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    Nativi digitali:

    linguaggio e rituali

    Antonio Spadaro

    Perché ci stiamo occupando di giovani digital natives (Mark Prensky) in un incontro che riguarda la cultura? Perché i giovani non sono solamente piccoli uomini che devono essere formati. La loro visione delle cose, il loro approccio alla realtà è la base del nostro futuro. I giovani sono una risorsa di «giovinezza epistemica», cioè di una visione innovativa sul mondo di cui la società ha disperato bisogno. La cultura giovanile non è solamente, a mio modo di vedere, una sezione specifica degli studi culturali da affidare ai sociologi, ma una prospettiva sul mondo, una visione delle cose capace di aiutarci a decifrare la vita e a interrogarci sui suoi significati.
    Noi parliamo adesso di cultura digitale. Perché? Perché questo legame tra «giovani» e «digitale» che è dato spesso per ovvio, per naturale? Perché i giovani oggi vivono da cittadini l’ambiente digitale. Se vogliamo incontrare i giovani non possiamo disertare la piazza digitale. O meglio: nella loro esperienza di vita ordinaria, reale, la Rete è entrata come realtà emergente, addirittura come «tessuto connettivo» delle loro esperienze.

    Che cos’è la Rete?

    Nel lontano settembre 1916 Filippo Tommaso Marinetti e un gruppo di artisti futuristi scrivevano: «Il libro, mezzo assolutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero, era da molto tempo destinato a scomparire». «Metteremo in moto – scrivevano i futuristi – le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori». Intendevano parlare del cinema, ma con queste loro parole già prefiguravano quella forma di espressione ipertestuale e interattiva («in libertà») che è il linguaggio proprio della Rete. Che qualcuno ritiene sia un “nuovo” media… Ancora oggi si pensa e si parla di “nuovi media”, si pensa cioè a un nuovo medium che si aggiunge agli altri: prima la stampa, poi la fotografia, poi il cinema, poi la radio, poi la tv, poi “internet”… Come se avessimo scoperto un altro pianeta in orbita intorno al Sole dopo Plutone. Non è così. Siamo davanti a qualcosa di diverso. Internet non è un nuovo mezzo accanto agli altri.
    La rete informatica non è qualcosa di simile alla rete idrica, o a quella del gas.
    Internet è innanzitutto una esperienza. Finché si ragionerà in termini strumentali non si capirà nulla della Rete e del suo significato. Questo ambiente risulta a molti incomprensibile. Scrive McLuhan che «ogni tecnologia crea un nuovo ambiente.
    Esso crea un totale stordimento nei nostri sensi perché il nostro istinto è quello di nasconderci da ciò che ci è ignoto, da ciò che è strano, così la gente rimane inconsapevole del nuovo ambiente». Quindi il compito della Chiesa è superare questo iniziale stordimento, evitare di nascondersi e prendere consapevolezza. Ed è ciò che ha fatto il Papa nel suo Messaggio per la 47a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali scrivendo: «L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani». Lo spazio digitale non è inautentico, alienato, falso o apparente, ma è un’estensione del nostro spazio vitale quotidiano, che richiede «responsabilità e dedizione alla verità».
    Finché invece si dirà che bisogna uscire dalla relazioni in Rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo sé, un’identità doppia che vive di banalità effimere. Ricordo che un mio studente nigeriano della Pontificia Università Gregoriana una volta mi disse: «Io amo il mio computer perché dentro il mio computer ci sono tutti i miei amici». È vero: dentro il suo computer c’è Facebook, Skype, Twitter… tutti modi per lui di stare in contatto con i suoi amici lontani. La sua «comunità» di riferimento era reale grazie alla Rete. Questa ingenua affermazione ci fa riflettere sul fatto che l’ambiente digitale ha un impatto sul significato stesso di che cosa significa esistere.
    La loro vita è lì, nelle foto e nei pensieri che condividono, lì sono i loro amici.
    Loro, in un certo modo «sono» in Rete, parte della loro vita è là. Ci rendiamo conto ormai che esistiamo anche in Rete. Una parte della nostra vita è digitale.

    La Rete e il pensiero

    Dunque la Rete comincia a incidere sulla capacità dei giovani di vivere e pensare. Dal suo influsso dipende in qualche modo la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo che ci circonda e di quello che ancora non conosciamo.
    Vi ricordo un fatto curioso, per certi aspetti: quella sorta di canonizzazione di Steve Jobs alla quale abbiamo assistito un anno fa esatto alla sua morte. Mai un tempo si sarebbe immaginato di poter assistere alla canonizzazione di massa dell’amministratore delegato di una azienda che produce macchine. Se questo è avvenuto è perché queste «macchine» sempre di più stanno assumendo un valore che tocca le dimensioni dell’uomo più elevate: pensare, esprimersi, comunicare, capire il mondo.
    A questo punto vorrei ricordare qui alcune parole che 1964 Paolo VI pronunciò, rivolgendosi al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, diretto dai gesuiti. Sono parole di una bellezza sconcertante, a mio avviso. Il Centro stava elaborando l’analisi elettronica alla Summa Theologiae di San Tommaso e anche del testo biblico.: «Ciò che a Noi basta, per cogliere l’intimo significato di quest’udienza, è notare […] come il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze». E proseguiva Paolo VI: «non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato ad un servizio, che tocca il sacro? È lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata a eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio?».
    Paolo VI afferma dunque che il «cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale». Aggiunge che l’uomo compie uno «sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali». E prosegue affermando che, grazie alla tecnologia, la materia offre «allo spirito stesso un sublime ossequio». La tecnologia diventa uno dei modi ordinari che l’uomo ha a disposizione per esprimere la sua spiritualità. Se usate saggiamente, dunque, le nuove tecnologie «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano» (Benedetto XVI). «Agendo sulla vita delle persone, i processi mediatici resi possibili da queste tecnologie arrivano a trasformare la realtà stessa. Intervengono in modo incisivo nell’esperienza delle persone e permettono un ampliamento delle potenzialità umane. Dall’influsso che esercitano dipende la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo» (Instrumentum Laboris del Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione, n. 60).
    Cercherò di individuare qui alcune questioni chiave che mi sembrano particolarmente rilevanti alla luce dello sviluppo e dell’uso comune di alcune tecnologie usate normalmente dai nativi digitali.

    Le risposte push

    Michael Fuller, teologo e chimico organico, autore di Atoms and Icons, ha scritto che i teologi possono utilmente guardare alle evoluzioni scientifiche e tecnologiche per capire quali metafore e analogie possano nutrire il pensare teologico.
    E io vorrei partire dalla tecnologia della bussola. C’era una volta la bussola.
    La bussola indica il Nord. Se la bussola non indica il Nord è perché non funziona, e non certo perché non esiste il Nord. E la bussola era una buona metafora tecnologica del senso della vita. Ecco, una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. Come l’ago di una bussola, lui sapeva di essere radicalmente attratto verso una direzione precisa, unica e naturale: il Nord. Se la bussola non indica il Nord è perché non funziona, e non certo perché non esiste il Nord.
    Poi l’uomo, specialmente con la Seconda Guerra Mondiale, ha cominciato ad usare il radar che serve a rilevare e determinare la posizione di oggetti fissi o mobili. Il radar va alla ricerca del suo target e implica una apertura indiscriminata anche al più blando segnale, non l’indicazione di una direzione precisa. E così anche l’uomo ha cominciato ad andare alla ricerca di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di riconoscimento, capace di far sentire la sua voce.
    L’espressione di questa logica è la domanda: «Dio, dove sei?».
    Da qui anche l’attesa di Godot e tante pagine della grande letteratura del Novecento, ad esempio. L’uomo era inteso come un «uditore della parola» – per usare una celebre espressione del teologo Karl Rahner, che implicitamente ha dato forma teologica alla metafora tecnologica del radar – alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo. E oggi? Vale ancora questa immagine? In realtà, sebbene sempre vive e vere, esse per i giovani reggono meno.
    L’immagine che oggi è più presente è quella dell’uomo che si sente smarrito se il suo cellulare non ha campo o se il suo device tecnologico (computer, tablet o smartphone) non può accedere a qualche forma di connessione di rete wireless. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale, oggi invece siamo noi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati possano passare.
    L’uomo oggi più che cercare segnali, è abituato a cercare di essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente cercali. L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push: quando un dato è disponibile (una mail, ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di ricezione.
    L’uomo da bussola prima e radar poi si sta trasformando, dunque, in un decoder, cioè un sistema di accesso e di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andarle a cercare. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload. Il problema oggi non è reperire il messaggio di senso ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo.
    Prima vengono le risposte ed è da queste che l’uomo è chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche. Allora è importante oggi non tanto dare risposte. Tutti danno risposte! “The teacher doesn’t need to give any answers because answers are everywhere” (Sugata Mitra, professore di Educational Technology alla Newcastle University). Oggi è importante riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali.

    I contenuti «orbitali»

    La prima conseguenza è che la domanda religiosa in realtà si sta trasformando in un confronto tra risposte plausibili e soggettivamente significative. Prima vengono le risposte ed è da queste che l’uomo a chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche.
    La seconda discende dalla prima: la Rete plasma il modo di intendere i contenuti di senso che diventano orbital contents, contenuti che orbitano attorno a chi li cerca o li trova. Quante volte navigando ci siamo imbattuti in testi o video interessanti senza avere il tempo di poterne fruire? Per salvarli dall’oblio bisognava salvarne l’indirizzo web. Adesso invece si stanno diffondendo applicazioni quali Instapaper e Pocket. Sono le più note tra le cosiddette bookmarklet apps che stanno prendendo posto nei nostri tablets e smartphones. Con queste applicazioni è possibile salvare tutto ciò che ci interessa in un unico luogo, in un formato standard e in modo da accedervi in qualunque momento, anche senza copertura di Rete. Dunque: appena si trova un contenuto interessante lo si fa «orbitare» attorno a se stessi, del tutto astratto dal suo contesto proprio, salvandolo grazie a queste applicazioni.
    La logica di Instapaper e Pocket consiste nel fatto che i dati frutto delle mie ricerche vengono «pescati» dalla Rete, selezionati per interesse, privati dalle loro radici e fatti convergere su una piattaforma che li conserva in modo che sia possibile rinviare la lettura a un momento successivo. Che un articolo sia Sul New York Times o sul blog di un mio amico alla fine l’esperienza di lettura è identica.
    Così si sviluppa il senso che la conoscenza è chiamata ad orbitare attorno al soggetto in maniera a lui del tutto funzionale e orientata. È il crollo del palinsesto e delle gerarchie.
    E questo è il motivo, ad esempio, della crisi di MTV o meglio della sua trasformazione da quel che era – cioè emittente di una notevole quantità di video musicali introdotti da VJ – in emittente di reality show e serie televisive indirizzate soprattutto al target adolescenziale e ai giovani adulti. I giovani fruiscono la musica da internet e non ci sono più ragioni che la fruiscano dalla tv.
    Se voglio vedere qualcosa oggi la cerco e la trovo e ne fruisco quando mi serve. In tal modo la TV diventa spesso un’altra cosa. La si tiene accesa mentre si fa altro: mentre si parla, si gioca, si legge. La TV è un rumore di fondo, il brusio del mondo. La si lascia parlare… Raramente oggi trova posto nelle camere dei ragazzi.
    Oggi il vedere implica la selezione, e implica la possibilità del commento e dell’interazione.
    La fede sembra partecipare di questa logica che è un modo per gestire la complessità. I palinsesti sono sostituiti dalle ricerche personali e dai contenuti orbitali. La conoscenza è disembodied, eradicata da un contesto specifico. È “aggregata” da fonti diverse che sono tutte parificate. È il caso del successo della tecnologia RSS, cioè la Really Simple Syndication, uno dei più popolari formati per la distribuzione di contenuti Web, della cui prima specifica fu autore Aaron Swartz, morto suicida l’11 gennaio scorso all’età di 27 anni.
    D’altra parte il salto del palinsesto è anche il salto delle appartenenze strutturate. La comunicazione mobile si sostituisce a quella catodica e a quella del mezzo come container dell’informazione, come i giornali. La società dei giovani nativi digitali non può più essere considerata come un «luogo» che contiene e plasma gli individui che vi risiedono. I giovani, infatti, non coincidono e non si riconoscono più con le loro appartenenze, siano esse etniche, nazionali o sociali. Il che significa che ne dispongono come un repertorio di risorse simboliche attivabili secondo una logica progettuale essenzialmente self-oriented, appunto, orbitale.
    Un’altra possibilità è invece quella di “embeddare” (incorporare) un contenuto dentro un contesto che gli dà significato e vita e non dentro la scatolacontainer del televisore che funziona per palinsesto. È il caso dei concerti, dove l’esperienza live dà senso al palinsesto, la scaletta. E così è il caso della videoarte.
    Alcuni anni fa era possibile vedere un’esperienza di questo genere nella chiesa di Saint-Eustache a Parigi dove, su uno schermo installato nella navata centrale, il videoartista Bill Viola proiettava una rielaborazione della celebre Visitazione del Pontormo che raffigura la visita di Maria ad Elisabetta. Entrando in chiesa i fedeli si inginocchiavano davanti al video proiettato a velocità bassissima tanto da sembrare un’icona.

    L’ascolto disobbediente

    È possibile riconoscere una tra le espressioni più interessanti dell’uomodecoder nell’ascolto musicale. Andando in giro al mattino è abbastanza comune notare molte persone che vanno al lavoro con gli auricolari connessi a un iPod o a uno qualunque dei vari lettori digitali che hanno reso possibile l’ascolto musicale per strada, in metropolitana, facendo sport, dovunque. Indossare le cuffie è un modo per cambiare il rapporto con l’ambiente che ci circonda mediante l’inserimento di una sorta di «colonna sonora», che a volte rende più gradevole la routine, ma certo introduce una differente modalità di vivere una dimensione importante della vita: l’ascolto.
    Sappiamo bene che l’ascolto ha a che fare direttamente con la fede perché «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17), come leggiamo nella Lettera ai Romani. L’ascolto è il cardine della fede sin dall’invito «Ascolta, Israele!» (Dt 6, 4). La voce di Dio fa appello dunque all’uomo di fede che si è sempre riconosciuto innanzitutto come un «uditore della Parola».
    L’iPod, modificando la modalità dell’ascolto, può modificare la logica dell’ascolto che ha a che fare con la fede. L’ascolto non è più, principalmente, una attività, ma l’avvio di una colonna sonora di tutto quel che facciamo. Non si «ascolta» più: si fanno cose e il nostro fare assume la musica come «sottofondo». Il gesto di prendere un disco, accendere il giradischi, mettere la puntina al suo posto, e tutti i gesti che hanno caratterizzato l’ascolto musicale in passato hanno ceduto il passo al gesto semplicissimo di premere un pulsante, anche senza la necessità di stabilire che cosa ascoltare. Dunque l’ascolto non è più un’azione di «obbedienza» (dal latino ob-audire), ma di «accompagnamento» che dà non senso ma emozione alle cose che si fanno. L’ascolto crea un ambiente più che comunicare un messaggio.
    A questa forma di esperienza va aggiunta una modalità specifica di ascolto musicale, e cioè la modalità shuffle, che ha dato il nome a un particolare tipo di iPod e che permette di ascoltare i brani senza un ordine predefinito. Questa modalità di ascolto sempre di più ci abitua quotidianamente a vivere un ascolto casuale. Infatti spesso l’iPod è caricato con tanta musica della quale non sempre si conosce il titolo o l’autore.
    Un modello di iPod shuffle è dotato di un tasto detto VoiceOver che, premuto durante l’ascolto di una musica che ci piace o che ci colpisce in qualche modo, ce ne rivela il titolo e l’autore. Come si può notare torna qui la logica del decoder. Non si cerca una certa musica: si ascolta e poi, se qualcosa desta la nostra attenzione, ne attiviamo la decodifica. Questa anche la logica del successo delle «Mobile Song ID Services» come Shazam, SoundHound e TuneUp. Insomma: prima si ascolta e poi si capisce cosa si sta ascoltanto, quando qualcosa ci «colpisce».
    Come ascoltare Dio al tempo dell’ascolto mixato, dunque? La fede ex auditu deve fare i conti con una abilità all’ascolto ambientale e shuffle che non prevede, appunto, «tempi di ascolto» specifici, ma un ascolto diffuso, capace di accompagnare la vita dell’uomo più che richiamarlo a una attenzione specifica.
    Occorre dunque imparare ad ascoltare il vangelo come colonna sonora della vita e non solo come messaggio specifico e diretto. La parola di Dio è chiamata a diventare ambiente, magari grazie a forme di preghiera che attingano dalla vita ordinaria la loro forza.
    Una delle conseguenze di questa attitudine spirituale dell’uomo contemporaneo è la necessità di una spiritualità che sappia coniugare sapienza e lifestreaming, flusso della vita.

    La vita: una camera oscura

    Un’altra rivoluzione sta avvenendo nel campo della fotografia. Questa rivoluzione consiste che oggi, grazie agli smartphones, è possibile scattare foto in qualunque istante della vita. I giovani spesso scattano immagini con i loro smartphones. La «macchina fotografica» è obsoleta come oggetto, o meglio è riservata a cultori del click. Il punto è che la fotografia ormai è un gesto democratico e un gesto di condivisione: tutte le apps di social networking permettono di condividere immagini.
    Qual è il senso di questa rivoluzione? Essa consiste nel fatto che la foto perde sempre di più il significato di «memoria» e assume quello di «esperienza». Le «istantanee» costruiscono una narrazione lifestreaming. I giovani sono narratori, costruiscono storie a tasselli. A volte sono puzzle, a volte mosaici. La condivisione in diretta delle fotografie sviluppa un fenomeno di streaming che non è pensato per essere archiviato, indicizzato, memorizzato. Le foto si accavallano, si sostituiscono, man mano che vengono postate in rapida successione. In realtà sembra che si fotografi per «vedere», cioè per «comprendere». Più che creazione di memoria, dunque, si tratta di plasmare l’esperienza. È anche questo un gesto di decodifica delle esperienze.
    Marcel Proust nella sua Recherche scriveva che gli uomini spesso non vedono la loro vita e così il loro passato diviene ingombro di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha «sviluppate». A suo giudizio la letteratura è come una sorta di laboratorio fotografico, una camera oscura nella quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco, oggi le fotografie sono esse stesse «camera oscura» che permette di elaborare i significati.
    Una prova di questo fatto consiste nel fatto che il focus di azione si sposta dallo scatto alla post-produzione, la quale sui device mobili, tra applicazioni e social network, diventa quasi un gioco. Applicare un filtro significa elaborare interiormente un’immagine per adeguarla alla propria visione. E queste immagini dunque dicono noi stessi più di molte parole.
    E non le distruggiamo mai. Le archiviamo. Specialmente quelle che contentono le facce di persone a noi care. Le fotografie sono esseri viventi e noi siamo diventati animisti. Questa è la nostra civiltà delle immagini.
    Come cambierà il modo di dire la fede al tempo delle immagini? Ci sono vari esperimenti a questo proposito: Framing God in all things, Picturing God. E la Chiesa ha un’ampia esperienza del rapporto con la raffigurazione del divino e dei misteri della fede. A questa occorre attingere con intelligenza e gusto.

    Il lifestreaming interattivo

    Tutto il lifestreaming del quale ho parlato è registrato. Di tutto resta traccia. Come tutti ben sappiamo infatti ormai la Rete tiene traccia e memoria di noi. Le foto «taggate», «geolocalizzate», collocate nel tempo esatto in cui sono state condivise sono l’album fotografico live della nostra vita. I nostri tweets o gli updates dello stato su Facebook e i post dei nostri blog conservano i nostri pensieri, ma anche i nostri stati emotivi. Le librerie on line e gli altri negozi tengono traccia dei nostri gusti, delle nostre scelte, dei nostri acquisti e a volte anche dei commenti. I video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita fatto dai nostri video e da quelli che ci piacciono. Infatti lo streaming della nostra vita non è fatto solo di ciò che immettiamo in Rete ma anche di ciò che «gradiamo», da ciò che ci piace, e che segnaliamo agli altri anche grazie al pulsante like ai nostri followers e ai nostri friends.
    L’esperienza condivisa sui social networks è l’opposto di ciò che accadeva ai tempi di Robert Musil che scriveva: «la probabilità di apprendere dal giornale una vicenda straordinaria è molto maggiore di quella di viverla personalmente». Oggi invece i new media offrono l’opportunità di rendere più significativa l’esperienza vissuta soggettivamente proprio grazie alla pubblicazione e alla condivisione in una rete di relazioni. Le notizie dei giornali sono invece irrelate a me e dunque, in un certo senso, finiscono per essere percepite come meno «straordinarie» o comunque meno interessanti.
    La rete è una opportunità perché narrare in ogni caso è restituire i soggetti della conoscenza alla densità simbolica ed esperienziale del mondo. E oggi è molto alimentato il bisogno di narrazione all’interno di legami e relazioni. La narrazione di rete può essere, sì, individualistica e autoreferenziale, ma può essere anche polifonica e aperta.
    Interessante a questo proposito la possibilità di aggregare materiali condivisi su differenti social networks su una piattaforma come Storify che permette l’interconnessione con Twitter, Facebook, Flickr, Youtube,… e le apre alla condivisione. Alla base è la consapevolezza che ciascuno di noi è un living link.
    L’interattività è la cifra radicale di questo lifestreaming.

    La sfida dell’interiorità al tempo dell’interattività

    Allora qual è la grande sfida? Lo dicevo prima: Trovare «un centro di gravità permanente» che non costringa a cambiare continuamente idea sulle cose, sulla gente», cantava Franco Battiato nel lontano 1982. Una grande sfida riguarda l’esperienza dell’interiorità che l’uomo di oggi, specialmente se giovane, è in grado di compiere. L’uomo che ha una certa abitudine all’esperienza di internet infatti appare più pronto all’interazione che all’interiorizzazione. E generalmente «interiorità» è sinonimo di profondità, mentre «interattività» è spesso sinonimo di superficialità. Saremo condannati alla superficialità? È possibile coniugare profondità e interattività? La sfida è di grande portata.
    Certamente occorre salvaguardare spazi che permettano all’interiorità di svilupparsi senza interferenze o «rumori» che distraggano l’uomo dalle sue domande radicali e dal suo bisogno di silenzio e di meditazione. Tuttavia possiamo constatare che l’uomo di oggi, abituato all’interattività, interiorizza le esperienze se è in grado di tessere con esse una relazione viva e non puramente passiva, recettiva. L’uomo di oggi ritiene valide le esperienze nelle quali è richiesta la sua «partecipazione» e il suo coinvolgimento.
    In generale, se l’oggetto di conoscenza non viene tradotto in esperienza di azione da parte del soggetto conoscente, esso gli rimane estraneo, non significativo e diventa banale, estraneo. Aveva ragione Gianbattista Vico quando formulava la linea guida della “scienza nuova”: verum ipsum factum: «la verità è nello stesso fare». È possibile davvero conoscere un oggetto solo da parte di chi ha contribuito a costruirlo, a farlo e vi riconosca gli effetti e le impronte della propria azione.
    Nel web inteso come luogo antropologico non ci sono «profondità» da esplorare ma «nodi» da navigare e connettere tra di loro in maniera fitta. Ciò che appare «superficiale» è solamente il procedere in modo, magari inatteso e non previsto, da un nodo all’altro. La spiritualità dell’uomo contemporaneo è molto sensibile a queste esperienze.
    Lo scrittore Alessandro Baricco ha descritto questa mutazione in atto nella cultura del mondo occidentale in un saggio dal significativo titolo di I barbari.
    All’immagine romantica dell’uomo colto, chino sul libro nella penombra di un salotto con le finestre chiuse, si sostituisce quella del surfer che pattina sul pelo dell’acqua all’inseguimento del senso là dove è vivo in superficie. Dunque: «la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione».
    Quale sarà dunque la spiritualità dei «barbari, la spiritualità di quei nativi digitali il cui modus cogitandi è in fase di «mutazione» a causa del loro abitare nell’ambiente digitale? Conclusione.
    Italo Calvino in un saggio dal titolo Cibernetica e fantasmi notava che il pensiero «fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si dipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato “lo spirito”».
    Ecco per Calvino oggi i cervelli elettronici sono già in grado di «fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza». Quindi al posto di «impalpabili stati psicologici, umbratili paesaggi dell’anima» Calvino afferma che «oggi sentiamo il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata». Calvino ha ragione? La sua tesi è sensata? Se ne potrebbe discutere, forse anche alla luce di quella che Raimondo Lullo chiamava ars magna e che poi Leibniz chiamò ars combinatoria. E tuttavia ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice (ordinateur, ordenador) è proprio il disordine. Ciò che la macchina non produce è il disordine. La macchina ordina. Quindi occorre non lamentarci troppo del disordine perché qui c’è l’eccezione logica dell’uomo sulla macchina.
    Anzi: il nativo digitale spirituale forse è proprio una sorta di hacker, colui che vive la spiritualità come hacking interiore, cioè qualcosa che rompe il sistema e che ne cambia le regole, le visioni abituali, le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso e aprendo il nostro sistema operativo interiore chiuso e spesso considerato come autosufficiente alla trascendenza.

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