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    Parole che allungano la vita

    Pensieri per il nostro tempo

    Intervista a Ivano Dionigi



    Prof. Dionigi, Lei è autore del libro Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, edito da Raffaello Cortina, che raccoglie 84 elzeviri, “bagliori”, come li definisce il card. Gianfranco Ravasi, che ha prefato il libro: qual è, se esiste, il fil rouge che li lega?
    Il libro ruota attorno alla domanda di Agostino Tu quis es?, “Tu chi sei?”: una domanda personale, esistenziale, patetica. Diversa dalla domanda di Seneca Quid est homo?, “Cos’è l’uomo?”: domanda generale, indeterminata, anonima, propria dei filosofi. Questo lo scopo, tanto ambizioso quanto realistico, del libro che tiene insieme pensieri che si snodano come tappe e soste lungo un viaggio: il viaggio tra passato e presente, tra antichi e moderni, tra il fuori e il dentro di noi. Il punto di partenza è occasionale: una citazione, un episodio di cronaca, l’incontro con una persona, un dibattito su politica, scuola, lavoro, l’avvento di una tragedia improvvisa.
    Il tutto sotteso dalla cura della parola: parola che, oggi più che mai tradíta e sfigurata, implora la riscoperta del proprio significato e la restituzione del proprio volto.

    Nel libro Lei rileva le sorprendenti somiglianze tra questi giorni di emergenza sanitaria e la peste di Atene (430 a.C.), segno che la storia ama ripetersi. La domanda con cui conclude il libro è inquietante: «Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario?» Come usciremo da questa peste moderna?
    Che il mondo non sia in equilibrio ambientale ce lo dice l’antropocene, la terra non più custodita bensì guastata dall’uomo; che non sia in equilibrio sociale ed economico ce lo dicono gli immigrati che fuggono da guerre, fame, persecuzioni; che non lo sia da un punto di vista sanitario, lo ha dimostrato questa pandemia, che ha messo a nudo carenze, inadempienze e diseguaglianze di cure. Come ne usciremo? Come individui, io credo che i retti resteranno retti, gli acuti torneranno acuti e gli ottusi rimarranno tali. Eppure una lezione dovremmo averla appresa. Che per salvare il clima non basteranno Greta e i suoi coetanei; che per la causa degli immigrati non basteranno gli appelli di Papa Francesco; che per curare vecchie e nuove malattie non basteranno né i volontari né Medici senza frontiere.
    Dovremmo aver capito anzitutto che chi più ha più deve dare, cha la ricchezza va ridistribuita, perché senza giustizia non si danno né pace né libertà; che la politica è una cosa seria, è senso del destino individuale e collettivo degli uomini, non spartizione di potere e neppure semplice pratica amministrativa; che per salvarci dovremo dismettere il pronome io e declinare il pronome noi. Ma un noi che, dopo l’eclisse delle grandi ideologie e l’affanno delle istituzioni (famiglia, chiesa, partiti, sindacati), parta dalla responsabilità individuale. Ma pavento anche un altro scenario: quello dell’indurimento degli animi, di un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, di un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno delegare in cambio panem et circenses. Come a dire, temo l’eclisse della politica.

    Lei sostiene che la parola è il male del nostro tempo: parliamo male, nella nostra società «la dignità è ridotta a un “decreto”, la politica a un “contratto”, la pace a “condono fiscale”». C’è bisogno di un’ecologia linguistica: dove possiamo trovare queste “parole nuove”?
    Potrei continuare: il maestro scaduto a “influencer”, il discepolo a “follower”, lo statista a “leader”, il rifugiato a “clandestino”, il volto a “faccia”. Sono parole che non illuminano ma occultano la cosa e sequestrano la verità. Perché sono parole finte, di plastica, di niente; verba obvia, direbbe un retore del III sec. d. C.: parole che troviamo sulla via, usate e usurate da altri, non scelte da noi. Noi parliamo male, e parlare male – diceva Platone – oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. Per questo abbiamo bisogno di un’ecologia linguistica. Dobbiamo tenere fermi due principi: anzitutto la parola, il lógos, come diceva Aristotele, è la marca che ci qualifica come uomini e ci distingue dagli animali; in secondo luogo, la parola non custodisce o trasmette semplicemente il pensiero, ma lo genera. Come trovare le parole nuove? Ce lo insegna il grande Lucrezio: a fronte di cose nuove, “rivoluzionarie” (res novae) dobbiamo trovare, inventare parole nuove, “mai udite prima” (verba nova). Se non abbiamo cose vere, nuove, rivoluzionarie da proporre, non avremo neppure parole adeguate per trasmetterle; e viceversa. E allora, meglio il silenzio, per non incorrere nella chiacchiera.

    Lei ha fondato il Centro Studi “La permanenza del Classico” dell’Università di Bologna; per il grande critico dantesco Osip Mandel’štam, classico è “ciò che ancora ha da essere”: nella società attuale, qual è il valore del classico?
    I classici sono nel duplice segno dell’identità e della differenza, del fondamento e dell’antagonismo Da un lato sono fondativi del nostro sapere e titolari di lasciti culturali specifici: ricordo in particolare la riflessione politica della Grecia classica, l’autonomia del diritto romano, il pensiero scientifico ellenistico e ancor prima presocratico (si pensi all’intuizione dell’atomo). E poi l’eredità linguistica. Noi parliamo greco quando parliamo di vita (bíos), mondo (kósmos), tempo (chrónos), politica (pólis), di anima (psyché); parliamo latino quando discutiamo di cittadinanza e militanza (Res publica, civitas, negotium, otium), di religione (religio, pietas, cultus), di valori morali (virtus, clementia, dignitas, iustitia). Ma i classici sono anche nel segno dell’antagonismo: ci riguardano e ci interessano perché sono diversi da noi e dalle mode del nostro presente (modo, “adesso”). Ci educano a un pensiero critico e plurale che passa al vaglio ogni affermazione e notizia, che iscrive i problemi locali nei problemi del mondo, che sa confrontarsi con le categorie e i punti di vista dell’altro: in una parola, i classici conoscono l’ars interrogandi. Questo è possibile perché il mondo classico è abitato non da un pensiero unico e limitante bensì dalla pluralità di concezioni rivali del mondo. La classicità è il mondo dei libri, non del Libro, delle scritture, non della Scrittura. Contrastano con il pensiero unico, il ripiegamento sul presente, il videoanalfabetismo dei nostri giorni.

    Nel libro Lei racconta il disagio dei giovani costretti all’emigrazione intellettuale, per i quali la laurea «non è un passaporto, ma un foglio di via» mentre per la Sua generazione essa rappresentava «una promozione sociale, una garanzia di lavoro», insomma, «una polizza di assicurazione»: come possiamo salvarci dal «suicidio perfetto» di perdita del capitale umano, capita, teste?
    Vero. Le Università li formano, le famiglie investono, il contribuente paga, e come finisce questa storia? con i Paesi stranieri che riscuotono. Esportiamo cervelli e importiamo badanti, magari laureate. Grazie soprattutto alle scuole superiori, e in particolare ai Licei, abbiamo i giovani più colti d’Europa; non parliamo di quelli oltre Oceano, perché il confronto sarebbe offensivo per noi. Come fanno i nostri laureati a sentirsi parte di una causa comune se non si dà loro spazio nei posti di responsabilità? Se a trenta, quarant’anni non si garantiscono loro la possibilità e il diritto (!) di un lavoro e di farsi una famiglia? Eppure sono bravi e preparati: conoscono le lingue, sono cittadini del mondo, fanno volontariato. Visto che l’alternativa della rivoluzione non è realistica, non resta che gridare i loro diritti, incitarli a fare politica e sperare – contro ogni speranza – nella lungimiranza di qualche responsabile della cosa pubblica che ponga fine a questo delitto imperdonabile. Ci vogliono maestri, statisti, pastori i quali, come Mosé, abbiano il senso del destino del proprio popolo, l’ansia di portarlo fuori dal deserto. Che stiano davanti a guidare il popolo e non dietro o in mezzo ad annusarne gli istinti.

    Come afferma nel libro, e come ebbe anche a titolare nel 2016 un libro uscito per i tipi di Mondadori, «Il presente non basta»: quali pericoli corrono i giovani che oggi «trovano staccata la spina della storia e scontano l’impatto di una simultaneità tanto assoluta quanto effimera»?
    Lo spazio sta divorando il tempo. Con le nostre decisioni e il nostro modello di vita li abbiamo condannati alle spire dell’immensa rete dello spazio (www), alla signorìa del presente, a uno stato di minorilità: a quello che Byung-Chul Han ha chiamato “l’inferno dell’uguale”. Senza alcun pathos della distanza, eros della differenza. Un eterno presente, senza la nozione del tempo, senza più quel filo che lega il passato al futuro, la memoria al progetto, i trapassati ai nascituri. L’unico nostro possesso è quello del tempo, che ci consente il colloquio con l’altro e con gli altri, e che ci allunga la vita. Lo spazio è statico, è la sommatoria dei dati di fatto e delle forze in atto; il tempo è dinamico, ci porta a guardare contemporaneamente avanti e indietro, a fare memoria e progetti. Possiamo sopportare la contraddizione di essere giganti e planetari col web, nani e provinciali col tempo? A pagare il prezzo di questa cesura e censura sono i giovani, ai quali, sì, abbiamo staccato la spina della storia.

    In che modo la saggezza antica parla ai nostri giorni?
    Ci parlano proprio in nostri giorni in tanti modi. Ci dice con l’Enea di Virgilio, il quale carica sulle spalle il padre Anchise, che nessuno, anche se vecchio, deve restare indietro e morire abbandonato; con Platone, che in una città non solo non bisogna privatizzare i beni materiali ma neppure quelli spirituali, per cui quando uno soffre tutti soffrono, e quando uno gioisce tutti gioiscono; con Seneca, che il tempo è la cosa più preziosa e più democratica, perché viene data gratuitamente a tutti; con Lucrezio, che l’unica soluzione contro la paura e l’ignoranza è la conoscenza; con Gorgia, che la parola può tutto: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. Soprattutto ci ricorda che accanto alla tecnologia e al suo profeta Prometeo, abbiamo bisogno della filosofia e del suo profeta Socrate. Intendo dire che accanto ai saperi specialistici e iperspecialistici, chiamati a dare risposte immediate, abbiamo bisogno di un sapere che sappia cogliere la sintesi, l’insieme, l’intero dei problemi, e che si preoccupi di fare domande. Il ruolo dei classici non è quello di consegnarci risposte definitive o consolatorie; essi sono gli esperti e i titolari dell’ars interrogandi, ben più decisiva e duratura dell’ars respondendi.

    Nel libro lei ricorda che «all’inizio del Novecento un abitante al mondo su quattro era europeo e che di qui a trent’anni lo sarà uno su quattordici; tra un secolo, se e quando verrà fatta la vera Europa, gli europei rischieranno di non esserci più»: può, a Suo avviso, la tradizione classica innestarsi su nuove culture o è destinata a sopravvivere quale pura erudizione antiquaria?
    Dalla classicità, in particolare da Roma ci viene una grande lezione politica per i nostri giorni. Tutta la narrazione di Roma è stata una storia di inclusione: dal padre Romolo – che, intenzionato a “mescolare sangue e stirpe” (sanguinem et genus miscere), ha accolto le popolazioni confinanti e nello stesso giorno trattava i nemici (hostes) come cittadini (cives) – fino al 212 d. C., anno in cui Caracalla ha esteso la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero. A questa inclusione politica, i Romani aggiunsero quella culturale, conquistando i nemici con le armi, ma facendosi conquistare dalle arti, come recita il celeberrimo verso di Orazio: “la Grecia conquistata conquistò il suo rude conquistatore” (Graecia capta ferum victorem cepit); e praticarono anche l’inclusione religiosa, costruendo un Pantheon multietnico, nel quale trovavano posto divinità e culti dei vinti. Questa politica lungimirante e inclusiva fece grande e duratura Roma. Al contrario le istituzioni politiche di Atene e della Grecia collassarono ben presto perché respinsero l’altro come “barbaro”, coltivarono il culto dell’autoctonia, eressero un muro tra chi “è dentro” e “chi è fuori”. Se noi oggi non intendiamo accogliere gli stranieri come fratelli, come dettano sia il messaggio evangelico sia la ragione illuministica, almeno facciamolo – seguendo i Romani – per calcolo e lungimiranza politica: presto saranno più di noi, e avremo bisogno di loro. Come insegnano i versi di Kavafis: “S’è fatta notte, e i barbari non sono venuti / […] / E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente” (Aspettando i barbari).

    Nel libro Lei affronta il «male italico» di «scrivere molto e leggere poco»: quali provvedimenti dovrebbe adottare, a Suo avviso, la politica per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
    Chi scrive, deve essere mosso da responsabilità verso il lettore e da ansia di verità. Altre intenzioni e finalità producono pulvis et umbra. Siamo uno dei Paesi che scrive di più e legge di meno, come già lamentava Leopardi. Eppure un libro ha cambiato spesso la vita a molti. Al di là di benvenute e benemerite iniziativi incrementali (letture pubbliche, festival, presentazioni), ritengo che tale compito possa e debba essere svolto, in modo strutturale, dalla scuola e dall’università. Far capire che una cosa è il computer che rapidamente conta, una cosa è il libro che lentamente racconta, e allunga la vita. Facendo conoscere ai ragazzi figure carismatiche di scrittori: coloro che scrivono non di sé e per sé, ma di noi e per noi.

    Alle tre “i” di inglese, internet, impresa, Lei propone per la nostra scuola quelle di intelligere, interrogare, invenire: di quale scuola c’è bisogno oggi?
    Credo che la scuola sia rimasta, se non l’unico, uno dei pochi avamposti culturali e civili del Paese, anche se trattata da Cenerentola, della quale nessuno di essa si cura, come vediamo anche dai non-provvedimenti di questi giorni. Come valorizzare e far crescere i nostri ragazzi che dal Trentino alla Sicilia fanno la bellezza, l’unità e la speranza di questo Paese? Abbiamo bisogno di una scuola degli studenti e per gli studenti aperta h24; dove non si debba scegliere tra latino e informatica, ma – nella logica dell’et et e non dell’aut aut – si apprendono sia latino che informatica; dove si possano fare teatro e sport; dove non ci sia bisogno di ricorrere alla lezione privata; dove, soprattutto in alcune parti del Paese, i ragazzi trovino l’antidoto alla strada e alla criminalità; dove i docenti abbiano uno stipendio che li faccia vivere e non sopravvivere; dove i nostri ragazzi, per dirla con Mandel’štàm, possano dotarsi di “scarponi chiodati”, al riparo da ogni nefasta pedagogia facilitatrice. Scuola più scuola: questa è la vera alternanza! Come ammoniva Nietzsche, la scuola deve formare cittadini e non utili impiegati.

    _____________________________________

    Ivano Dionigi, latinista, è Presidente della Pontificia Accademia di Latinità e del Consorzio ALmaLaurea, Direttore del Centro Studi “La permanenza del classico” dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, di cui è stato Magnifico Rettore dal 2009 al 2015. Tra i suoi ultimi libri, Il presente non basta. La lezione del latino (Mondadori, 2016), Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi (Laterza, 2018), Osa sapere. Contro la paura e l’ignoranza (Solferino, 2019); Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo (Raffaello Cortina Editore, 2020).

     


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