, a prescindere dalla frequente e seria predicazione degli ordini mendicanti.

    8. CONCLUSIONE

    In modo sintetico osserviamo come il problema nodale del rapporto tra pastorale e giovani nel M.E. si configura come assenza di una vera e propria pastorale giovanile. Il fatto si colloca nel più ampio contesto dell’assenza di una pedagogia del fanciullo in quanto nel M.E. risulta non avvertita l’esigenza di considerare il fanciullo in sé, nel suo sviluppo graduale. Questa sarà conquista posteriore. Nel M.E. pertanto si privilegia l’attenzione alla persona dell’adulto, cui il fanciullo (piccolo uomo) per tanti aspetti è assimilato. La formazione umano-cristiana del fanciullo dovrebbe avvenire per osmosi. E in realtà, anche se certe linee differenziate di formazione sono state da noi individuate, l’incidenza più rilevante sul fanciullo e sul giovane proviene dalla comunità familiare ed ecclesiale, specie nella liturgia. È davvero un valore positivo l’attenzione nel M.E. alla comunità ecclesiale, considerata quale realtà unitaria, in seno a cui la formazione cristiana reciproca tra giovani e adulti è avvertita come connaturale. Si tratta di un valore basilare, cui urge ritornare, ogni qualvolta esso viene sacrificato a un indebito prevalere di categorie o gruppi. Positivo è pure il ruolo di spicco che gode nel M.E. la famiglia, prolungamento della prassi romana e cristiano-antica.
    Tuttavia, se non è da sottovalutare né la forza formativa delle consuetudini religiose, familiari e comunitarie, che accompagnano dalla nascita alla morte la vita quotidiana del singolo e della collettività, né l’influsso osmotico dell’atmosfera e ambiente cristiano, è altrettanto vero che un tale cristianesimo abitudinario e ambientale, destituito di sufficienti conoscenze dottrinali e di specifica formazione pastorale, non è in grado di sfuggire al pericolo della superficialità e della superstizione, della suggestione di massa e della eresia. Umanesimo e rinascimento svilupperanno i valori e le scienze dell’uomo, in particolare la pedagogia quale scienza del fanciullo. Al tempo stesso la Chiesa, in parte dietro la spinta protestante e non senza rapporto con il crescente sviluppo delle scienze umane, dà vita alla catechesi e ai catechismi, all’educazione cristiana dei giovani col sorgere in particolare di nuovi ordini e congregazioni religiose dedite all’educazione cristiana della gioventù. I germi latenti nel M.E. cominciano a svilupparsi, nella misura in cui la Chiesa della riforma e della controriforma cattoliche s’impegna a stabilire, sia pure con fatica e precari risultati, il giusto equilibrio tra divino e umano, dopo che il prevalere di quest’ultimo aveva segnato la fine del M. E. e il rinnegamento da parte dell’Europa delle proprie radici cristiane.


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