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    I rischi di un'era in cui

    non si vive ma si digita

    Intervista a Byong-chul Han

    Carlo Pizzati


    Nel nuovo libro, "Le non cose" spiega perché stiamo rinunciando all’Altro e alla Storia, invita a coltivare l’arte del silenzio e critica l’idea di post-umano: “La memoria dei computer è additiva, la nostra è sempre narrativa”.
    Il filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-chul Han torna a diradare le nebbie dello stordimento contemporaneo con Le non cose – come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi). Con la limpidezza di una prosa profonda che non perde mai la precisione Han smonta pezzo per pezzo l’illusione del presente, la liquefazione del mondo tangibile nelle non cose del digitale e il cambiamento del nostro rapporto con il possesso, morfizzato in accesso a informazioni che ci deformano. Tra smartphone e selfie, ci abbandoniamo a un’intelligenza artificiale che può far ben poco per noi. L’unica salvezza è ritrovare l’Altro e la strada della contemplazione, nel silenzio della beatitudine.

    La digitalizzazione «disincarna il mondo», bandendo i nostri ricordi. Chi difende la vita digitalizzata sostiene invece che la nostra memoria si è trasferita nei server, dov’è facilmente consultabile. Perché non sposa questa visione post-umana?
    L’approccio post-umano si fonda su un errore. La memoria non è costituita dall’immagazzinamento di dati e informazioni. Tramite i ricordi ci raccontiamo piuttosto una storia. Ciò significa che la memoria non è additiva, bensì narrativa. Tale narratività distingue la memoria dai medium digitali di immagazzinamento, che operano solo in chiave additiva. Le tracce mnemoniche sono costantemente sottoposte a un processo di riordino e trascrizione. S’intrecciano in maniera sempre nuova, riferendosi le une alle altre. Così ci raccontiamo ogni volta una storia diversa. La memoria è un tessuto narrativo. Le tracce mnemoniche sono vive, il dispositivo che salva i dati è morto. I dati immagazzinati restano sempre uguali a sé stessi. Sono morti. Le informazioni rendono ogni cosa trasparente. Ma solo ciò che è morto è trasparente. Le cose vive non si lasciano trasformare in dati e informazioni. Ecco perché anche Nietzsche eleva l’ignoranza a nucleo primario della vita. Non basta intuire che l’essere umano e l’animale vivono nell’ignoranza: dobbiamo anche riscoprire la volontà di non sapere, imparando a tollerare tale mancanza di trasparenza. L’ignoranza è quindi la precondizione affinché ciò che è vivo si conservi e prosperi. I post-umanisti non sanno cos’è la VITA.

    Nell’infosfera siamo tutti infomani e datasexuals: feticisti di informazioni che non comprendiamo, cullati dagli smartphone in una beata stupidità. In che modo le informazioni deformano la verità?
    Non bastano le informazioni a spiegare il mondo. Oggi siamo ben informati, eppure ci manca il senso dell’orientamento. Ci approcciamo alle informazioni col sospetto che le cose possano anche stare diversamente. Ecco allora che l’informazione si accompagna una sfiducia di fondo. In questo si distingue dalla verità. Più veniamo messi dinanzi a svariate informazioni, più la sfiducia cresce. Da un determinato punto critico in poi, l’informazione cessa di essere informativa e diventa disinformante. Questo potrebbe-anche-stare-diversamente, questa esperienza della contingenza è un tratto essenziale dell’informazione. Ecco perché le fake news costituiscono una componente necessaria della società dell’informazione. Rientrano nel medesimo ordine. Inizialmente, le fake news sono informazioni come le altre. La società dell’informazione è una società del sospetto. L’informazione non rientra nell’ordine dell’essere, bensì in quello della contingenza. La verità rivela una struttura molto diversa da quella dell’informazione. La funzione della verità consiste nel ridurre la casualità della contingenza. A ben vedere, la verità è una narrazione. Le informazioni non si addensano mai in una narrazione. La verità, al contrario dell’informazione, ci fornisce appiglio e orientamento. Le informazioni conducono a una crisi narrativa, a un vuoto di senso. I dati e le informazioni, da soli, non spiegano nulla. Proprio in questo ambito fioriscono le teorie del complotto che offrono una spiegazione semplice, contrapposta all’esperienza della contingenza. Esse semplificano il mondo riducendo complessità e contingenza.

    La digitalizzazione ci fa perdere la capacità di contemplare «che potrebbe essere la ricetta della felicità». Come si può invertire questa tendenza?
    Le informazioni possiedono un margine di attualità risicatissimo. Si fondano sul brivido della sorpresa. In tal modo ci precipitano nel turbine dell’attualità. Impossibile indugiare presso le informazioni. Ne prendiamo atto solo per poco tempo, dopodiché il loro status ontologico si azzera, come fossero messaggi della segreteria telefonica già ascoltati. Il mio nuovo libro Le non cose indica proprio le vie attraverso cui potremmo approdare a un indugio contemplativo. In un capitolo, ad esempio, rifletto molto sul silenzio. Le informazioni provocano un baccano infernale che rende impossibile qualsiasi indugio contemplativo. Dovremmo invece riscoprire il silenzio e la sua magia, che è la chiave della felicità. Insieme a Le non cose esce in Italia, quasi in contemporanea, anche Elogio della terra – un viaggio in giardino (nottetempo). Probabilmente è dipeso dalla crescente digitalizzazione e informatizzazione del mondo il fatto che io un giorno abbia provato un forte bisogno di avvicinarmi alla terra. Così ho deciso di curare un bel giardino che ho chiamato «Bi-Won» (in coreano, «giardino segreto»). Il giardino è un luogo dato all’indugio contemplativo. Oggi percepiamo il mondo sulla base delle informazioni. L’informazione è una ri-presentazione. La digitalizzazione ci toglie la presenza, il giardino è invece ricco di presenza. Ecco perché il lavoro in giardino porta tanta gioia. La pandemia ci costringe davanti allo schermo, che manca di presenza. Per cui molte persone, durante la pandemia, desiderano avvicinarsi alla natura.

    Dal lavoro fatto con le mani a quello con le dita sugli schermi si perde anche la visione hegeliana dello spirito come lavoro. La società ludica del «phono sapiens» a che tipo di realtà «post-storia» ci può portare, sedati da reddito di cittadinanza e videogiochi come nuovi panem et circenses?
    La parola tedesca handeln (agire), che richiama la mano (Hand), è il verbo della Storia. L’uso delle dita (la parola «digitale» viene dal latino digitus, dito) è un primo passo verso la fine della Storia. Il phono sapiens senza mani non agisce, digita soltanto. Certo, è affascinante l’idea che l’uomo del futuro, il phono sapiens, si limiti a giocare, a godersela senza lavorare. Ma sarebbe davvero una condizione ideale? «L’ultimo uomo» di cui parla Nietzsche anticipa già il phono sapiens, e con tutta evidenza non è felice. Diventa un drogato come dice in “Così parlò Zarathustra”: «Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente» Per Heidegger, il «cruccio» sta alla base dell’esistenza umana. Il phono sapiens, del tutto privo di crucci, non è più un uomo. L’uomo ha la Storia perché soffre.

    L’impianto dello smartphone (o «pornophone») depaupera la vista del «proprio lato magico». In che modo la scomparsa delle cose ci sta accecando, distruggendo la nostra empatia?
    Lo smartphone rende ogni cosa immediatamente disponibile e consumabile. In tal modo distrugge l’Altro, che si sottrae a qualsiasi disponibilità. La perdita dell’empatia deriva dal fatto che noi facciamo dell’Altro, del tu, un oggetto consumabile. Insieme allo smartphone ci ritiriamo in una bolla narcisistica che ci protegge dalle imponderabilità dell’Altro. La scomparsa dell’Altro è proprio il motivo ontologico per cui lo smartphone ci rende soli.

    Il comunismo opprime la libertà, il capitalismo neoliberista del «mi piace» la sfrutta. Qual è l’alternativa che lei auspica?
    Sì, ho avanzato la tesi che il regime disciplinare sia repressivo, cioè opprime la libertà. Il regime neoliberista non è repressivo, bensì seduttivo e permissivo: sfrutta la libertà invece di opprimerla. Nel regime neoliberista ci sfruttiamo da soli, e appassionatamente, credendo di realizzarci. Solo il regime repressivo incontra resistenze. Il regime neoliberista si fonda invece sul «like». Il like è un amen digitale. Ogni dominio richiede dei devozionali che lo stabilizzino mediante l’habitus, ancorandolo al corpo. Lo smartphone è l’oggetto devozionale del regime neoliberista. È un rosario digitale. Ho appena finito di scrivere un libro, che avrà come titolo Von der Untätigkeit (‘Dell’inazione’). Oggi siamo come quegli «attivi che rotolano, come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo» come scrive Nietzsche in “Umano troppo umano.” La pietra che acquista velocità si sviluppa fino a diventare una forma di vita autonoma. La vita si lascia assorbire dall’attività e dalla prestazione, e in tal modo presta il fianco allo sfruttamento. In opposizione a questo, nel nuovo libro tratteggio una politica dell’inazione e presento le forme dell’inattività quali fulgidi esempi di esistenza umana.

    Lei scarta l’apatica intelligenza artificiale poiché incapace del dubbio. Il calcolo non è pensiero. Quali implicazioni ci sono nell’affidare il nostro futuro all’AI?
    Il mio libro La società senza dolore si conclude con queste parole: «Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita». Questo paradosso vale anche in un mondo gestito dall’intelligenza artificiale. Non sarà un mondo umano. Il pensiero nel senso enfatico del termine possiede una dimensione narrativa. Il pensiero è un parto doloroso. Nel mondo dell’AI cederà del tutto il passo al calcolo.

    Raccontando del suo rapporto con un juke-box dice che la scomparsa di un «interlocutore svettante» che s’imponga sopra di noi ci fa perdere sensibilità nei confronti di ciò che ci eleva. Ricadiamo nel nostro ego, soli, privi di mondo, ed ecco spiegata la depressione del contemporaneo. Come uscirne?
    Ho sempre lamentato la scomparsa dell’Altro. Lo stretto legame con l’Altro nasce nel momento in cui lo occupiamo ricorrendo a energie libidiche. Oggi si sta verificando un riflusso di queste energie, poiché non scorrono più verso l’Altro, anzi tornano indietro in direzione dell’Io. Tale riflusso psichico, questo accumulo di energie psichiche vacanti ci rende depressi. Per via della mancanza dell’Altro, ripiombiamo in noi stessi e perdiamo qualsiasi addentellato col mondo. Del resto, la depressione non è che povertà di mondo. Chi è depresso si separa dal mondo, dall’Altro, e l’Io viene ributtato contro sé stesso senza alcun legame oggettuale. Privi di mondo, giriamo attorno a noi stessi. L’interlocutore svettante ci tira invece fuori da questa situazione. Nel film di Lars von Trier Melancholia, l’interlocutore svettante è il pianeta azzurro in rotta di collisione con la Terra. Nella luce azzurra del pianeta latore di morte, Justine si stende nuda e lussuriosa. L’interlocutore svettante la cura dalla depressione: Justine riesce finalmente a uscire da sé stessa. L’eros sconfigge la depressione. Per lei, il pianeta azzurro «Melancholia» è semplicemente l’Altro. Mi chiede come possiamo rimediare alla perdita dell’interlocutore svettante? Magari attendendo l’apocalisse, oppure recandoci a Roma? (un sorriso) Lo scorso autunno ho vissuto per due mesi a Villa Massimo. Roma è ricca d’interlocutori svettanti. Per tutto il periodo sono andato in giro in bici e ho visitato centinaia di chiese. La chiesa di San Bernardo alle Terme mi ha regalato una gioiosa esperienza di presenza. È una chiesa molto piccola. Entrando ci si trova immediatamente sotto una cupola abbellita da forme ottagonali e quadrate che si rimpiccioliscono verso la cima, tant’è che dal punto di vista ottico, la cupola a cassettoni trasmette un senso di risucchio verticale. Attorno al punto più alto, dove si vede la colomba dorata, una serie di finestre fa entrare la luce. La colomba si libra dorata nell’aria. Il tutto va a costituire un interlocutore sublime, un gorgo che mi ha letteralmente sollevato da terra. Ho cominciato a salire, e ho capito cos’è lo Spirito Santo: nient’altro che l’ALTRO. Questa esperienza di presenza in un edificio sacro mi ha reso felice. Oggi però stiamo smarrendo il senso del sacro, del sublime e del mistero. Lo smartphone distrugge qualsiasi interlocutore svettante e assolutizza il levigato.

    "Le non cose - Come abbiamo smesso di vivere il reale"
    di Byung-chul Han (Einaudi Stile libero, trad. Simone Aglan-Buttazzi, pagg. 136, euro 13,50)

    La repubblica - 4 febbraio 2022


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