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    S. Agostino d'Ippona

    (354-430)

    Ottorino Pasquato



    VITA

    Presentiamo la biografia di Agostino inserita nel contesto socio-religioso del suo tempo. Prima della conversione (354-386). Nato a Tagaste in Numidia nel 354 da padre pagano (morto nel 371, battezzato), consigliere municipale, e da madre cristiana, molto pia, è romano di lingua, di cultura e di cuore. Di ingegno vivacissimo, studia a Tagaste, poi a Madaura per quattro anni dagli 11 ai 16, infine nel 391 a Cartagine, dove, dominato dal piacere di « amare e di essere amato » (Conf. 11,2,2) ha un figlio, Adeodato; si mantiene però studioso e onesto. Educato cristianamente, rimane nelle intenzioni sempre un cristiano. A 19 anni, leggendo 1’Ortensio di Cicerone, si converte alla sapienza, ma deluso dalle Scritture, assillato dal problema del male, passa al manicheismo, in cui fino a 28 anni è semplicemente « uditore », anche se fervido propagandista: «Eravamo sedotti e seducevamo» (Conf. IV,1,1). Insegna retorica a Cartagine, a Roma e a Milano. Dopo nove anni, riconosciuta la fragilità del sistema manicheo, a Milano cade nello scetticismo e qui lo ritrova Monica, sua madre. Inizia il cammino di ritorno con la sua riflessione e con la predicazione di Ambrogio: crede in Dio, nella spiritualità dell’anima, accetta l’autorità della Chiesa e, meditando Paolo, scopre la mediazione di Cristo redentore, fonte della grazia (sarà questo il centro della sua Città di Dio!). Ha superato il naturalismo con gioia di Monica: ha 32 anni (Conf. V11,21,27).

    Dal battesimo al sacerdozio (386-391). L’abbandono di ogni sogno di gloria terrena e la scelta della verginità corona la conversione. Si ritira a Cassiciaco (l’odierna Cassago?) con Monica, Adeodato, ìl fratello, Alipio e altri, vivendo tra orazione, lavoro e studio; si prepara al catecumenato e al battesimo. Ritornando a Milano nel marzo seguente, sabato santo (24-25 aprile) insieme al figlio e ad Alipio riceve il battesimo: «E fummo battezzati e fuggì da noi ogni affanno della vita trascorsa» (Conf. IX,6,14). Egli ricorderà sempre Ambrogio «che venero come padre, perché mi ha generato [...] in Cristo Gesù» (Contra Jul. 1,3,10). Diretto in patria, passa per Roma (a Ostia muore la madre) e raggiunge Tagaste, dove conduce vita monastica con laici, tra preghiera, lavoro e studio (otium).
    Il periodo del sacerdozio (391-396). Sceso a Ippona nel 391, vi incontra la sorpresa del sacerdozio, che accetta, dopo una sofferta scelta tra l’amato ideale contemplativo (preghiera, lavoro, studio) e l’urgenza della salvezza degli altri (la spinta paolina come per Crisostomo!) con la cura pastorale. Fonda un monastero, in cui vive con altri come monaco sacerdote. Per volontà del vescovo, e contro l’usanza africana, esercita il ministero della Parola (E 21). Nel 395-396 è consacrato vescovo ausiliare, e nel 397 rimane solo al governo della diocesi di Ippona. Si ritira nella casa vescovile, che trasforma in monastero di chierici ipponesi (Serm. 355,356). Completa anzitutto la sua cultura biblico-patristica. In questo periodo scrive numerose opere esegetiche e teologiche.
    Dall’episcopato alla morte (396-430). Aumenta l’attività letteraria, dottrinale e pastorale. Per la chiesa d’Ippona esercita l’attività della predicazione, sabato e domenica, spesso per più giorni di seguito e anche due volte al giorno; l’udienza episcopale lo assilla con le cause giudiziarie; lo impegnano la cura dei poveri e degli orfani, la formazione del clero, l’organizzazione dei monasteri maschili e femminili, oltre che l’amministrazione dei beni ecclesiastici. Per la Chiesa africana rimane benemerito per la sua partecipazione ai concili e con i frequenti viaggi a scopo ecclesiale. Alla Chiesa universale dà il suo contributo con le controversie dogmatiche, la pubblicazione di numerose opere per confutare manichei, donatisti, pelagiani e semipelagiani. Ricordiamo le opere Sulla Trinità (il suo capolavoro), La Città di Dio, Genesi alla lettera, Commento a Giovanni, Esposizioni sui salmi, Lettere, Discorsi, di cui ne rimangono circa 570, fonti preziose per conoscere la sua azione pastorale, anche verso i giovani. Muore il 28 agosto del 430 a Ippona, durante l’assedio dei Vandali (cf Y. Duval, L’organizzazione delle Chiese nell’Africa, in Storia del Cristianesimo. Religione-Politica- Cultura. La nascita di una cristianità [250-430]. 2, Roma 2000, 748-749).

    AGOSTINO E LA PASTORALE DEI GIOVANI

    Aveva accettato riluttante il peso del ministero sacerdotale ed episcopale per la responsabilità che vi è implicata e per il contrasto, per lui, dapprima, irriducibile, tra l’ideale contemplativo e quello apostolico. Aveva ubbidito, pur tra le lacrime, alla volontà di Dio: «L’amore della verità ricerca la quiete della contemplazione, la necessità dell’amore accetta l’attività dell’apostolato » (De civ. Dei 19,19). La preoccupazione sua è anche basata sulla situazione storica: nel IV-V secolo, in Africa, una città quale Ippona è un porto, in cui approdano forestieri di ogni specie, piazze quali luoghi d’incontro di cittadini colti e di gente venuta dalla campagna; essa può vantare una popolazione affettuosa, ma rozza, disunita sul piano sociale e religioso (A. Trapè, S. Agostino, l’uomo, il pastore, il mistico, Fossano 1976, 187-188). Tutta l’azione di Agostino sacerdote e vescovo comunque è dominata da un intento pastorale (G. De Plinval). Il suo biografo, discepolo e poi collega nell’episcopato, scrive di lui che «fu un membro esimio del Corpo del Signore, sempre sollecito e vigilantissimo per il bene della Chiesa universale» (Possidio, Vita di Agostino 18,6).

    L’aspetto pastorale della vita di Agostino è bene illustrato da F. van der Meer (in, S. Agostino pastore d’anime, Roma 1971). Non esistono nella Chiesa antica, né in quella medievale, strutture ecclesiastiche organizzative specifiche per i giovani, la cui formazione cristiana ha luogo nella famiglia e nella vita liturgica insieme al popolo dei fedeli. Possiamo tuttavia individuare nell’azione pastorale di Agostino linee di pastorale orientate ai giovani e prima ancora una disposizione interiore che lo portano con fine intuito pedagogico verso i giovani. Qualche mese dopo il battesimo, riconosce nella Chiesa cattolica la guida di ogni categoria di persone: «Tu guidi e istruisci i fanciulli con semplicità, con forza i giovani, con serenità gli anziani, tenendo conto dello sviluppo non solo fisico ma anche spirituale di ciascuno. [...] Tu, sottomettendo i figli ai genitori, li guidi ad obbedire spontaneamente; e preponendo i genitori ai figli, insegni loro a comandare con trepido amore» (De mor. Eccl. cath. 1,30,63). È significativo rilevare in primo luogo il giudizio che Agostino dà di se stesso, quando, adulto, ripensa alla sua fanciullezza e giovinezza.

    L’ottica retrospettiva nelle Confessioni

    Egli conosce da giovane uno sviluppo carico di tensioni. Le Confessioni costituiscono, oltre che una lode a Dio, anche un diario retrospettivo, un dialogo appassionato con se stesso (W. Jentsch, Handbuch der jugenseelsorge, I. Geschichte, Gütersloh 1965, 103). Vi si trova descritta, forse per la prima volta nella storia della Chiesa, la genesi della fede in un giovane. Divenuto pastore, egli sarà ancora sotto l’influsso di questa sua esperienza personale. Non deve perciò sfuggire il rapporto tra la sua conversione e la sua successiva cura pastorale, specie quella verso i giovani.

    2.1.1. Il giovane Agostino e l’esperienza spirituale

    È da rilevare il ruolo di primo piano che la madre sua, Monica, gioca nella sua formazione (come Antusa il Crisostomo) e il ricordo vivo che ne conserva Agostino per sempre (1,7,11), sebbene da adulto dovrà anche lamentare la solitudine, in cui era venuto a trovarsi a 16 anni in età pubere (11,2,3). A Milano il giovane Agostino perviene alla conversione sotto la guida di consiglieri spirituali (VIII,6,13ss). Non è né facile né breve presentare le deduzioni pedagogico-pastorali di Agostino dalla sua dottrina teologica, soprattutto perché la eccezionale unitarietà della sua personalità lo spinge a unire teoria e prassi, teologia e vita; così come è altrettanto arduo collegare la sua esperienza spirituale giovanile con la sua pastorale ai giovani. Sta di fatto che egli è un grande teologo, mistico e grande pastore al tempo stesso: le sue concezioni teologiche vengono da lui trasposte nella sua intensa azione pastorale (W. Jentsch, Handbuch der jungensseelsorge, 105). In un tempo in cui la pedagogia classica è pervenuta al suo termine, Agostino in occidente (come il Crisostomo in oriente) si colloca all’interno della stabile forza pedagogica della Chiesa, in qualità di guida del cristiano e, non ultimo, del giovane, anche se, dato lo spessore della paideia greca, egli non può rimpiazzarla del tutto con le nuove idee cristiane (O. Pasquato, Educazione classica e educazione cristiana in H.I. Marrou, in Or. Ped. 34 [1987] 24-32).


    2.1.2. Il giovane Agostino e l’esperienza pedagogica

    «Sebbene non abbiamo nell’opera di Agostino, né una storia dell’educazione, né un trattato di pedagogia o di didattica, sembra legittimo prendere in essa notizie e giudizi sopra la scuola di quell’età» (M. Pellegrino,Aspectos pedagógicos de las "Confessiones" de San Agustín, in Augustinus, V-17 [1960], 53). Agostino è inviato a scuola a 7 anni (1,9,14); il programma preparatorio alla grammatica è di «imparare a leggere, a scrivere e a computare» (1, 13,20) e di apprendere i primi elementi della lingua latina e greca (1, 14,23). Dagli 11 o 12 anni fino ai 15 a Madaura frequenta la scuola di grammatica (11,3,5) in cui, tra l’altro, si leggono gli autori classici: Agostino vescovo deplora questi studi per le letture scandalose che vi si fanno (1,16,25-26). Anch’egli, come il Crisostomo, giudica negativamente la scuola, specie per la finalità di vana gloria (1, 12,19) di preparare i giovani a una brillante carriera, fonte di ricchezza (1,9,14); deve anche rimproverare a se stesso di preferire il gioco e gli spettacoli agli studi. Il metodo mnemonico usato, poi, per apprendere gli riesce odioso: 1’«uno più uno due, due più due quattro: era una cantilena odiosa per me» (1,13,22). Circa i castighi, Agostino ne ammette la legittimità, se sono necessari (1,9,15) e, pur confessando la sua disubbidienza a genitori e a maestri, conclude che sbagliano sia questi, spingendo allo studio per scopi di vana gloria, sia egli stesso, che rifugge dallo studio per fini parimenti riprovevoli (1, 12,19). I castighi sono una prassi usuale (Serm. 70,2), anzi questi «tormenti degli scolari» (Opus imperf. VI,9) fanno parte del bagaglio di miserie della vita, quali conseguenze del peccato originale. Finisce però con l’accettarli in linea con la Scrittura, e come il mezzo punitivo usato «dai maestri delle arti liberali, dai padri medesimi, e spesso dai vescovi anche nei loro tribunali» (Ep 133,2). Al progresso nello studio riesce però più efficace lo stimolo dell’interesse cordiale e sentito che i castighi. Allo studio della grammatica segue lo studio della retorica, per cui a 16 o 17 anni viene a Cartagine (111,1,1), ove studia con appassionato impegno più dei compagni, dissipati e tumultuosi. E più severo il suo giudizio su questi studi che sui precedenti: egli tende a eccellere «col fine riprovevole e vano di soddisfare la vanità umana» (111,4,7) in una splendida carriera forense. Allorché in seguito, alla luce della fede, comprenderà che la salvezza non sta nella retorica (V1II,2,5), ma nel Verbo, affermerà che è questo che «fa parlare le lingue dei fanciulli» (VI1I,5,10; cf Sa 10,21).
    Superficiale in religione, non omette che da ragazzo prega il Signore per il buon esito degli studi, così come da bambino lo prega per non essere percosso: «Incontrammo allora, o Signore, uomini che pregavano, e da essi, secondo l’infantile possibilità di quei giorni, appresi che tu sei qualcosa di grande, che puoi, anche senza apparire ai nostri sensi, esaudirci e aiutarci, per cui fanciullino cominciai allora a invocarti, o aiuto e rifugio mio; e scioglievo, per invocarti, i nodi della mia lingua; e, piccolo, ti pregavo, ma non con piccola angoscia, di non essere percosso nella scuola» (1,9,14).
    Quanto alla vita morale, egli riconosce i propri errori: «Così piccolo fanciullo, così grande peccatore!» (1,12,19). Individua nel mancato sostegno familiare una delle cause delle sue cadute (11,3,7), cui non sono estranei l’ozio e la passione del teatro: «Mi attiravano gli spettacoli teatrali» (111,2,2). Si unisce in concubinato con una donna innominata, che gli dà un figlio; ma continua a studiare con successo. A 19 anni, «seguendo l’ordine usato nell’insegnamento di tali studi», legge 1’Ortensio di Cicerone (111,4,7), che lo introduce in quella crisi che la lettura di un altro libro, la Lettera ai Romani, a Milano, avrebbe concluso.

    2.2. La teoria pedagogico-pastorale di Agostino

    Oltre che in altre opere, non esclusi i Discorsi, essa si trova soprattutto nel De Magistro e nel De Catechizandis rudibus.

    2.2.1. Ruolo del maestro umano e del maestro interiore: il «De Magistro»

    L’appassionata ricerca della verità in Agostino è tesa alla scoperta della beatitudine nella verità. È la visione del fine, cui il discepolo deve orientarsi, che stabilisce il rapporto tra maestro e discepolo. I due interlocutori sono Dio e l’uomo e la sapienza è la ricerca orientata a conoscere in modo fruitivo Dio, luogo della beatitudine. Rientra qui il problema della comunicazione semantica, secondo cui si rende necessario verificare l’efficacia didattica del linguaggio nel rapporto maestro-discepolo. Per Agostino la parola ha la natura di segno (De Mag. Il), ma egli pare insinuare che nulla è possibile insegnare con i segni e le parole, anche se non nega l’utilità dell’insegnare, né le situazioni concrete del discepolo (T. Gregory). All’interno del discorso, precisamente, del ruolo del maestro umano si evidenziano i limiti costitutivi di una comunicazione didattica realizzata in termini di linguaggio: «Con le parole non si imparano che parole» (ivi, X1,36). Ciò si verifica specie a livello di concetti; pertanto si esige una loro verifica reale all’interno di noi: «Circa le cose intelligibili noi consultiamo non colui che parla, che risuona dall’esterno, ma la stessa verità che presiede all’interno della mente, forse da quelle parole ammoniti a consultarla. E colui che è consultato insegna quello che è detto il Cristo che abita nell’uomo interiore, cioè l’immutabile (virtù) di Dio e sempiterna sapienza. Sapienza che ogni anima razionale certamente consulta, ma che a ciascuno tanto si rivela, quanto dalla sua buona o cattiva volontà è permesso» (ivi, X1,38). Cristo si fa maestro interiore che unisce tutti quelli che sono fatti condiscepoli suoi. E l’intendere diviene un farsi «interiormente discepolo della verità» (ivi, XIII,41).

    Ne deriva che il ruolo del maestro umano è solo quello di insegnare il metodo per scoprire la verità latente all’interno di ogni discepolo, detentore come il maestro della stessa luce di verità. Il maestro umano ha il compito di avviare il discepolo a vivere la sua stessa esperienza sapienziale. «L’opera del maestro perciò è un’azione di amore: condurre il discepolo ad amare la luce, a desiderare vivamente la verità: quella funzione che gli era negata o almeno limitata sul piano intellettuale, ora gli viene rivendicata sul piano affettivo e volitivo: sul piano propriamente spirituale. [...]. Donde lo sforzo veramente educativo del maestro, per ricercare le parole esatte, per sintonizzare, per così dire, gli accenti linguistici sulla lunghezza d’onda d’ascolto del discepolo e per creare l’interesse al conoscere» (A. Lombardi, S. Agostino educatore, Roma 1977, 57-74; qui: 73). La prassi di Agostino sarà la trasposizione perfetta di questa storia.

    2.2.2. Un manuale di metodologia catechistica. Il «De catechizandis rudibus»

    Dei 27 capitoli del De catechizandis rudibus (cf Agostino, De catechizandis rudibus. Prima catechesi cristiana, a cura di Siniscalco-C. Fabrizi, in Opere di S. Agostino. […], N.B.A., ed. lat.-ital., vol. 7/2, Roma 2001, 127-291) i primi 15 sono teorici, gli altri pratici (due esempi); esso è la risposta di Agostino a un diacono di Cartagine, catechista scoraggiato, incaricato di accostare i «rudes» o principianti pagani, anche colti, e desiderosi del contenuto essenziale del cristianesimo: unico esempio patristico nel suo genere. L’operetta si compone di tre fasi: 1a. Racconto (narratio): con metodo storico-globale si presenti la storia della salvezza dall’inizio dellaGenesi (narratio plena), mediante fatti essenziali (mirabiliora), mentre i secondari solo a rapidi cenni (111,5): emergeranno i nodi della storia della salvezza (articuli temporis), di cui il principale è «l’evento Cristo», sintesi degli altri e anche la continuità tra AT e NT: «L’AT è il velo del NT e nel Nuovo si manifesta l’Antico» (IV,8). Fine della rivelazione è la charitas, finalizzazione della narratio, in modo che « chi ti ascolta, ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» (l.c.). Apice della charitas divina è Cristo: la Scrittura «narra Cristo e spinge ad amare» (1.c.).

    2a. Aprire alla speranza (cohortatio): è la «speranza della risurrezione» (VII, 11): «Sarà difficile a Dio [...] restituire al tuo corpo l’insieme dei due elementi, se egli ha potuto crearlo, quando non esisteva?». (XXV,46). La storia della salvezza va pertanto dalla creazione alla risurrezione. Si stabilisca il nesso tra catechesi e vita, anzi si dilati l’orizzonte alla storia universale e ultima: «Le due città» ora sono mescolate secondo il corpo, ma distinte secondo lo spirito; in futuro, nel giorno del giudizio, saranno separate anche secondo il corpo» (XIX,31). La speranza del rudis è Cristo risorto, motore della storia. 3a. Procurare gioia (Hilaritatis comparatio): la gioia contro la noia è necessaria al catechista come pure al catechizzando. Agostino espone sei elementi contro la noia, indicandone altrettanti rimedi (X-XV). Deriverà che « (i catechizzandi) pronunciano, per così dire, per bocca nostra le cose che ascoltano; e noi apprendiamo da essi, in certo modo, le cose che insegniamo» (X11,17). Attenzione all’ascoltatore: «A seconda della varia espressione (del catechizzando) il mio discorso prende avvio, procede e termina», secondo la carità (XV,23). L’opera esercitò notevole influsso in Cassiodoro (sec. IV), Isidoro di Siviglia (sec. VII), Alcuino e Rabano Mauro (sec. IX), Petrarca, Erasmo, Vives, poi in Fleury fino ad oggi. C’è chi la ritiene un manuale di catechetica generale (Capelle, Michel, Seage; notiamo che solo 9 paragrafi su 55 sono di catechetica generale), chi una teoria di catechesi di prima iniziazione (Van der Meer, Busch, Bareille, H. Leclercq, Combès, Farges), chi vi coglie la narratio della storia della salvezza come idea centrale, chi invece la manifestazione della Chiesa, rilevando la disposizione del contenuto dottrinale in chiave kerigmatica, non fondatamente (G. C. Negri), chi vi vede infine con maggior ragione la presentazione della charitas divina in Cristo (Istace, C. Oggioni, Trapè), (cf E. Cattaneo, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, Roma 1995, 93-96; O. Pasquato, Agostino, in J. Gevaert (ed.), Dizionario di Catechetica, Leumann [TO] 1986, 23-25).

    2.3. L’azione educativo-pastorale di
    Agostino


    Egli è e si sente sempre pastore ed educatore, espone e attua i principi di una pedagogia profonda e affascinante fin da quando, ventenne appena, a Tagaste nel 374 apre la prima scuola di grammatica.

    2.3.1. Le disposizioni interiori

    Nel fatto educativo-pastorale giocano un ruolo decisivo l’indole, la ricchezza della sua umanità e della sua esperienza, i suoi atteggiamenti interiori, in primo luogo l’appassionata ricerca della sapienza (fin dai 19 anni): «Non coglierai la verità, se non sarai entrato con tutta l’anima nella filosofia (= ricerca intellettuale, orientamento religioso, sforzo ascetico)» (Contra Acad. 11,3,8). Le Confessioni ne sono la spiegazione, tra cui la descrizione della svolta spirituale con la lettura dell’Ortensio di Cicerone (111,4,7-8). In secondo luogo viene la purificazione dell’animo (X) e l’umiltà nella ricerca, effetto dell’esperienza dell’errore e della persuasione che la verità è un bene comune, pubblico. Il desiderio del vivere insieme è motivato dal «cercare insieme, concordemente». «Infatti in questo modo sarà facile a chi ha scoperto per primo la verità condurvi gli altri senza fatica» (Solil. 1, 12,20). Infine, altra disposizione interiore è l’aspirazione che l’uomo sia discepolo solo di Dio (che è la Verità e la comunica per illuminazione) senza l’aiuto di maestri esteriori: «La soave attrattiva della verità ci induce a imparare; il dovere della carità ci obbliga a insegnare. Dobbiamo dunque desiderare che questo stato di necessità [...] finisca, e venga quella felice condizione in cui tutti saranno ammaestrati da Dio, e solo da Dio» (De octo Dulcit. quaest. q. 3,5).


    2.3.2. Azione educativa nella scuola

    A 20 anni è «gramaticus» a Tagaste, e, prima, a Cartagine come studente, ebbe una condotta irreprensibile. I coetanei lo giudicano un giovane «amante della quiete e dell’onestà» (E 93,13,5 1), da parte sua ambisce di «essere elegante e raffinato» (Conf. III,1,1). Non partecipa alle imprese degli studenti turbolenti (Conf. I1I,3,6). Fallito il suo tentativo di educare gli scolari di Cartagine alla disciplina e all’onestà, abbandona nel 386 Cartagine, dove aveva aperto nel 376 una scuola di retorica, per trasferirsi a Roma. L’intento educativo è presente in lui già prima di convertirsi. Infatti a Cartagine riesce ad allontanare dai giochi del circo Alipio, suo allievo, che era presente a una sua lezione, in cui con un paragone preso dai giochi del circo il maestro ne ha schernito i frequentatori. Da allora Alipio «mi prese per maestro», asserisce Agostino (Conf. V,7,11-12). Fin d’allora nel suo insegnamento Agostino non disgiunge le regole della retorica da quelle della sapienza. A Cassiciaco a due giovani studenti, che contendono tra loro per vana gloria in una discussione filosofica, dice: «Se spontaneamente mi chiamate maestro, ricompensatemi: siate buoni» (De ordine 1,10,29).

    2.3.3. Relazioni epistolari con i giovani

    In esse Agostino rivela fine sensibilità educativa e profonde disposizioni interiori alla formazione dei giovani. I suoi interventi, sebbene sempre appropriati, sortiscono esiti diversi. Nel caso di Licenzio, geniale ma superficiale, già suo allievo a Cassiciaco, che, tornato in Africa e abbandonato Agostino, gli aveva inviato un lungo poema chiedendo il suo aiuto (E 26), Agostino gli risponde con cordiale affetto esortandolo a consacrare a Dio 1’«ingegno d’oro» e a non seppellire i doni divini sotto il tumulto delle passioni: è lezione sprecata.
    Esito positivo ha invece la sua risposta a una lettera del giovane Leto, tentato di abbandonare la vita religiosa e sacerdotale per accondiscendere alla madre. Il giovane ottempera all’invito incisivo e lucido di Agostino: «Uccidi le ragioni di tua madre con la parola della salvezza, perdi in questo senso tua madre, affinché la ritrovi nella vita eterna [...]. La Chiesa è madre anche di tua madre» (E 243,6-8).
    In linea ancora con la disposizione interiore di Agostino è la risposta che questi invia a Florentina, una giovane che, per mezzo della madre, gli aveva fatto conoscere il desiderio di avere da lui risposte su problemi di vita cristiana. La sollecita risposta di Agostino, in cui la esorta ad esporgli i suoi problemi, include pure il riconoscimento umile della conoscenza del cristiano, che di fronte all’ignoranza di cose necessarie o ottiene da Dio la grazia d’apprendere ciò che non sa, o deve rivolgersi a Dio, unica fonte di verità: «Ti risponderò per dirti a chi dobbiamo tutti e due rivolgerci per imparare ciò che tutti e due ignoriamo» (E 266,1). «Io infatti non sono un dottore perfetto, ma un dottore che si va perfezionando insieme a quelli ai quali insegna. [... ] in verità, sarebbe molto meglio che tutti fossimo discepoli solo di Dio; ciò che certamente avverrà nella patria celeste, quando si compirà in noi quanto ci è stato promesso». Mettendosi a disposizione della giovane, Agostino conchiude: «Perché, tuttavia, tu ritenga fermissimamente che, quantunque potrai imparare da me qualcosa di utile alla salvezza, ti sarà maestro Colui che è il maestro interiore dell’uomo interiore, Colui che nella tua mente ti mostra che è vero ciò che viene insegnato» (E 266,2). Un posto speciale occupa la nota Lettera a Dioscoro (E 118), vero trattatello di pedagogia cristiana a un giovane studente, in cui è sottolineato l’umiltà e la sapienza del cristiano. È risposta a una lettera (E 117, nell’epistolario di Agostino, scritta forse nel 410) di un giovane greco di nascita, studente di «humanae litterae» in Africa e della cui conversione Agostino scriverà ad Alipio (E 227, del 429).
    Nella sua lettera Dioscoro presenta ad Agostino molti quesiti intorno ai Dialoghi di Cicerone, pregandolo di rispondergli «senza indugio», perché è in procinto di partire per mare e teme che, se venga interrogato colà su tali questioni, non saprebbe rispondere e perciò «sarebbe giudicato un ignorante e uno stupido». Agostino risponde:
    1. (1,1-2,12) - Un vescovo non può aver tempo di «spiegare le questioncelle dei Dialoghi di Cicerone a uno studentello» (1,2). Tuttavia gli risponderà, non per risolvere i quesiti inviatigli, ma per «strappare da un legame infelice la tua felicità che tu fai dipendere dal giudizio malsicuro e instabile degli uomini, e per legarla a un cardine assolutamente stabile e inconcusso» (1,3) [...] «sul quale edificare la dimora della tua pace» (1,6). Agostino, che «una volta vendeva (codeste) ciance ai ragazzi» (Conf. IV,2,2), non desidera «che tu sia ancora un ragazzo, e a me non s’addice più di essere né venditore, né largitore di bagattelle puerili» (2,9). Per insegnare la «dottrina cristiana», unica via alla «speranza della salvezza eterna», non c’è bisogno di conoscere i Dialoghi di Cicerone (2,11). Se mai diamoci pensiero «degli eretici che si mascherano sotto il nome di cristiani, anziché di Anassagora e di Democrito» (2,12).
    2. (3,13-16) - Agostino discute del fine degli studi e del bene sommo, la cui conoscenza non deve essere differita «nemmeno nel programma ben ordinato dei tuoi studi, soprattutto all’età a cui sei giunto». «Chi infatti cerca come arrivare alla felicità, in realtà non cerca altro, se non dove risiede la somma perfezione del bene»; in essa «è la gioia più serena dell’amore più completo» (3,13).
    3. (3,17-22) - Agostino esorta Dioscoro ad abbracciare la filosofia cristiana, che, unica, ci può far comprendere l’umiltà di Cristo: «A Cristo, caro Dioscoro, vorrei che ti assoggettassi con la più profonda pietà e che, nel tendere alla verità e nel raggiungerla, non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi. La prima via è l’umiltà, la seconda è l’umiltà e la terza è ancora l’umiltà» (3,22).
    4. (4,23-31) - Rassegna delle sentenze dei filosofi intorno a Dio e il giudizio di Agostino: «Proprio per insegnare questa umiltà necessaria alla salvezza, nostro Signore Gesù Cristo umiliò se stesso: a questa umiltà s’oppone una, chiamiamola così, ignorantissima scienza (quella dei filosofi ionici)» (4,23).
    5. (5,32-35) - Gesù Cristo è la verità personificata, cui interi popoli ormai aderiscono. «[...] il Signore [...] ha munito come di una roccaforte l’autorità della Chiesa» mediante numerosissime comunità e l’ha dotata di mezzi di difesa che sono le argomentazioni irrefutabili di persone «piamente istruite e veramente spirituali» (5,32). Agostino conclude asserendo: «Quanto più progredirai nella verità, tanto più apprezzerai la mia esposizione: allora apprezzerai pure questo mio proposito che adesso ritieni poco utile ai tuoi studi» (5,34).

    2.3.4. Pastorale catechistica

    Ai principianti: cf i due esempi in De cat. rud. (XVI-XXV-XXVI-XXVII) tra racconto ed esortazione alla speranza. Per le altre categorie ci sono i Sermones.
    Ai catecumeni: consegna del Simbolo (pactum fidei) (Serm. 212,1; 214,12) contenente «breviter [...] tutto ciò che credete» (Serm. 212,1); «Symbolum est breviter complexa regula fidei» (Serm. 213,1): Scrittura e Tradizione. Agostino espone la verità su Dio Padre, il Verbo Incarnato «in forma servi», ma glorioso in cielo, lo Spirito S.: «Haec Trinitas unus Deus est» (Serm. 212, 1), su la Chiesa, casta come Maria e peccatrice nei figli, infine «finis sine fine erit resurrectio carnis» (Serm. 213,9). Il Simbolo prima trasmesso (Traditio Symboli), imparato a memoria, scritto solo nel cuore, deve essere «reso» recitato a memoria (Redditio Symboli): «Singuli hodie reddidistis» (cf Serm. In redditione Symboli 215,1-9).
    Ai «competentes », iscritti per prepararsi al battesimo: catechesi morale sui doveri cristiani: «Noi spargiamo la semente della parola, voi rendete i frutti della fede» (Serm. 216,1) per osservare il «patto» e tendere alla vita eterna: «Ut competentes competenter adolescite in Christo, ut in virum perfectum iuveniliter accrescatis» (ivi, 7).
    Ai neofiti (infantes, nati a Cristo, Serm. 228,1): la storia del pane e del vino viene rapportata alla storia dei neofiti battezzati e cresimati (mistagogia): «Poi c’è stato il battesimo e siete stati come impastati con l’acqua per prendere la forma del pane. Ma ancora non si ha il pane, se non c’è il fuoco. E che cosa esprime il fuoco, cioè l’unzione dell’olio? Infatti l’olio, che è alimento per il fuoco, è il segno sacramentale dello Spirito S.» (Serm. 227,1). «Abbiamo loro spiegato il sacramento dell’Orazione del Signore, con cui debbono pregare (cf S. Sabugal, Il Padre nostro nella catechesi antica e moderna, Roma 1994, 4a. ed.); e così anche il sacramento del fonte e del battesimo» (Serm. 228,3). Così la mistagogia circa l’eucaristia: «Dovete conoscere ciò che avete ricevuto, ciò che riceverete, ciò che ogni giorno dovrete ricevere» (Serm. 227). «Ciò che vedete è il pane e il calice: ve lo annunciano anche i vostri occhi; ma per la vostra fede [...] il pane è il corpo di Cristo, il calice è il sangue di Cristo» (Serm. 272,1). Sbocco finale è l’unità: «Se avete ricevuto bene, voi stessi siete ciò che avete ricevuto» (Serm. 227). «Siate ciò che vedete, e ricevete ciò che siete» (Serm. 272,1). «Chi riceve il mistero dell’unità, e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero a suo favore, ma un testimonio a propria condanna» (ivi), (O. Pasquato, L’eucaristia nella vita dei cristiani dei primi secoli. Parte seconda: Gli sviluppi: secoli IV-V, in Carlotti-M. Maritano (edd.), L’eucaristia nel vissuto dei giovani, Roma 2002, 233-261; qui: 257-261: Agostino e l’eucaristia).
    Ai fedeli: è la catechesi postbattesimale o permanente che troviamo, oltre che in vari discorsi che meriterebbero di essere individuati con cura, nel De agone christiano liber 1, manuale per i fedeli con spiegazione del Simbolo e precetti morali, in «humili sermone», contenente «regulam fidei et praecepta vivendi» (Retract. 2,3).

    2.4. Fondamenti e condizioni della pastorale anche giovanile

    È possibile individuare alcune linee di fondo in Agostino circa la sua pastorale.


    2.4.1. La missione

    Sull’idea di missione Agostino costruisce la sua teologia pastorale (M. Pellegrino, S. Agostìno pastore pastore d’anime, in Rech. Aug. I, Études Augustiniennes, Paris 1968, 319). Unico pastore nella Chiesa è Cristo, pastore invisibile, di cui i pastori visibili sono membra; egli al tempo stesso si fece pecora immolata per noi (Tr. in Gv. 46,5.7). Pertanto la fecondità dell’azione dei pastori è rinviata all’azione interiore di Cristo nelle anime: «Noi parliamo dall’esterno, egli costruisce nell’interno. [...] È lui che edifica [...]; e tuttavia anche noi, come operai, lavoriamo» (En. in ps. 126,2). I buoni pastori fanno una cosa sola con Cristo, come Pietro che ricevette il primato, perché amava Cristo ed è divenuto così una sola cosa con lui (unità nella carità): «(Cristo) voleva affidare a lui le pecore, in modo che egli fosse il capo, egli portasse la figura del corpo, cioè della Chiesa e, come lo sposo e la sposa, fossero due in una sola carne» (Serm. 46,30). Ne deriva che la missione pastorale si attua solo nella chiesa. «La Chiesa generò dei figli, li costituì, al posto dei loro padri (apostoli), principi su tutta la terra» (En. in ps. 44,32).

    2.4.2. L’anima della pastorale

    È la carità in linea con Paolo (Fil 2,21): «Agostino cercava non le proprie cose, ma quelle di Gesù Cristo» (Possidio, Vita di Agostino, 21,1). «Non siamo vescovi per noi, ma per coloro ai quali dispensiamo la parola e il sacramento del Signore» (Contro Cresconio 11,13). Il pastore testimonia il suo amore a Cristo col pascere le sue pecore (Serm. Denis 12,1). Così unito a Cristo il pastore si nutrirà del nutrimento di Cristo e con esso alimenterà il suo gregge: «Se vi dico qualcosa di Cristo, perciò questo vi pasce, perché è di Cristo, perché è il pane comune, di cui pure io vivo, se vivo» (Serm. Guelf. 29,4). Per Agostino la cura pastorale trae il proprio significato dall’unica mistica fra Cristo e i fedeli, tra il capo e le membra, il pastore e il gregge: un esempio concreto egli l’ha esposto nell’operetta già presentata De catechizandis rudibus. Se poi la carità del pastore sia finalizzata a Cristo o ai fratelli risulta, dopo quanto detto, domanda superflua (M. Pellegrino, S. Agostino pastore, 332).
    Per Agostino, inoltre, la carità è una forma di castità dell’anima che ama Dio, suo sposo, senza ricercare se stessa (Serm. 137,10). Alla carità egli accompagna l’umiltà. Il pastore deve imitare l’umiltà di Cristo, che è la porta ed è umile: chi entra per questa porta deve umiliarsi (abbassarsi), se non vuole rompersi la testa (Tr. in Gv. 45,5). Pur al di sopra dei fedeli per la dignità episcopale, il vescovo rimane loro «compagno di lavoro» (cooperatore; Serm. 49,2), un «conservo» (Serm. Guelf. 9,4): «Per voi siamo come dei pastori, ma, sotto quel pastore, siamo con voi delle pecore. Da questo posto, siamo per voi come dei maestri, ma, sotto quell’unico Maestro, in questa scuola siamo vostri condiscepoli» (En. in ps. 126,3). E ancora: «Mentre mi sgomenta ciò che sono per voi, mi conforta ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano: quello è il titolo di un impegno ricevuto, questo invece titolo di grazia; quello fonte di pericolo, questo fonte di salvezza» (Serm. 340,1). Si avverte il timore d’essere pastore e la gioia di essere cristiano (A. Trapè, Il sacerdote uomo di Dio al servizio della Chiesa, Roma 19852, 128; V. Grossi, Nota sulla ministerialità della Chiesa e l’icona del presbitero in S. Agostino, in Historiam Perscrutari. Miscellanea di studi offerti al prof. Ottorino Pasquato, a cura di M. Maritano, Roma 2003, 689-709).

    2.4.3. Modalità degli interventi pastorali

    Primo impegno del pastore è la testimonianza: imitare Cristo per farlo imitare dagli altri (Serm. 47,12). Importantissimo è lo zelo per la predicazione: la Parola di Dio è il pane che il vescovo, servo di Dio, accosta alle anime (Serm. 339,4). La Parola di Dio può venire fraintesa: «Vedete come sia pericoloso udire, se non s’intende» (Serm. 128,7). Il predicatore quindi è colui che schiude il significato esatto della Scrittura: «Noi siamo i vostri codici» (Serm. 227). Egli dev’essere coraggioso nel presentare la Scrittura, anche nei suoi testi più esigenti; tacere sarebbe da mercenario e Agostino non tace: «Potrei tacere, ma ho timore di tacere. Sono costretto a predicare. Atterrito, atterisco. Temete con me, per poter gioire con me» (Serm. 40,5).
    Il predicatore deve inoltre saper discernere i destinatari: «A tutti è dovuta la medesima carità; ma non a tutti è da somministrare la medesima medicina» (De cat. rudibus 23). La predicazione di Agostino è popolare, alla portata di tutti, anche dei ragazzi, familiare, comunicativa: «Preferisco essere criticato dai grammatici che non essere compreso dal popolo» (En. in ps. 36; Serm. 3,6). Il popolo lo ascolta reagendo, applaudendo, interrompendo e al di là delle parole coglie il cuore di Agostino: «Che cosa voglio, che cosa desidero, che cosa bramo, perché parlo? Perché qui siedo, perché vivo? Se non perché tuttì viviamo insieme con Cristo? [...]. Non voglio essere salvo senza di voi» (Serm. 17,3), (O. Pasquato, Agostino d’Ippona, in M. Sodi-A.M. Triacca, Dizionario di Omiletica, Leumann [TO]-Gorle [BG] 1998, 7-15: la predicazione).
    Oltre che predicatore, egli fu un esemplare celebrante: celebrava catechizzando e catechizzava celebrando (cf O. Pasquato, Rapporto tra catechesi e liturgia nella catechesi biblica e patristica, in Riv. Lit. 1[1985] 61-64). Come il Crisostomo, egli ha valorizzato al massimo l’eucaristia, luogo privilegiato di pastorale, specie giovanile. L’eucaristia, «vincolo di unità», costruisce la Chiesa, che trova in essa l’idea chiave per la propria comprensione. Egli si fa celebrante catecheta: la realtà del Corpo mistico (il Cristo totale) è da lui spiegata partendo dalla realtà del pane e del vino (Serm. Denis 6,1-2). 1 sacramenti gli si rivelano quali segni, perciò cangianti e temporanei (Serm. 57, 7,7). «E come il sacramentum della Scrittura gli fa scorgere, al di là della lettera dei salmi, il Cristo e la sua Chiesa, così il sacramento segno del pane e del vino, simboli di unità, gli fa scorgere il Cristo e il suo Corpo mistico. Appunto in quanto segni i sacramenti esigono di essere oltrepassati, perché venga raggiunta attraverso di essi la realtà significata» (O. Pasquato, Eucaristia e Chiesa in Agostino, in Eph., Lit. 102 [1988] 62). Il pane è il Corpo di Cristo (i fedeli): «Se avete ricevuto bene (il sacramento), siete voi stessi che avete ricevuto» (Serm. 227). «Se quindi voi siete il Corpo di Cristo e le sue membra, il vostro mistero è posto sulla mensa del Signore, a ciò che siete rispondete: "Amen" e rispondendo sottoscrivete» (Serm. 272).
    La sua teologia pastorale si concretizza pure nel soccorso ai poveri, agli orfani, alle vedove e ai malati. Dona del suo prima di farsi «ambasciatore dei poveri» presso il popolo (Serm. 61,13; A. Trapè, Il sacerdote, 145). Le gioie che egli si ripromette dalla cura pastorale è la vita cristiana dei fedeli: «Tutte le mie ricchezze consistono nella speranza che ho su di voi in Cristo. Non v’è gioia per me, né sollievo, né respiro in mezzo ai pericoli e le prove, se non la vostra vita buona» (Serm. 232,8). Ai fedeli egli chiede l’ascolto, la docilità, l’aiuto (anche materiale), la collaborazione, la preghiera e, in particolare, l’imitazione nel fare le veci del vescovo in famiglia, col difendere Cristo, col curare la perseveranza nella fede dei familiari (Serm. 94), con l’influire sui figli, i servi, gli amici allo scopo d’impedire disordini (Serm. 302,19).
    La sua azione pastorale è intensa. Pur aspirando alla quiete della contemplazione, deve «invece predicare, rimproverare, correggere, edificare, attendere ai bisogni di ciascuno: è un gran peso, un gran carico, una grande fatica. Chi non rifuggirebbe da questa fatica? Ma mi spaventa il vangelo» (Serm. 339,4). É costretto a scrivere così: «[...]siamo assillati da tante questioni che a stento riusciamo a respirare» (E 48,1) e «[...] mi stillano appena pochissime gocce di tempo» (E 110,5), (Y. Duval, Il ruolo del vescovo nella vita della Chiesa, in Storia del Cristianesimo. 2, 753-757: in Africa al tempo di Agostino).
    In questo contesto più ampio della vita del popolo di Dio Agostino, al di là degli specifici interventi verso i giovani presentati sopra, esercita la sua pastorale anche verso questi insieme agli adulti, in seno a tutta la Chiesa, dove tutti sono figli di Dio.

    (da: Dizionario di pastorale giovanile, Elledici 1989)


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