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    Viviamo in un mondo

    angosciato dalla percezione

    del progressivo tramonto della civiltà

    Da "Nelle ombre del domani" (1935)

    Johan Huizinga *


     

    Viviamo in un mondo ossessionato. E ne siamo coscienti. Nessuno proverebbe stupore se un bel giorno questa nostra insania desse luogo a una crisi di virulenta follia che, una volta estinta, lascerebbe l’Europa nel torpore e nello smarrimento; i motori continuerebbero a girare e le bandiere a sventolare, ma lo spirito sarebbe soffocato.
    Ovunque percepiamo l’incertezza intorno alla stabilità del sistema sociale sotto cui viviamo, l’ansia indefinita del domani, il senso di decadimento e di tramonto della civiltà.
    Queste non sono solo il genere di angosce che cogliamo durante le veglie notturne, quando la fiamma vitale è affievolita. Al contrario, sono scenari meditati, fondati sul nostro giudizio e la constatazione dei fatti. La realtà ci opprime.
    Scorgiamo distintamente come quasi ogni cosa, che un tempo ci appariva salda e sacra, stia venendo meno: verità e umanità, ragione e diritto. Abbiamo davanti ai nostri occhi le forme di governo che non funzionano più e i sistemi di produzione che agonizzano. Vediamo le forze sociali assumere uno sviluppo ipertrofico. La grandiosa macchina di questa nostra straordinaria epoca sembra sul punto d’incepparsi. Allo stesso tempo si propone la tesi opposta: mai vi fu un’epoca in cui l’uomo sia stato così distintamente cosciente del suo compito di conservatore e fautore del perfezionamento del benessere terreno e della cultura. Il lavoro non fu mai cosi in onore, come lo è oggi. Mai l’uomo fu così incline a operare, a osare e a sacrificare senza sosta il proprio coraggio, la propria esistenza votata a un bene comune. La sua speranza è intatta.
    Se vogliamo salvare questa civiltà, non farla decadere a secoli di barbarie e, anzi, salvare i supremi valori che lascia in eredità, e trovare la via per giungere a nuova saldezza, è necessario che gli uomini d’oggi abbiano piena coscienza del grado di decadimento che li minaccia.
    La percezione angosciante del tramonto e del progressivo venire meno della civiltà è diventata generale da non molto tempo. Per la maggioranza degli individui, è stata la crisi economica che li ha colpiti nel loro corpo (poiché la maggior parte di noi è più sensibile nel corpo che nello spirito!) a preparare il terreno a quest’ordine d’idee.
    È indubbio che le persone avvezze a riflettere con spirito critico e sistematico intorno alla società e alla civiltà – filosofi e sociologi – già da tempo sono coscienti che nell’onda della civiltà moderna qualcosa «non funziona». Già da tempo essi hanno la chiara coscienza che la dissociazione economica rappresenta solo uno dei sintomi di un processo culturale di ben più ampia estensione.
    L’alba del Novecento fu appena sfiorata da qualche fugace e vaga ansia legata al futuro della civiltà. Anche allora vi si trovavano, come in ogni epoca, attriti, minacce, scosse e timori. Ma, eccetto forse il pericolo di una rivoluzione sociale che il marxismo faceva intravedere a tratti, questi non assumevano la forma di malattie che potessero mettere in pericolo le fondamenta della realtà sociale; e quella stessa rivoluzione, che ai suoi principali attori apparve come una salvezza, ai suoi avversari non si presentava come un pericolo impossibile da scongiurare. I «decadentismi» venuti alla ribalta intorno al 1890, e fioriti nell’ultimo decennio del secolo scorso, si erano rivelati nient’altro che una moda letteraria. L’anarchia mutata in azione sembrava essersi definitivamente placata con l’uccisione di Mac Kinley. Il socialismo sembrava ormai volgere al riformismo. La prima conferenza di pace malgrado la guerra dei boeri e la guerra russo-giapponese poteva dare al mondo l’impressione di aver inaugurato un’era di pace internazionale. Il tono dominante, nell’animo delle persone, era quello di una ferma fiducia che il mondo, governato dalla razza bianca, fosse avviato sulla giusta e ampia via dell’armonia e del benessere, animato da un sentimento di libertà e di umanità che veniva assicurato da un sapere e da una capacità che sembravano ormai aver raggiunto il loro apogeo. Armonia e benessere, certo, se solo la politica avesse conservato il senno. Ma non fu così.
    Nemmeno agli anni della Guerra Mondiale seguì una rivoluzione. All’epoca, infatti, gli sforzi comuni si risolvevano nella seguente e pressante preoccupazione: portare a termine il compito con la massima risoluzione e, una volta finita la guerra, ricominciare tutto da capo e meglio di prima – anzi, finalmente come si deve! Molti trascorsero anche i primi anni del dopoguerra nell’attesa ottimistica di un benefico internazionalismo. Così, fu l’apparente fioritura dell’industria e del commercio, che verrà infine stroncata dalla crisi nel 29, e a rallentare per qualche anno l’universale pessimismo delle persone colte.
    Oggi la coscienza di vivere una virulenta crisi di civiltà, che fa incombere su di noi la rovina, si insinua in tutti gli strati sociali. Il Tramonto dell’Occidente di Spengler è stato un segnale d’allarme a livello mondiale. Ciò non implica che ogni lettore del famoso libro si sia convertito alla sua visione del mondo. Egli tuttavia li ha avvicinati al pensiero della possibilità di un tramonto dell’attuale Civiltà, quando prima erano ancora assorti in una cieca fede nel progresso.
    Un cieco ottimismo, rispetto all’avvenire della civiltà, attualmente non viene più riscontrato se non in coloro che, per mancanza di una chiara coscienza, non sono in grado di percepirne i suoi limiti, e dunque sono inficiati dal suo processo regressivo; oppure in coloro che stimano di possedere, con la loro dottrina sociale o politica, la civiltà futura, e di poterla diffondere – qui e ora – in mezzo alla povera umanità. Fra un accanito pessimismo e la certezza di una prossima panacea, troviamo coloro che scorgono i gravi mali e le ferite della nostra epoca. Non sanno quale rimedio adottare né come ovviare a tutto ciò, ma nel frattempo lavorano e sperano; cercano di capire e sono disposti a sacrificarsi.
    Sarebbe assai istruttivo, intanto, vedere espressa in una curva la rapidità con cui la parola «progresso» è sparita dall’uso comune, in tutto il mondo.
    Possiamo chiederci se l’importanza della crisi non sia sopravvalutata, precisamente per il fatto di averne una cosi chiara coscienza. Nei precedenti periodi di crisi l’uomo non conosceva l’economia politica, la sociologia, la psicologia — più ancora: allora mancava ogni pubblicità su ciò che accadeva nel mondo. Quando noi, al contrario, riusciamo a vedere ogni incrinatura della vernice e udiamo ogni scricchiolio delle commessure. L’estensione di questa conoscenza esatta ci fornisce la coscienza permanente dell’estremo «pericolo» che attraversiamo, del carattere estremamente precario della società in cui viviamo.

    * Storico olandese (Groninga 1872- De Steeg, Arnhem, 1945). La sua notissima opera Herfsttij der Middeleeuwen (1919; trad. it. Autunno del Medioevo) dà un quadro suggestivo del trapasso delle forme di vita e dei sentimenti dal Medioevo al Rinascimento, colti nell’evolversi e nel raffinato cristallizzarsi della società borgognona, e ha notevolissima importanza per tutta la storia europea di quel periodo. Una testimonianza della sua viva coscienza dei valori della civiltà europea e della crisi degli stessi, analizzata con acuta sensibilità, è costituita dalla biografia di Erasmo (Erasmus, 1924; trad. it. Erasmo). In Homo ludens (1938; trad. it.), H. coglie l’essenzialità perenne dell’uomo nella realizzazione di uno stile che sempre si rinnova in una ricerca creativa che è gioco; propone inoltre un’amara critica della moderna civiltà di massa in In de schaduwen van morgen (1935; trad. it. La crisi della civiltà). Durante la Seconda guerra mondiale, per la sua opposizione al nazismo fu imprigionato e poi confinato nei pressi di Arnhem.


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