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     Lo sport:

    breve excursus storico

    Maria Aiello *


    L’
    approccio storico-umanistico alla realtà sportiva rappresenta una dimensione di cui oggi il mondo dello sport e più in generale la società sentono l’esigenza, perché l’attività sportiva rischia di essere eccessivamente limitata dai forti riferimenti alla tecnica (dalle metodiche di allenamento alle strategie di gara, ai materiali, fino all’uso/abuso di farmaci ) e dall’economia cioè dallo sport come business. Lo sport non può sopravvivere a lungo di pura tecnica e di ricchezza; infatti oggi emergono carenze e contraddizioni nel mondo dello sport che richiedono un approccio valoriale il quale a sua volta esige anche un riferimento alla storia del fenomeno sportivo.

    Una riflessione storica quindi può essere un valido contributo per una cultura dello sport: già nel mondo greco infatti lo sport nasce e si sviluppa in stretta connessione con la cultura. Il fenomeno sportivo nella storia si è rivelato non solo condizionato dalla cultura del tempo ma anche capace di costruire valori che dallo sport transitano alla società, valori quali l’uguaglianza, la fratellanza e la lealtà. L’esperienza greca come quella medievale li propongono almeno in parte. Lo sport è, anzi è sempre stato per sua stessa natura, rispetto delle regole ma oltre a questo nell’antichità vigeva l’idea che attraverso lo sport dovesse recuperarsi un’esperienza di comunità umana (si pensi alla concezione di “comunità greca” che emergeva dai Giochi Olimpici che erano giochi panellenici, cioè di tutti i greci). Tuttavia si possono riscontrare nella concezione greca dei limiti, infatti lo sport era un’attività riservata ai greci maschi, agli aristocratici e ai greci fisicamente perfetti.
    Alla fine del XIX secolo, i valori promossi dallo sport nell’antichità verranno riproposti nella carta olimpica senza i pregiudizi del passato. Infatti viene riconosciuto il carattere ecumenico dello sport, asserendo che tutti possono accedervi. A quel tempo come pure nel nostro, i valori di uguaglianza, fratellanza e lealtà non erano pienamente acquisiti dalla società ed il movimento olimpico proponendoli ne favorì la loro diffusione in un contesto dove lo sport subiva anche la pressione di una mentalità comune spesso elitaria se non addirittura razzista. Lo stesso De Coubertin non era immune da questi pregiudizi: è nota infatti la sua avversione per l’agonismo femminile, essendo persuaso che la diversa fisiologia della donna rispetto all’uomo e il ruolo che essa ricopriva nella società non la rendessero idonea all’attività sportiva.
    Alla luce di queste riflessioni si rende necessario recuperare la valenza formativa dello sport, che non deve esser considerato solo in relazione del raggiungimento della vittoria o del superamento di un record, ma soprattutto nel suo significato educativo e formativo. Già nelle Poleis greche lo sport – usiamo la parola sport per comodità espositiva, ma dovremmo parlare di agone, di confronto – attribuiva un ruolo rilevante alla cosiddetta paideia ginnica, cioè a quella attività proposta a tutti i giovani, o comunque a tutti i giovani aristocratici, finalizzata non solo al conseguimento di eccezionali risultati agonistici, ma soprattutto ad una compiuta e completa formazione umana. Sebbene un aspetto importante della paideia ginnica fosse anche l’addestramento militare, questa (la paideia) si prefiggeva come obiettivo generale la formazione del cittadino sottolineando uno stretto legame tra armonia fisica e virtù (aretè) secondo la concezione della kalokagathia, cioè il perfetto equilibrio tra bellezza fisica e spirituale.
    Platone enfatizzò il carattere educativo dell’attività fisica ma criticò, come più tardi fece anche Aristotele, l’agonismo esasperato in nome del concetto di “misura”, concetto che si configurerà poi in Aristotele come giusto mezzo. Senza dubbio il ruolo primario nel percorso educativo della persona umana spettava alla filosofia, tuttavia i due filosofi ponevano lo sport alla base non solo della formazione del guerriero, ma anche della formazione del cittadino e, dunque, più in generale della formazione dell’uomo, poiché nell’antica Grecia il binomio uomo-cittadino era indissolubile.
    La fine dell’esperienza della Polis greca non segnerà la fine del binomio educazione-sport, anzi nell’ellenismo il luogo dello sport giovanile, ossia il ginnasio, diventerà un luogo di più generale formazione intellettuale: piste per l’atletica e biblioteche convivranno negli stessi spazi con pari dignità, secondo un modello che poi ritroveremo nei campus universitari anglosassoni.
    Anche a Roma, a fianco di manifestazioni cruente come i giochi circensi, rileviamo la presenza di associazioni giovanili che proponevano attività sportive come mezzi di formazione. Purtroppo il modello augusteo dei collegia iuvenum (associazioni giovanili) conoscerà un profondo declino alla fine dell’età imperiale.
    Pertanto, prima di continuare questo excursus storico vorrei fare una precisazione: la letteratura storiografica è solita asserire che alla fine dell’antichità lo sport scompare completamente, e dunque, a maggior ragione, che scompare la connessione tra educazione e attività sportiva. È per questo motivo che la rinascita dell’olimpismo alla fine del XIX secolo è stata considerata da molti come la ripresa di una esperienza antica ideale dopo molti secoli di buio. Personalmente ritengo che una tale interpretazione sia riduttiva, nonostante sia molto diffusa. Lo sport non ha mai conosciuto interruzione nella storia e ci sono elementi nel corso dei secoli che lo dimostrano. Alcune caratteristiche del fenomeno sportivo sono state sempre presenti, penso allo spirito di competizione, al superamento di un ostacolo, al raggiungimento di un risultato e allo spirito ludico, nonché allo sforzo fisico; questi dati confermano una certa continuità storica. Senza dubbio, alla fine del mondo classico molte pratiche sportive conoscono un netto declino (a questo proposito ricordiamo la sospensione dei giochi olimpici sul finire del IV secolo), ed è altrettanto vero che, anche a livello culturale, all’apprezzamento che il mondo antico aveva dimostrato verso lo sport si sostituisce un atteggiamento addirittura ostile, motivato non solo dalla corruzione dello sport nel periodo tardo antico – corruzione che si manifestava in un eccesso di brutalità e di spettacolarizzazione –, ma anche dal progressivo radicamento di concezioni che valorizzavano la dimensione spirituale a discapito di tutto ciò che riguardava la dimensione fisica, materiale. Tuttavia la cultura sportiva non smise di trasmettere il suo patrimonio. Significativo il fatto che la figura del martire verrà accostata a quella dell’atleta, e la cavalleria, affermatasi nell’VIII secolo, sarà sin dalla sua nascita contraddistinta da valori quali la lealtà, la protezione dei deboli, la difesa della fede. Sarà proprio la cavalleria il luogo di formazione per i giovani aristocratici, soprattutto per i cadetti, ai quali dai sette anni di età in poi verrà rivolto un percorso formativo spirituale e fisico, che rievoca molto la paideia ginnica aristotelica, anche se sarà marcata l’impronta di addestramento militare.
    La Chiesa criticherà l’esperienza medievale dei tornei a causa dei loro aspetti cruenti, tuttavia rimarrà salda l’idea che lo sport, a determinate condizioni, possa essere strumento utile per la formazione integrale dell’uomo. Nel tardo medioevo si svilupperanno importanti esperienze in questo senso, ricordiamo la famosa “Ca’ Zoiosa”, casa gioiosa, di Vittorino Da Feltre, dove secondo il modello dell’antico ginnasio, i giovani aristocratici potevano crescere armoniosamente, coniugando l’esercizio fisico praticato all’aperto (la corsa, il salto, il nuoto e svariati giochi) con lo studio; ricordiamo anche il Contubernium, sorto a Ferrara, luogo di vita comune nel quale i giovani desiderosi di intraprendere le carriere pubbliche venivano preparati attraverso lo studio e l’attività sportiva. Dunque, la convinzione dell’esistenza di uno stretto legame tra sport ed educazione non verrà mai meno e troverà crescente fortuna soprattutto a partire dal cinquecento. La ritroveremo, infatti, negli “Essais” di Montaigne, nei quali il pensatore propone un metodo formativo, fondato su una visione dell’individuo come unità di anima e corpo, che coinvolge allo stesso modo l’educazione fisica, intellettuale e morale; e, ancora, ne “I pensieri sull’educazione” di Locke del 1693, nei quali l’attività sportiva riveste un’importanza primaria all’interno della formazione del gentleman.
    Più tardi, nell’Inghilterra del 1700, sarà proprio sulla base di queste esperienze che si realizzerà una forte compenetrazione tra scuola e sport. Le public school, che nonostante il nome erano istituzioni private volte alla formazione della classe dirigente, erano improntate a rigidi schemi con i quali i giovani venivano avviati ad un’attività sportiva intensissima, attraverso la pratica di giochi popolari, che all’epoca erano privi di regole e dunque spesso causa di lesioni personali; da qui l’esigenza di una loro progressiva regolamentazione che darà luogo, nell’ 800, ad un assetto disciplinare di buona parte degli sport contemporanei. E così nel XIX secolo si svilupperà in Europa, in particolare in Inghilterra, una cultura sportiva dai tratti originali, che darà una nuova definizione di sport.
    Nel XIX secolo si costituiscono le prime federazioni sportive; vengono introdotte molte innovazioni tecniche, come ad esempio le porte per il calcio e l’uso dei cronometri; nascono i giornali sportivi di massa; appaiono i primi manuali pratici per la preparazione atletica; in altre parole comincia a delinearsi lo sport modernamente inteso e verrà riconosciuta come condizione essenziale la partecipazione dei soli dilettanti, in nome di un principio fondamentale che sarà una novità di questa epoca: l’autonomia dello sport. Ne fu convinto assertore Thomas Arnold, rettore del collegio di Rugby, il quale fece affidamento sullo sport per promuovere nei giovani il principio del fair play, lo spirito di competizione e allo stesso tempo lo spirito di collaborazione. La sua esperienza, e in più generale l’esperienza del modello inglese, influenzerà il barone De Coubertin nell’istituzione del moderno movimento olimpico.
    Tuttavia nel XX secolo accanto a queste esperienze di forte compenetrazione tra sport, valori ed educazione, si sono manifestate anche linee opposte, secondo una logica di asservimento dello sport a concezioni e ad obiettivi lontani da una vera e propria formazione umana, se non addirittura inquietanti. Verso la metà del XX secolo emerge, infatti, la tendenza di molti regimi di servirsi dello sport come mezzo di controllo delle masse e come strumento della politica di potenza, esempio eclatante sono i giochi di Berlino del 1936. Il movimento olimpico era sorto, come ho asserito prima, con l’idea di una totale autonomia dello sport dalla politica, autonomia resa ben evidente anche da una netta distinzione tra diritto sportivo e diritto ordinario: infatti si ricorre al diritto ordinario solo quando si presentano fattispecie giuridiche generali che toccano il mondo dello sport, ma non vi appartengono in via esclusiva (ad es. la tutela della salute negli atleti), mentre nelle materie prettamente tecniche (ad es. disciplina delle gare) si ricorre sempre e solo al diritto sportivo.
    Il Fascismo, il Nazismo e, più tardi, il Socialismo reale propugneranno invece una pericolosa subordinazione dello sport alla politica. Lo sport non solo si rivelerà incapace di controllare gli eventi, come invece accadeva nell’antica Grecia con la tregua olimpica, la cosiddetta ekekeiria, che stabiliva l’astensione dalle armi durante i giochi, ma addirittura i giochi olimpici saranno condizionati dai conflitti stessi.
    Oggi però il problema del controllo politico è meno rilevante. Assume invece sempre maggiore importanza il condizionamento economico. Il legame tra sport, economia e professionismo è un legame antico, basti pensare alle sponsorizzazioni della Grecia, dove ricchi personaggi investivano ingenti risorse con finalità chiaramente pubblicitarie o politiche. Anche in quell’epoca, dunque, non vi era incompatibilità tra condizionamento economico e sport; il professionismo non solo era accettato ma riconosciuto e comunemente praticato. D’altra parte, non mancarono professionisti di umile estrazione che spiccarono nel panorama agonistico antico: Milone di Crotone e Glauco di Caristo erano professionisti secondo l’odierna accezione del termine. Attualmente lo sport si delinea sempre più come business con il rischio di uno stravolgimento degli stessi principi sportivi. Basti ricordare che i giochi di Atlanta del 1996 furono voluti dalla Coca Cola, o che il mondo pubblicitario vorrebbe strutturate le partite di calcio in quattro tempi di gara per meglio collocare gli spot.
    Inoltre, il peso crescente che ha assunto il fattore economico, determinando la pratica di un agonismo esasperato, è divenuto causa di un altro fattore: il doping. In realtà il doping era già presente nel mondo antico, in cui molti atleti assumevano determinati alimenti, come ad esempio una specifica qualità di funghi, per migliorare le prestazioni. Tuttavia solo nel XX secolo questo fenomeno si configura come una delle problematiche più gravi del mondo dello sport, un esempio clamoroso è quello degli atleti della Germania dell’est che, alcuni decenni or sono, misero a repentaglio persino la propria salute. Oggi, purtroppo, non vi è disciplina sportiva a proposito della quale non sussistano dubbi circa la regolarità delle gare, l’onestà dei vincitori, come anche la stessa salute degli atleti. Persino lo sport amatoriale e talvolta lo sport dei disabili non sono estranei a questa problematica.
    Lo sport contemporaneo, anzitutto sul piano dei valori fondanti, appare dunque in crisi. Il rischio di una sua degenerazione, forse simile a quella del mondo tardo antico con la sua violenza ed esasperata spettacolarizzazione, non è un’idea puramente teorica. Tuttavia si rileva a più livelli, dal movimento olimpico ai governi nazionali, una qualche consapevolezza dei problemi e si percepisce anche il desiderio di molti di rifondare uno sport nuovo come tempio di valori e come strumento per l’educazione dei giovani e, più in generale, della persona in quanto tale. Ci sono stati dei passi concreti in questo senso, come ad esempio la definizione, nel 2003, di un Codice mondiale anti-doping da parte del Wada, un’organizzazione indipendente finanziata dal CIO e dagli Stati aderenti (circa 150).
    Decisivo è, inoltre, il ruolo che nel XX secolo ha assunto e continua ad assumere il Magistero della Chiesa. L’interesse della Chiesa verso l’attività sportiva risale agli albori del Cristianesimo: già San Paolo, nella lettera ai Filippesi, adotta la metafora della “corsa verso la meta”, rappresentata dal Regno dei Cieli. Anche i Padri della Chiesa ricorrono spesso alle figure della lotta, della fatica, della vittoria come immagini della vita cristiana e, infine, nell’arte catacombale paleocristiana troviamo raffigurato il martire come atleta di Cristo. La Chiesa, la cui riflessione sul mondo dello sport è stata variabile lungo la storia in relazione al variare della cultura e della società, ha mostrato nel XX secolo un’attenzione più sistematica all’evoluzione del fenomeno sportivo, introducendovi un dato fondamentale: la dimensione etica. Ora osservando questo atteggiamento in una prospettiva storica indubbiamente emerge una certa discontinuità, nel Medioevo infatti la Chiesa assunse spesso un atteggiamento ostile verso l’attività agonistica, atteggiamento motivato dalla svalutazione del corpo che l’accompagnava; e addirittura arrivò a condannare determinate pratiche sportive, come ad esempio i tornei e i duelli, che erano fondati spesso sull’odio e sul disprezzo per la vita umana.
    Il compianto Pontefice Giovanni Paolo II, sportivo di comprovata esperienza, ha mostrato in questo ambito una straordinaria apertura dando una lettura moderna del fenomeno sportivo. Egli ne ha sottolineato l’aspetto solidale – attraverso il Giubileo degli sportivi, l’Anno del disabile, ecc... –, ha rilevato come valore inscindibile dalla pratica sportiva la dignità del corpo e ha additato come obiettivo una nuova civiltà dell’amore e della fraternità. Certo, questi principi dovrebbero tradursi in iniziative concrete capaci di arrestare il decadimento del sistema, ma nascono inevitabilmente perplessità e contraddizioni. Per fare un esempio è ancora vivo il dibattito circa la disposizione delle gare la domenica, giorno di festa cristiana. Oggi l’esigenza, quindi, è proprio quella di tradurre le enunciazioni di principio del Magistero, così come pure quelle della Carta olimpica – lealtà, uguaglianza, unione tra i popoli, fratellanza etc. – in regole, e qui lo sport chiama in causa il diritto. È necessario poi che dalla normativa si passi all’azione, per sciogliere le contraddizioni esistenti tra economia e valori, tra agonismo e lealtà, tra professionismo e tutela della salute. Non mi riferisco quindi solo agli sport negli oratori, che hanno senza dubbio una importanza storica rilevante e una forte valenza formativa per i giovani, ma mi riferisco, più in generale, alla necessità di restituire al mondo dello sport quei valori che da una parte, sono tradizionalmente propri dello sport e dall’altra, conformi alla dottrina cristiana. A questo proposito mi permetto di esprimere l’auspicio di una evangelizzazione dello sport e anche di una evangelizzazione attraverso lo sport. In merito sarebbe interessante analizzare il modo in cui potrebbero essere valorizzate le potenzialità dei mass media.
    Il mio intento è stato quello di mettere in luce le possibili fecondità di un approccio storico alle problematiche di oggi: la storia è guida per il presente. Tuttavia lo sviluppo della riflessione e dell’azione non possono prescindere né dai rapporti con le organizzazioni sportive, come il CIO, le Federazioni Internazionali, gli enti di promozione sportiva e l’associazionismo in generale, né dalle relazioni con i governi nazionali. E a mio giudizio non va nemmeno trascurato il rapporto con le altre culture, infatti, se da un lato si verifica una globalizzazione dello sport che ne fa un luogo di incontro al di là delle differenti etnie, culture, religioni e lingue, dall’altro però l’universalità del fenomeno sportivo consente anche nella diversità il dialogo. A questo proposito vorrei ricordare il dialogo, nel medioevo, tra i popoli delle rive del mediterraneo, che nonostante la diversità di religione e di tradizioni erano accomunati dallo stesso modo di concepire lo sport e dalla stessa visione del rapporto tra uomo e sport. Espressioni di questo dialogo sono la cavalleria e più ancora la falconeria, che nasce nel mondo islamico ma si diffonde ben presto anche nell’occidente cristiano. In questa prospettiva la riflessione sullo sport e la stessa definizione di risposte adeguate ai problemi attuali, potrebbe essere un’occasione per lo sviluppo di quel dialogo ecumenico che fu centrale nel pontificato di Giovanni Paolo II e che continua ad esserlo nel Pontificato attuale.

    * è stata docente di Storia dello Sport e di Diritto sportivo presso la European School of Economics

    (Seminario di studio, novembre 2005, Pontificio Consiglio per i Laici, sezione Chiesa e sport)


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