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    La "pastorale generativa"

    Christoph Theobald *


    In memoria fraterna di Philippe Bacq sj
    (1938-2016)


    I
    n questo volume (Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma) non si è trattato in maniera esplicita di ciò che si è convenuto di chiamare «pastorale generativa», ma le intuizioni fondamentali del nostro percorso si iscrivono chiaramente in questa direzione. Oggi si può dire che essa ha incontrato un certo successo, perché ha invitato coloro che vi si ispirano a prendere le distanze sia rispetto a contrapposizioni e risentimenti del passato sia rispetto a dibattiti istituzionali che, senza vie d'uscita, hanno scoraggiato molti attori pastorali; nella nostra situazione di «crisi», li ha piuttosto aiutati a mantenere una rotta spirituale. Ma riconosciamo altresì che il vocabolario della «generazione» ha favorito banalizzazioni, a volte un approccio euforico, caricature (da parte di alcuni detrattori) e persino incomprensioni.

    Un dato storico permetterà forse di far comprendere la sfida che questa espressione contiene. Nel 1989, il padre gesuita Édouard Pousset (docente al Centre Sèvres) la utilizzò per la prima volta in occasione di un bilancio pastorale al Villard, un centro animato dalla Mission de France, situato sull'altopiano di Millevaches (Creuse). Non è questa la sede per analizzare l'insieme del suo testo (la cui nuova redazione, più sviluppata è stata da noi pubblicata in Aujourd'hui l'Église, n. 1, Association Roche-Colombe, maggio 1991). Basta citare la diagnosi che apre questo bilancio e ricordare le conseguenze che ne derivano:

    Questi giovani, battezzati o no (del MRJC),[1] non sono cristiani. 40 o 50 anni fa, noi lo eravamo. Non perché portavamo in noi i segni di una migliore autenticità evangelica, ma perché vivevamo un'adesione più reale, più efficace all'istituzione cristiana della Chiesa. Il battesimo ci istituiva discepoli di Cristo e lo eravamo, in qualche modo, attraverso una presenza reale della Chiesa nelle nostre coscienze e in tutto il campo sociale. Questa presenza ci impregnava e aveva formato in noi dei riferimenti cristiani significativi già prima di aver iniziato la nostra istruzione religiosa e umana più approfondita.

    Tale presenza reale della Chiesa non esiste più per questi giovani. Non vivono più in questa atmosfera che avrebbe formato in loro riferimenti e segni, e che avrebbe fatto penetrare in loro un po' dell'essere cristiano nel quale il battesimo ha continuato a costituire la maggior parte di loro. Con loro non si tratta subito di un'educazione della coscienza cristiana ma della genesi, della generazione di tale coscienza.

    Édouard Pousset non elude la difficoltà principale di questo compito, difficoltà che egli attribuisce al «divorzio» tra il mondo moderno e la Chiesa, analizzato dalla sociologia, 10 anni dopo questa conferenza, in termini d'esculturazione.[2]

    Una genesi non si produce a partire dal nulla. Esistevano già dei dati, una materia: questi giovani hanno già vissuto, hanno una memoria, hanno fatto delle esperienze. Noi sappiamo sviluppare, consolidare tutto questo. Il MRJC sa farlo [...]. Ma in questo modo non si genera ancora nulla di cristiano in loro. Intervenendo poi in quanto cristiano, in quanto prete, si cercherà in diversi modi di far attecchire qualcosa. Ma sappiamo quanto ciò sia lento, aleatorio, deludente. Ci rendiamo conto che spesso è solo un'«apposizione».

    Si tratta di far sorgere nella materia delle loro vite dei riferimenti cristiani, dei segni cristiani. I riferimenti permetterebbero alla loro intelligenza di giudicare, di assimilare, di decidere. I segni anticipano l'intelligenza, alla congiunzione del corpo e dello spirito, là dove si formano i sentimenti e le immagini, là dove si comprende subito, prima di aver capito per riflessione. Per questa genesi di una coscienza cristiana, questi riferimenti e questi segni corrispondono alla struttura cromosomica di un embrione appena concepito. [...] Bisogna quindi suscitare dei riferimenti, dei segni che facciano corpo con la coscienza di questi giovani come la struttura cromosomica fa corpo con l'embrione. Questa immagine ci dà l'esatta misura della questione, della sua straordinaria difficoltà (se la si considera dall'esterno), e della sua «estrema semplicità». La genesi di una coscienza cristiana non si produce in un attimo: una coscienza è nella durata umana; la fede cristiana poi ha una storia propria che si è inserita nella durata umana. Per questo duplice motivo, occorre tempo. A volte però delle cose al tempo stesso minime e molto importanti capitano sull'istante, all'improvviso. Ogni volta che ciò accade, significa che una parola, un fatto, qualcuno, una circostanza, un gruppo di persone, una comunità hanno fatto immagine. Una coscienza allora comprende qualcosa. Un riferimento o un segno cominciano a formarsi in essa, sia tramite essa stessa sia tramite ciò che ha fatto immagine. La parola detta, il fatto, la circostanza, la persona, il gruppo di persone, hanno allora assunto la posizione di genitori la cui unione è all'origine di un concepimento. Ciò si produce soltanto nella misura in cui l'autore della parola, del gesto, la persona, il gruppo di persone non sono in situazione di divorzio, in loro stessi o tra di loro».

    Questo passo ci fa comprendere che la conferenza del 30 novembre 1989, di cui non possiamo che ammirare la grande lucidità storica e teologica, costituisce la prima attestazione di una pastorale, chiamata successivamente «pastorale generativa» e – dovremmo aggiungere – «generativa di coscienze». Il riferimento a «uomini e donne, a preti che hanno superato in loro stessi la situazione culturale di divorzio» si basa, secondo Édouard Pousset, su un

    evento rilevante che ha riguardato gli ultimi quaranta o cinquant'anni: una presenza apostolica ed evangelica agli uomini è stata inventata nella nostra Chiesa in Francia. Questa presenza, spesso descritta e qualificata in termini di comportamento, in termini spirituali e pastorali, serba ancora il suo tesoro nascosto. Il senso teologico non ne è stato ancora veramente prodotto.


    Per svelare questo tesoro, il teologo fa intervenire i quattro racconti evangelici, considerandoli, nella loro stessa diversità, come matrice nella quale possono generarsi coscienze cristiane e apostoliche, e a condizione che siano letti da un gruppo di cristiani i cui membri sono effettivamente impegnati nella società. Prima o poi, si renderanno attenti a ciò che avviene al crocevia di Cesarea di Filippo e percepiranno allora che il «ministero ordinato» (dell'apostolo) non è più una protesi, ma il frutto di un trait d'union tra l'uomo che egli è e ciò che è in virtù della sua ordinazione: un trait d'union che lo costituisce come Gesù Cristo e Simon Pietro. Questo processo generativo si vive certamente su un territorio, ma relativizza in maniera radicale una «pastorale di inquadramento», seppure secolare, che oggi si accontenterebbe di mantenere la superficie istituzionale della Chiesa.

    I due volumi, pubblicati a cura di Philippe Bacq sj e mia - Une nouvelle chance pour l'Évangile. Vers une pastorale d'engendrement (Lumen Vitae-Novalis-Atelier, Bruxelles-Montréal-Paris 2004) e Passeurs d'Évangile. Autour d'une pastorale d'engendrement (Lumen Vitae-Novalis-Atelier, Bruxelles-Montréal-Paris 2008) -, mostrano chiaramente la varietà degli autori e dei loro approcci, dovuta essenzialmente alla diversità dei loro ambiti (che vanno da parrocchie, comunità locali e basate su tutto un territorio a luoghi pastorali come la scuola, la pastorale giovanile, la formazione dei giovani adulti, le cappellanie d'ospedale e il dialogo spirituale). Ciò nonostante, tutti condividono la medesima diagnosi dello stato «spirituale» della società (la prova della esculturazione); e, soprattutto, una preoccupazione pastorale ben specifica che si esprime nel desiderio di risalire alla sorgente della pastoralità, così come è presente nell'evento e nel corpus del concilio Vaticano II. I legami con il pensiero di Pousset non sono espliciti, o sempre consci - tranne in taluno o talaltro autore -, ma non si può negare una certa filiazione, o una trasmissione per osmosi.
    Posso quindi ricordare qui brevemente alcuni elementi strutturali che permettono di giustificare la designazione comune di «pastorale generativa di coscienze», lasciando completamente aperta la diversità di ambiti e approcci.

    1. Partiamo da una convinzione spirituale e teologica elementare: l'annuncio del vangelo è la ragion d'essere della Chiesa e dei cristiani. Ma la Chiesa non deve impiantare questo vangelo dall'esterno, come se Dio entrasse per effrazione in ciò che gli appartiene da sempre. La Chiesa deve riconoscerlo all'opera nelle donne e negli uomini di questo tempo e in tutta la creazione, e al tempo stesso ravvivarlo attraverso la sua presenza benefica che le viene da Cristo e attraverso il suo annuncio.
    Due aspetti costitutivi di questa «presenza», intimamente legati tra loro, emergono ormai in maniera molto chiara: da una parte, la relazione tra la generazione della vita e la generazione della fede e, dall'altra, la ragion d'essere della Chiesa, identificata con la relazione pastorale o missionaria che essa intrattiene con ogni uomo.
    Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare l'analogia decisiva tra, da un lato, l'accesso di qualcuno alla sua umanità grazie a coloro che lo hanno generato (messo al mondo e educato) e, dall'altro, l'accesso alla fede grazie alla presenza di uno o più «traghettatori», di uomini e di donne. Si deve infatti sottolineare la continuità e la differenza tra la vita e la fede, poiché la generazione dell'una non avviene mai totalmente senza l'altra, secondo l'immagine della struttura cromosomica di un embrione appena concepito utilizzata da É. Pousset. Dio è il principio di ogni vita: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», proclama il Salmo 2, citato dalla Lettera agli Ebrei (Eb 1,5) che trasferisce la generazione del Figlio unigenito Gesù verso la condizione di tutti (Eb 2,10). Ogni essere umano, che riponga o no la sua «fede» in Dio, sperimenta infatti questo mistero di una vita che, pur appartenendogli, lo supera radicalmente. Se ci viene affidato di generare con altri la vita, e alla Chiesa di generare la fede, non dobbiamo mai dimenticare che la forza spirituale di questa vita, ma anche della fede, non è trasmissibile: pur suscitata da noi, la fede non può sorgere che liberamente dall'interno stesso dell'altro. Parlare di pastorale generativa significa quindi ricondurre ogni relazione pastorale alla sua radice e forza in Dio e al suo Spirito nell'uomo.
    Il secondo aspetto diventa di conseguenza più chiaro. La Chiesa non è da «costruire» o da «fare»; non è l'obiettivo di una strategia pastorale che dovrebbe soltanto cercare i mezzi adatti per pervenirvi; non è l'insieme di «eventi» che noi avremmo «creato», come si suol dire nel gergo della comunicazione. La Chiesa è da ricevere qui e ora nella sua genesi sempre fragile, sorge all'improvviso, secondo gli eventi della vita che l'avranno chiamata al suo compito di suscitare la fede.
    In una breve formula molto precisa Philippe Bacq ha così riassunto la questione: «Si potrebbe qualificare la pastorale generativa nel modo seguente: essa è un modo di essere in relazione e un modo di agire ispirati dal vangelo che permettono a Dio di generare delle persone alla sua stessa vita».

    2. Questo modo di essere, ispirato dal vangelo, suppone che, nelle relazioni pastorali della Chiesa, la priorità venga effettivamente data alle Scritture. È l'intuizione principale della costituzione Dei Verbum del concilio Vaticano II (capitolo 6) e dell'esortazione postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (2010), che raccomanda di «incrementare la "pastorale biblica" non in giustapposizione delle altre forme della pastorale, ma come animazione biblica dell'intera pastorale» (VD 73 con riferimento a DV 24). Di conseguenza, la lettura delle Scritture in gruppo e altri tipi di lettura (come la lectio divina, collegata alla preghiera, ecc.) sono diventati una buona e felice abitudine per tutti coloro che si basano sulla pastorale generativa. Philippe Bacq e Odile Ribadeau Dumas hanno persino creato una collana intitolata «Écriture en pastorale» e pubblicata dalle edizioni Lumen Vitae, per aiutare questi gruppi di lettura. Sono disponibili i commenti del Vangelo di Marco (Un goût d'Évangile. Marc. Un récit en pastorale, 2006) e di Luca (Luc, un Évangile en pastorale. Commencements, 2009; Puissance de la Parole, 2012).
    Notiamo che la lettura delle Scritture non è un semplice strumento, esterno a quanto essa rende possibile, cioè la generazione da parte di Dio di persone lettrici della propria stessa vita. Ispirata e ispirante, la Scrittura partecipa a questo «processo» spirituale, «reperibile» in maniera particolare in una lettura collettiva o nella liturgia. Aggiungiamo tuttavia che l'ascolto della «voce» di Dio che chiama attraverso la lettura delle Scritture e, specialmente, dei racconti evangelici dell'itinerario di Gesù, non è possibile se non si impara ad ascoltare al tempo stesso le molteplici «voci» umane che risuonano attorno a noi (il discernimento dei segni dei tempi) e la «voce» interiore delle nostre coscienze. È questo triplice ascolto a generare in noi la fede (Rm 10,17), rendendo possibile la nostra risposta a Dio, nell'intimità della preghiera individuale o nella preghiera liturgica della Chiesa. Vedere dei cristiani impegnati nella loro vita personale e professionale e nella società prestarsi a questo triplice ascolto significa darsi la possibilità di toccare da vicino il luogo in se stessi dove una medesima fede può nascere. A questo mirava Edouard Pousset quando parlava di un gruppo di persone o di una comunità ecclesiale che si facesse segno, prevenendo in qualche modo l'intelligenza, «alla congiunzione del corpo e dello spirito, là dove si formano i sentimenti e le immagini, là dove si comprende subito, prima di aver compreso per riflessione».

    3. La pastorale generativa si è tuttavia elaborata in contatto costante con teologi e teologhe. Questo fatto in apparenza irrilevante deve essere sottolineato. Pur affidata a coloro che vi si ispirano e, in primo luogo, a cappellanie (ospedale, prigioni, ecc.), a diverse comunità che vi si sono interessate e a numerosi gruppi di lettura biblica, essa ha beneficiato di una rilettura precisa dei principali testi del concilio Vaticano II e, in particolare, del famoso «principio di pastoralità», lungamente spiegato nel capitolo 5 di questo volume. La «pastoralità» della teologia consiste nel darsi come compito di iscriversi, con le proprie competenze di osservazione, di critica e di pensiero, nelle molteplici relazioni pastorali che costituiscono la Chiesa, lasciandosi al contempo istruire da ciò che viene osservato e riletto.
    Uno degli esempi dell'apporto della teologia alla pastorale generativa è l'insistenza posta sulla Scrittura come «anima di tutta la pastorale» (VD 73), insistenza che implica anche una certa vigilanza affinché le evoluzioni dell'esegesi critica siano rese feconde anche in seno al lavoro pastorale. L'esegesi storica, prevalente all'epoca del concilio, non ha avuto che un'influenza molto relativa nell'ambito della pastorale. Essa ha aiutato alcuni cristiani ad abbandonare un fondamentalismo inconscio e a scoprire che i vangeli erano anche riletture della storia, a partire da un certo punto di vista teologico. Nell'epoca post-conciliare, essa è stata avvicendata dall'analisi strutturale che, a causa del suo supporto molto semplice, ha aiutato molti cristiani a entrare nella composizione di piccole unità letterarie o pericopi dei vangeli e ad accostare così, grazie alla sorprendente profusione delle situazioni, la genesi della fede di talune persone. Ne darò un esempio nell'appendice 2. L'analisi narrativa ha infine permesso di cogliere meglio la composizione di un racconto evangelico nella sua globalità, di individuare i suoi modelli (tratti dall'Antico Testamento) e di percepire la sua prospettiva teologica, guidando i lettori a scoprire qual è il loro posto di fronte al testo. Se i gruppi impegnati nell'analisi di piccole unità letterarie hanno dovuto, a un certo punto, lasciare al biblista o al teologo l'esercizio più globale o sintetico di considerare la teologia propria di un evangelista, gli strumenti tecnici molto semplici della narratologia contribuiscono ormai a trasferire questa competenza al gruppo; ciò dipende ovviamente dall'animatore e dal suo modo di porsi (ne abbiamo parlato nel capitolo 8 di questo volume).
    A questa evoluzione occorre aggiungere che la conoscenza storica della vita di Gesù e della genesi della Chiesa primitiva si è fatta molto più precisa, anche per un pubblico meno esperto, e che non è impossibile farvi riferimento in un gruppo di lettura, cappellania o comunità senza perdere di vista la finalità principale della lettura, cioè l'ascolto singolare e comunitario della «voce» di Dio e la generazione di una coscienza cristiana. Infatti, scoprire la creatività missionaria delle prime comunità cristiane sul piano della loro capacità di «adattarsi» ai loro partner e dal punto di vista teologico può suscitare oggi una creatività analoga al servizio della missione in società ben diverse da quelle dell'Impero romano. I due punti successivi fanno più particolarmente riferimento a questa differenza.

    4. Una felice conseguenza della lettura dei vangeli nel quadro della pastorale generativa è la scoperta della differenziazione delle «figure» della fede: discepoli tra i quali alcuni fanno parte dei Dodici o ricevono la qualifica di apostoli, simpatizzanti, donne e uomini, di diversi tipi, ma che si trovano per lo più in una situazione di «necessità», avversari e responsabili politici e religiosi, folla, ecc., con possibili passaggi da una «categoria» a un'altra. I gruppi di vangelo sono stupiti davanti a tale diversità, perché non corrisponde alla loro «geografia» ecclesiale e spirituale che, nella maggior parte dei casi, si riduce alla distinzione tra cristiani praticanti e non cristiani.
    Philippe Bacq e Odile Ribadeau Dumas amano designare i «simpatizzanti» come «uomini e donne del Regno» o ancora come «gente del posto». Per quanto mi riguarda, introduco qui la categoria del «chiunque» mettendo l'accento sulla «fede» di coloro, uomini e donne, che incontrano Cristo (o più tardi uno/una dei suoi discepoli), senza seguirlo; nella seconda appendice, ne faccio un esempio. t la differenza cristiana o la struttura «cristica» della fede in Gesù il Cristo che permette di comprendere e di onorare questa «fede» elementare nella vita che Gesù stesso non ha cessato di individuare, di suscitare e di ammirare, senza far intervenire qui né il nome di Dio né alcun'altra condizione se non la semplice fiducia. Nel capitolo 4 di questo volume ho cercato di valorizzare questa «fede gradita a Dio» (Eb 11,6), così facilmente dimenticata nelle nostre società moderne che contrappongono fede e ragione, e di precisare il suo statuto propriamente teologale con riferimento alla tesi del concilio Vaticano II, secondo cui bisogna pensare insieme la grazia battesimale dei cristiani e la grazia di Cristo, diffusa universalmente sin dalla creazione del mondo e all'opera. t quindi del tutto possibile sostenere che la «fede» elementare, spesso così effimera e minacciata, sia suscitata o ravvivata dalla presenza di un cristiano, rendendo possibile la sua generazione da parte di Dio, anche se colui che è all'origine di ogni vita non è percepito in maniera conscia.
    Questa «fede» elementare ha grandi «competenze», in particolare quella di prendere la parola e quindi di interpretare la propria situazione; quando un gruppo biblico lo percepisce confrontandosi con un episodio evangelico, ad esempio quello della donna emorroissa, tale scoperta suscita la parola dei partecipanti e consente loro di realizzare che la generazione della coscienza e della «fede», sotto tutte le sue forme, si esprime in una parola singolare e abitata dall'intera esistenza di colui che la pronuncia. Questa concezione della «fede», che ha conseguenze ecclesiali rilevanti, si iscrive al tempo stesso nel campo di una fenomenologia del quotidiano; poiché essa emerge da questo quotidiano, aprendovi delle brecce e riorientandolo a favore di un gioco relazionale e sociopolitico sempre più dischiuso a tutti. La drammatica pasquale e il conflitto di interpretazione che lì si gioca si annunciano in questi molteplici episodi «penultimi» (Bonhoeffer) e offrono una figura ogni volta adatta a questa «possibilità data a tutti di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (GS 22 § 5).

    5. L'altro punto, relativo alla differenza storica tra il mondo biblico e il nostro, verte sull'ecclesialità della fede cristica. Ciò che si designa come «pastorale generativa» si iscrive ovviamente nella pastorale ecclesiale, ma si adopera affinché questa non sia identificata con un «quadro» esteriore, stabilita una volta per sempre e da mantenere. Essa prende sul serio la distinzione già classica tra, da un lato, l'atto che istituisce la Chiesa o il suo radicamento attuale nella totalità della vita di Gesù, compreso nella sua misteriosa presenza e dinamica pasquale e pentecostale, e, dall'altro, la figura istituita della Chiesa, lavorata e rilavorata dalla storia. È su questo piano che si colloca l'idea di ecclesiogenesi. Il punto importante da sottolineare, nell'orizzonte di una pastorale generativa, è che questa genesi consiste nel ricevere, precisare e sviluppare progressivamente e in funzione di quel che un dato contesto rende possibile, poiché i «mezzi» permettono a Dio e al suo Spirito di generare delle persone in relazione alla sua propria vita. Tale itinerario modello, aperto alle «sorprese» spirituali, è stato proposto nel capitolo 9 di questo volume; ma raggiungiamo qui ciò che è stato suggerito sopra nella presentazione degli elementi costitutivi della pastorale generativa (punto 1).
    Quest'ultimo punto è assolutamente decisivo, poiché mostra l'attaccamento evangelico della pastorale generativa al suo radicamento «locale» e alle condizioni delle nostre odierne «Galilee». Queste ultime non sono soltanto d'ordine territoriale, ma riguardano tutti i «luoghi» dove è in gioco l'essenziale delle nostre vite. Ritroviamo qui la diversità delle «pastorali» (catechetica, sacramentale e liturgica, familiare, nella scuola, nell'ospedale, nelle prigioni, per certe categorie di persone, ecc.), poiché la pastorale generativa è intesa non come una «pastorale» in più ma come modo di impegnarsi su un terreno concreto. Essa ha soprattutto bisogno di delicatezza e di un esprit de finesse capace di sottolineare un aspetto in funzione degli interlocutori (la lettura della Scrittura, l'attenzione a «chiunque» o «alle donne e agli uomini del Regno», a quanto può emergere in un luogo apparentemente deserto, ecc.), pur sapendo che il perfetto equilibrio di tutti gli elementi del mistero cristiano e di tutti gli aspetti della pastorale ecclesiale non esiste o significa semplicemente la loro morte. È quindi il «dono della ponderazione» che bisogna implorare dallo Spirito Santo per gli uomini e le donne che sono abitati da un'autentica preoccupazione pastorale. 

    NOTE

    1 Mouvement Rural de Jeunesse Chrétienne (Movimento rurale della gioventù cristiana) (ndt).
    2 Cf. sopra, c. 1, p. 29, nota 6.

    (FONTE: Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB 2019, pp. 359-368)

    * Ringraziamo ancora una volta gli Amici delle Dehoniane per la gentile concessione di pubblicazione nel nostro sito. Questo è un tema più volte affrontato anche nella rivista e che ora viene sintetizzato e criticamente collocato e riproposto. Il libro da cui questa "Appendice" è tratta affronta temi pastorali di grande interesse per i nostri lettori e per tutta la pastorale.


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