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    Il letargo

    del Paese Italia

    Francesco Occhetta

    Nel 2013, «il crollo atteso da molti non c’è stato»; l’anno dopo, nel 2014, il Paese era ancora «scarico, con le ruote a terra». Nel 2015, secondo il Rapporto Censis [1], l’Italia è immersa in un «letargo esistenziale collettivo», dove, invece di alzare lo sguardo verso il futuro, ci si accontenta di vivere alla giornata.
    Il fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, definisce l’Italia «il Paese dello zero virgola» per la sua indecisione a scegliere quale cammino di sviluppo percorrere. Occorre scegliere, altrimenti il rischio è quello descritto dal racconto dei medievali sull’asino di Buridano che, indeciso verso quale balla di fieno andare, morì di fame.
    Il Paese è fermo in un «limbo italico» fatto di «mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone». Nel Rapporto 2015 ci sono però anche segni di speranza: lo stagno che ha caratterizzato le relazioni e il mercato di questi ultimi anni può trasformarsi in un lago di acqua sorgiva, se le esperienze di innovazioni verranno messe a sistema. Il tempo della crisi economica, per esempio, ha fatto emergere il valore della sobrietà, una virtù antica e fuori moda, che ha le sue radici culturali nell’appartenenza alla terra e nell’imprenditorialità artigiana, nello spirito mercantile e nella vocazione al lavoro individuale «fai da te», nella spiritualità e nel volontariato sociale.

    Verso quale sviluppo?

    Il Rapporto paragona il Paese Italia a «una società a bassa propulsione», che preferisce tenere i soldi in tasca (quando li ha). La ricchezza finanziaria del Paese rimane nascosta sotto il materasso, non viene reinvestita ed è sottratta alle politiche di sviluppo. Le famiglie — quelle che se lo possono permettere — investono i loro risparmi in banca o nelle polizze. La loro ricchezza si aggira intorno ai 4.000 miliardi di euro, due volte il debito pubblico. Dall’inizio della crisi, la quota di contanti e depositi bancari è salita dal 23,6% al 30,7%, mentre sono crollate azioni e obbligazioni. Lo stesso vale per gli imprenditori che accumulano risparmi e liquidità senza investire nel sistema. Se una parte di famiglie e di imprese sono titolari di una crescente disponibilità finanziaria (emersa e sommersa), per quale motivo non si riesce a immettere tale ricchezza in circuiti e in politiche di sviluppo? Le famiglie italiane, che nel Paese sono come le formiche nell’ecosistema animale, per la prima volta dall’inizio della crisi hanno accresciuto la propria capacità di spesa. Il risparmio resta «la scialuppa di salvataggio» nel quotidiano, ma 3 milioni di famiglie lo devono consumare per fronteggiare le spese straordinarie.
    I più poveri fanno fatica a curarsi, mentre le famiglie benestanti hanno speso 32 miliardi di euro nella sanità privata.
    Riguardo agli investimenti, il mattone ha ricominciato ad attrarre risorse, anche se i numeri sembrano non dare ragione alla crescita: tra il 2004 e il 2007 nel mercato immobiliare si era superata la soglia delle 800.000 compravendite, negli ultimi quattro anni si è scesi a poco meno della metà. Tuttavia sono indicative «le richieste dei mutui (+94,3% nel periodo gennaio-ottobre 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014) e l’andamento delle transazioni immobiliari (+6,6%), di compravendite di abitazioni nel secondo trimestre del 2015». Molti approfittano per mettere a reddito il mattone: 560.000 italiani — in particolare gli under 40 — gestiscono una struttura per turisti, come case di vacanza o Bed & breakfast, producendo un fatturato di circa 6 miliardi di euro, in buona parte sommerso.
    È la creatività il jolly dello sviluppo: «il primo fattore di riposizionamento dei vincenti è il rapporto con la globalità, profondamente modificato dall’abbattimento delle barriere e dei costi di ingresso grazie al digitale». Le esportazioni hanno raggiunto il 29,6% del Pil e sono cresciute del 4,2%. I produttori di macchine e apparecchiature hanno aumentato di 50,2 miliardi di euro la loro produzione. Il più premiato rimane il settore «agroalimentare, che nell’anno dell’Expo fa il boom di esportazioni (+6,2% nei primi otto mesi del 2015) e riconquista la leadership nel mercato mondiale del vino (con oltre 3 miliardi di export)». Si sono distinti i settori dell’abbigliamento (+1,4% di export nei primi otto mesi dell’anno), della pelletteria (+4,5%), dei mobili (+6,3%) e dei gioielli (+11,8%).
    Il Rapporto rilancia una delle sue tesi storiche e invita a guardare lontano per scommettere sulla creatività e sull’ibridazione. Sono i dati a confermarlo: il settore creativo-culturale ha prodotto un valore di 43 miliardi di prodotti esportati, mentre l’ibridazione di settori e competenze «produce un nuovo stile italiano: il risultato di questa ibridazione è una trasformazione dei settori tradizionali.
    Il design e la moda ne sono l’archetipo (ibridazione di qualità, saper fare artigiano, estetica, brand)». La punta di eccellenza del Paese è il cibo italiano: lo prova, per esempio, la recente quotazione in borsa del Gambero Rosso e, più in generale, la scommessa degli imprenditori del settore di fare sistema con il turismo, le bellezze paesaggistiche e culturali del Paese.

    Il ritratto dei giovani italiani

    Un altro dato incoraggiante è quello del numero di giovani lavoratori autonomi, che è il più alto tra i principali Paesi europei: «Sono 941.000 (nella classe 20-34 anni), seguiti da 849.000 inglesi e 528.000 tedeschi […]. Il 15% dei giovani italiani (16-30 anni) ha intenzione di avviare una start up nei prossimi anni. E sono circa 7.000 i giovanissimi titolari d’impresa in più oggi rispetto al 2009 (+20,4%) in alcuni e ben caratterizzati settori, riscuotendo preziosi risultati sul piano personale e di sistema. Tra i settori più dinamici, un ruolo particolare è svolto dall’area della ristorazione e della ricettività, nella quale operano quasi 20.000 titolari d’impresa al di sotto dei 30 anni (il 9,8% del totale)».
    Ma gli ostacoli non mancano: «Il contesto socio-istituzionale risponde ancora in maniera tradizionale e paternalistica, invece di studiare le risposte giuste e magari fornirle per tempo» [2]. Pesano anche la mancanza di incentivi alla crescita, come per esempio sgravi fiscali e, forse, l’eccessivo investimento nel fragile settore della ristorazione, in cui la competizione sta crescendo.
    Il ritratto dei giovani che dipinge il Censis è ottimista: essi non sono conflittuali, si adattano a situazioni difficili e si accontentano del poco che c’è. Sono iperconnessi, si costruiscono da soli una loro «dieta mediatica», composta dalle pagine on-line, notizie di agenzia, opinioni su Facebook e la lettura di blog che parlano dei loro interessi. Ignorano i mezzi tradizionali del giornalismo classico, ma hanno anticorpi sufficienti per non rimanere intrappolati nella Rete. Nella percentuale di 6 su 10 sono disposti a fare la valigia per migrare, ma molti non dispongono delle risorse economiche per farlo. Non sono ossessionati dal consumo, come lo erano le generazioni che li hanno preceduti: se possono, dividono appartamenti, auto (car-sharing) e uffici. Un ritratto inatteso, ma realistico, mostra i giovani come gli attori sociali concentrati sul presente. Purtroppo quelli che non lavorano e non studiano sono ancora circa due milioni, ma oggi, più che in passato, emergono i giovani che uniscono innovazione con tradizione.

    La tirata di orecchi alla politica

    La politica, secondo il Censis, si è trasformata in «performance delle riforme». Vuole essere percepita come «veloce, efficace, risolutiva.
    Ma resta un deficit di fiducia nei cittadini». I nuovi linguaggi e le nuove forme di comunicazione rivelano il taglio con il passato, ma a credere nei partiti è solamente il 9% degli italiani; il 16% ripone la propria fiducia nel Governo; il 17% nel Parlamento, che è sempre più pilotato dall’esecutivo. La politica nazionale, confinata nei soliti temi interni (le eterne riforme costituzionali del mercato del lavoro e la gestione dell’immigrazione), soffre di una carenza di rappresentanza. L’ingerenza dello Stato sulle politiche delle Autonomie locali ha creato vie parallele di un impegno civico che si disinteressa della politica; i parlamentari, dal canto loro, sempre meno interessati al territorio, vivono il proprio agire politico come una continua rappresentazione delle loro scelte personali, spesso isolate dal contesto generale.
    È l’illusione di gestire il presente, incuranti del futuro che dovrà essere governato da altri. Così i partiti vivono sulla carta; nelle antiche sezioni rimangono appesi i simboli, ma spente le luci, che si accendono solamente per preparare le liste per le elezioni in cui si reclutano gli amici degli amici che spesso considerano la politica come un impiego (per altro ben remunerato) invece che come un servizio. Crescono le liste civiche, per evitare di presentarsi con il simbolo dei partiti: nelle elezioni dei Comuni capoluogo sono raddoppiate dal 2007, e ora raggiungono il 67%. Questa sembra una spinta federalista; in realtà è una scelta antistatalista per non avere nulla a che fare con i partiti tradizionali. Il risultato è il ritorno di un «fai da te» locale, che ha creato una frammentazione dannosa alla vita politica del Paese. Anche la costruzione dell’Europa è vista più come sospetta che come un’opportunità: soltanto il 23% degli italiani (la media europea è del 40%) ritiene che Bruxelles tenga conto degli interessi nazionali.
    Dopo due anni di Governo guidato da Matteo Renzi, il Censis lamenta che le «promesse estenuanti di ripresa», annunciate sui media, narrano una «realtà altra» rispetto a quella che il cittadino vive. La critica più aspra del Censis riguarda il modo di imporsi del Governo con una «nomenclatura troppo accentrata», da cui vengono espulse le voci critiche. La nuova cultura politica premia la fedeltà cieca rispetto al riconoscimento delle competenze e dei meriti. È il decisionismo, che, assorbendo qualsiasi tensione sociale, preoccupa gli studiosi del Censis, e non soltanto loro. L’agenda politica, più che vivere schiacciata sulla cronaca, dovrebbe progettare e riformare a partire dal taglio degli sprechi della pubblica amministrazione. «L’elemento oggi più in crisi è la dialettica socio-politica: non riesce a pensare un progetto generale di sviluppo del Paese a partire dai processi portanti della realtà ed esprime una carenza di élite. Così, la cultura collettiva finisce per restare prigioniera della cronaca (scandali, corruzioni, contraddittorie spinte a fronteggiarli ecc.)».

    Nuove abitudini, lavoro, turismo e integrazione

    Cambiano anche le abitudini degli italiani. Dal Rapporto si viene a sapere, ad esempio, che sono 15 milioni quelli che fanno acquisti via internet; 2,7 milioni fanno la spesa on-line, mentre l’home banking è utilizzato dal 46,2% degli utenti del web. Il successo della sharing economy indica i nuovi stili di consumo: nell’ultimo anno il 4% degli italiani (circa 2 milioni) ha utilizzato il car-sharing, che tra i giovani sale all’8,4%.
    Tuttavia i cambiamenti più diffusi nelle città — afferma il Rapporto — in questi ultimi anni vanno ricercati nei «piani terra». Tra il 2009 e il 2015 i negozi di ferramenta si sono ridotti dell’11,2%, quelli di abbigliamento dell’11%, le librerie del 10,8%, le macellerie del 10,5%, i negozi di calzature del 9,9%, quelli di articoli sportivi dell’8,7%. Sono invece aumentati i takeaway (37%), i ristoranti (15,5%), i bar (10%), le gelaterie e le pasticcerie (8,2%), perché richiedono un investimento di capitale minimo per avviarli. Gode di buona salute anche il settore turistico: nel 2015 l’Italia è stata visitata da 55 milioni di turisti, di cui 51,7 milioni di stranieri.
    Con l’entrata in vigore del Jobs Act l’occupazione è aumentata di 204.000 unità; tuttavia mancano ancora 551.000 posti di lavoro per raggiungere gli occupati del 2008, quando la disoccupazione era al 6,7%, mentre nel 2015 è pari all’11,9%. Anche l’occupazione femminile è cresciuta di 64.000 posti di lavoro in sei anni. D’altra parte, se «nel 2008 i lavoratori più anziani (55-64 anni) erano poco meno di 2,5 milioni, nel 2014 erano diventati 3,5 milioni e continuano a crescere, con un aumento di 91.000 unità nei primi sei mesi dell’anno».
    Le imprese esportatrici di beni sono attualmente circa 212.000; trasmettono all’estero un’idea dell’Italia legata ai prodotti di alta qualità e a politiche di marchio efficaci. Va però segnalata — sottolinea il Rapporto — la scarsa incidenza, in termini di valore esportato, della pur massiccia partecipazione delle microimprese. La maggior parte degli operatori (il 64,2% del totale) si colloca a un basso livello di valore esportato: sotto i 75.000 euro.
    Gli immigrati che vivono in Italia, recentemente definiti «i nuovi italiani», «inseguono una traiettoria verso la condizione di ceto medio». Tra il 2008 e il 2014, i titolari di imprese stranieri sono aumentati del 31,5%, soprattutto nel commercio e nelle costruzioni.
    Il Censis sembra rassicurare dalle paure, e lo fa con i numeri: da gennaio a fine settembre 2015 i migranti sbarcati in Italia sono stati 132.071, il 10% in meno rispetto all’anno precedente. «Lo sforzo delle istituzioni per ampliare la rete dell’accoglienza è testimoniato dal numero di posti più che quadruplicati in due anni: dai 22.000 del 2013, concentrati soprattutto al Sud, ai 98.000 del settembre 2015, distribuiti in tutte le regioni. Ma l’integrazione è un processo che, se certamente va accompagnato dall’alto, si costruisce nella fisiologia dei comportamenti quotidiani. Il 66% dei giovani italiani di 18-34 anni si dichiara favorevole ad accogliere nel nostro Paese le persone che fuggono da guerre e miseria, mentre tra gli anziani la percentuale scende al 37,2%».
    È la qualità dell’integrazione che rimane uno dei temi più caldi per la società italiana. La riflessione di Antonio Polito, pubblicata dal Corriere della Sera il 6 dicembre scorso, lo dimostra nella sua drammaticità. Egli racconta l’incomunicabilità che c’è all’interno di una classe dell’Istituto tecnico commerciale «Schiapparelli» di Milano, dove gli alunni sono stati chiamati a parlare dell’Isis: «Di fronte ai giovani studenti musulmani, che rifiutavano di discutere qualsiasi verità sull’Islam che non fosse contenuta nel Corano, perché nel Corano c’è tutta la verità, i giovani italiani tacevano, segregandosi a loro volta, magari perché ignari di ciò che è scritto nel Corano, ma forse anche perché dubbiosi su che cosa sia la verità. Non si può biasimarli. La nostra cultura, i nostri intellettuali, i nostri media, hanno da tempo perso interesse alla verità. Siamo disposti ad accettarne molteplici, spesso contraddittorie, e sempre relative. Mentre a chi cresce in una famiglia islamica viene insegnato che la verità è una ed è rivelata, una volta e per sempre, nel Corano. Al bisogno di senso della vita rispondono con un Assoluto, qualcosa che mal si concilia col dibattito in classe. Rifiutano il terrorismo, ma rifiutano anche di parlarne con noi. I nostri ragazzi rifiutano l’Assoluto, ma non sanno spiegare loro perché». Il risveglio dal letargo della società italiana deve ripartire dalla ricostruzione di un’opinione pubblica capace di un confronto fecondo tra le civiltà, «in cui si possano difendere le proprie convinzioni perché si conoscono quelle degli altri». È sull’impegno culturale che è urgente investire forze e preparare cittadini. L’argine rimane la scuola, l’unico luogo nel quale ci si può scontrare senza combattersi.
    In controluce, il Censis descrive la pratica religiosa dei cittadini della Capitale. Per i cattolici romani, la famiglia resta un valore: l’80,3% delle coppie coniugate hanno scelto il rito religioso (la percentuale sale all’85,5% tra i cattolici), il 19,7% invece ha optato per quello civile. Per il 34,4% dei romani la famiglia costituisce il nucleo fondamentale della società. È ancora molto diffusa la Prima Comunione — approvata dal 96,2% dei genitori cattolici e dal 31,3% non cattolico —; la Messa domenicale è considerata il culmine della vita cristiana dal 30,1% dei cattolici, mentre per il 26,6% è un’esperienza che aiuta a riflettere, per il 20,1% è una pratica di condivisione necessaria alla comunità dei credenti, e solo per l’11,5% è un precetto poco significativo. Sono ancora molti a conservare le antiche tradizioni: il 90,8% dei romani cattolici a Natale prepara l’albero, il 70% il presepe, il 51,1% va alla Messa di mezzanotte [3]. Papa Francesco rimane il leader mondiale più stimato dagli italiani; tuttavia, più che osannato, andrebbe ascoltato nelle sue affermazioni di giustizia sociale e di sviluppo sociale.

    * * *

    Durante la presentazione del Rapporto, Giuseppe De Rita, con l’ironia che lo caratterizza, ha raccontato che, «se si va in giro a chiedere come va, le persone rispondono: “Male. Non ho soldi, non ho lavoro, mia moglie mi tradisce”. Ma se s’insiste domandando: “E il resto?”. Il resto va bene». È «il resto» che regge il Paese, ma questo non può bastare. La fotografia scattata dal Censis, che descrive una società rassegnata anche se non umiliata, mostra l’incapacità a progettare il futuro. Quando a prevalere è «l’interesse particolare» a scapito dell’unità di interessi, si accrescono le «disuguaglianze» con una «caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza» che nel tempo l’hanno garantita.
    È per questa ragione che De Rita si è chiesto che cosa resterà del modello occidentale nel mondo globalizzato. «Il policentrismo di tanti diversi sviluppi e la crescita faticosa di una poliarchia. Nella nostra storia, il resto del mito della grande industria e dei settori avanzati è stato l’economia sommersa e lo sviluppo del lavoro autonomo.
    Il resto del mito dell’organizzazione complessa e del fordismo è stato la piccola impresa e la professionalizzazione molecolare.
    Il resto della lotta di classe nella grande fabbrica è stato la lunga deriva della cetomedizzazione. Il resto dell’attenzione all’egemonia della classe dirigente è stato la fungaia dei soggetti intermedi e la cultura dell’accompagnamento. Il resto del primato della metropoli è stato il localismo dei distretti e dei borghi. Il resto della spensierata stagione del consumismo (del consumo come status e della ricercatezza dei consumi) è la medietà del consumatore sobrio. Il resto della lunga stagione del primato delle ideologie è oggi l’empirismo continuato della società che evolve. E i processi di sviluppo reale del Paese qui descritti sono il resto delle tante discussioni sulla guerra degli ultimi giorni».
    In mancanza d’altro, si è costretti a ripartire dal «resto» appena descritto, sul quale il corpo sociale sta investendo e dove la politica può ricollegarsi ai mondi vitali sociali. Ormai è la società a trainare la politica, e non viceversa. I giovani si interpretano e inventano; le famiglie risparmiano; il made in Italy si espande; si ha la silenziosa e resiliente integrazione degli stranieri che svolgono lavori umili rifiutati dagli italiani. Sono queste le voci da ascoltare; la loro spinta particolare include un progetto generale di sviluppo del Paese, una nuova cultura progettuale e potenziali soggetti in grado di governare il sistema. Ma tutto questo va reso progetto politico.

    NOTE

    1. Cfr Censis, 49° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2015, Roma, Franco Angeli, 2015. Le citazioni dirette sono tratte dal Rapporto.
    2. D. Di Vico, «Il record degli imprenditori giovani: ci salveranno loro?», in Corriere della Sera, 5 dicembre 2015, 13.
    3. G. Serao, «Cattolici in città, a messa sei su dieci», in la Repubblica, 8 luglio 2015: https://ricerca.repubblica.it/ (La Civiltà Cattolica 2016 I 58-66 | 3973 - 9 gennaio 2016)


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