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    Consumismo, vuoto

    Umberto Galimberti

     

    L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via
    tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via.

    G. ANDERS, L'uomo è antiquato,
    vol. II: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale (1980), p. 35.

    Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione, e l'incremento di produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?
    Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla portata di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi, una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d'abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita d'elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando, a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività? Perché il consumismo è un vizio?
    Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

    1. La circolarità produzione-consumo. È noto che "produzione" e "consumo" sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.
    All'inizio e alla fine di queste catene di produzione (di merci e di bisogni) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e come consumatori, con l'avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia "prodotto".
    A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che "non si può non avere". In una società opulenta come la nostra, dove l'identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

    2. Il principio della distruzione. Si tratta di una distruzione (ma se l'espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola "consumo") che non è la fine naturale di ogni prodotto, ma il suo fine. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità.
    Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo, costretto a diventare "consumo forzato", comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell'apparato economico. Il "rispetto", che Kant indicava come fondamento della legge morale, [1] non è funzionale al mondo dell'economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo "un mondo da buttar via". [2] E siccome è molto improbabile che un'umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Günther Anders per il quale: "L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via". [2]
    Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E se le cose del mondo agli occhi di Platone apparivano scadenti perché, a differenza delle idee, erano soggette al tempo e perciò transitorie, agli occhi della nostra economia la transitorietà di tutte le cose, il loro diventare obsolete ed essere superate, il loro non-durare è la condizione del loro esistere.

    3. L'inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro "data di scadenza" che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall'inizio come il loro fine.
    In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l'uso delle cose deve coincidere il più possibile con la loro usura. E se questo non è possibile per l'intero prodotto perché nessuno l'acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengono a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che, anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché "socialmente inadatta" e in ogni caso "non idonea al nostro prestigio".

    4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilistico dell'economia consumistica, che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.
    E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben al di là dei limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora materialmente utilizzabile, socialmente inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisori, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell'assurdo, anche per gli armamenti.
    Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per "ragioni umanitarie", o si producono armi "migliori" che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il "miglioramento" in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l'umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di "meglio"?

    5. La crisi dell'identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell'identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo la nostra identità. È infatti fuorviante considerare la cultura del consumo come cultura dominata dalle cose, perché nel consumo le cose si fluidificano. Prive di consistenza, di durata, e al limite di utilità, le cose esistono solo per essere consumate e, dove resistono al consumo, per essere sostituite da prodotti "nuovi e migliori" che l'innovazione tecnologica porta con sé.
    In un mondo dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all'obsolescenza immediata, l'individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell'ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.
    Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini evanescenti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.
    Declinandosi sempre più nell'apparire, l'individuo impara a vedersi con gli occhi dell'altro. Impara che l'immagine di sé è più importante delle sue capacità. E dal momento che verrà giudicato da chi incontra in base a ciò che possiede e all'immagine che rinvia, e non in base al "carattere" come accadeva nelle epoche non consumistiche, tenderà a rivestire la propria persona di teatralità, a fare della sua vita una rappresentazione, e soprattutto a percepirsi con gli occhi degli altri, fino a fare di sé uno dei tanti prodotti di consumo da immettere sul mercato.
    Priva di un mondo costante, durevole e rassicurante nella sua solidità, l'identità diventa incerta e problematica, non perché l'individuo non appartiene più a precise categorie sociali, ma perché non abita più un mondo stabile e dotato di esistenza indipendente. Là infatti dove il mondo è di continuo creato e ricreato e gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti "usa e getta", destinati all'obsolescenza immediata, il consumatore considera il mondo come un riflesso dei suoi desideri e delle sue paure.
    Non più una realtà solida, durevole e palpabile, ma una vita psichica vissuta senza un senso costante di sé, che naufraga in una serie di riflessi fugaci nello specchio dell'ambiente circostante. Qui la differenza tra realtà e virtualità diventa sempre più vaga, come vaga diventa la propria identità e indefinito lo spazio della libertà.

    6. L'evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d'azione che porta all'individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.
    Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell'"usa e getta" regola sia le relazioni matrimoniali sia le relazioni senza impegno.
    Dando la falsa impressione di rifornire gli individui di mondi possibili, di identità proteiformi e di scelte sempre reversibili, la cultura del consumo diffonde, nello sfarfallio delle possibilità, quella illibertà che è poi l'astensione dalla scelta, tipica nel mondo del conformismo. Siccome non è connessa a immagini di oppressione, questa forma di illibertà non è assolutamente avvertita, e la deprivazione che comporta non è neppure lontanamente accompagnata dalla sensazione di essere deprivati.

    7. La politica come consumo. La cultura del consumismo non investe solo l'identità personale e la libertà dei singoli, ma anche la vita pubblica nella sua espressione più alta che è la politica, dove i sondaggi svolgono la stessa funzione delle indagini di mercato per identificare i gusti, le tendenze, i capricci del "consumatore sovrano".
    In politica, infatti, come nell'industria, i sondaggi, le campionature, le valutazioni, create originariamente per registrare le opinioni, servono oggi per definire una norma statistica che ha come scopo quello di escludere opinioni impopolari dalla discussione politica, senza alcun riferimento al loro merito, ma, come accade per le merci, semplicemente sulla base della loro dimostrata mancanza d'attrattiva.
    In questo modo chi governa incanala entro i propri disegni l'input popolare che già ha provveduto a formare con i mezzi di comunicazione, dove la pubblicità politica sempre meno si distingue dalla pubblicità delle merci, per cui i sondaggi, lungi dal sondare l'opinione pubblica, sondano di fatto la capacità di persuadere dei mezzi di comunicazione, con conseguente riduzione della democrazia a esercizio di scelte di consumo.
    Che fare? Nulla. Perché l'identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c'è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.
    A differenza dei vizi capitali che segnalano una "deviazione" della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il "dissolvimento", che fra l'altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I nuovi vizi, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l'individuo non può opporre un'efficace resistenza individuale, pena l'esclusione sociale.
    E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come "valori della modernità" quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

    NOTE

    [1] "Il rispetto [Achtung] per la legge morale è un sentimento che viene realizzato mediante un principio intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi conosciamo interamente a priori, e di cui possiamo vedere la necessità. [...] Tale sentimento può anche essere chiamato sentimento di rispetto per la legge morale e, per tutte queste ragioni riunite, un sentimento morale [moralische Gefühl] , I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788); tr. it. Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, Parte I, Libro I, capitolo III: "Dei moventi della ragion pura pratica", pp. 91-93.
    [2] G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, vol. II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980); tr. it. L'uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 35.

    Vuoto

     

    Giù in cantina c'è un ragazzo
    che tenta di vivere la sua vita in pace.
    Ma un giorno dovrà unirsi al mondo di sopra
    e non ce la farà a sopravvivere.

    Occhi incollati alla tv, orecchie sigillate dalle cuffie,
    lasciato a se stesso, un estraneo in casa sua.

    R. JALBERT, I ragazzi nello scantinato (1990).

    Dedicato ai giovani. Non a tutti, naturalmente. E non così tragico come gli altri vizi, perché nel giovane tutto è modificabile. "Vuoto" qui allude al nichilismo giovanile come speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, inerzia in ordine a un produttivo darsi da fare, sovrabbondanza e opulenza come addormentatori sociali, indifferenza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia. Incomunicabilità, non come fatto fisiologico tra generazioni, ma come presa di posizione. Un vuoto pieno di rinuncia, assordato solo dalla musica a tutto volume.
    Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma quel genere di solitudine che non è la disperazione che attanaglia quanti un giorno hanno sperato, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c'è anima viva che lo raccolga, e dove, se si dovesse gridare "aiuto", ciò che ritorna sarebbe solo l'eco del proprio grido.
    Nascono da qui gesti che non diventano stili di vita, azioni che si esauriscono nei gesti, progetti che si dileguano tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si fa e disfa a seconda delle ore del giorno, infedeltà ai modelli che si assumono per darsi un contegno, trasgressioni che si rinnovano per la creazione di un ordine nuovo, tappe in-concluse di un eterno disordine.
    Sensualità imprecisa dove il cuore ha ancora legami con l'ideale e col sesso, senza riuscire a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione. Sguardo cattivo che non sa dove scatenarsi: se su di sé o sugli altri, vigilie di notti in cui si celebra l'eccesso della vita oltre le misure concesse, gioiosa confusione dei codici fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte. Malinconie radicali che nessun diario riesce a contenere perché il volume delle sensazioni è troppo al di là delle parole a disposizione.
    Da questo scenario, comune a tutto il mondo adolescenziale, il vuoto, quando insidioso guadagna spazio sottraendolo ai progetti costruttivi, assume tendenzialmente tre forme:

    1. La freddezza razionale. Ha luogo quando il cuore, un tempo tumultuoso e invocante, si fa piatto, non reattivo, pronto a declinare ora nella depressione ora nella noia. E quando la tempesta emotiva si abbatte sul cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime tutto con le difese impenetrabili approntate dalla buona educazione, dalle buone maniere, dal buon allenamento nella palestra gelida della razionalità.
    Tutto bene dunque? All'apparenza sì, tutto bene. A scuola non si va male, col prossimo ci si sa comportare, ci si sa vestire anche bene, con le maschere che si indossano e si sostituiscono l'allenamento è collaudato. La sessualità, quando c'è, è tecnica corporea perché questi ragazzi sono "emancipati", in discoteca si balla parossisticamente, insieme a tutti gli altri, la propria solitudine. Un po' di ecstasy dà quella leggera scossa emotiva di cui si è assetati, ma non lo si dice, lo si fa per moda, per essere come gli altri, con cui si fa "branco", anche branco ben educato, nel tentativo di ottenere dal branco quel residuo di conforto affettivo di cui il loro cuore, come un organo autonomo, saltuariamente ha sete.
    Finché alla fine tutto esplode, la compressione della razionalità mai diluita nell'emozione, la difesa delle buone maniere che ormai, persino a propria insaputa, fanno tutt'uno con l'insincerità, la noia, che come un macigno comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in sintonia col mondo, formano quella miscela che sotterra l'Io di questi giovani a cui è stato insegnato tutto, ma non come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore.
    Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo perché il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il gesto.
    Ma non se ne accorge nessuno di questa condizione giovanile peraltro molto diffusa? Tendenzialmente no. Una buona educazione, soprattutto quella borghese che insegna a tenere a bada gli eccessi emotivi, confeziona su ciascuno di loro un abito di buone maniere, di stereotipi linguistici, di controllo dei sentimenti che, come una corazza, rendono questi giovani scarsamente leggibili a chi sta loro intorno. Alla base c'è una mancata crescita emotiva, che ha reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per cui gli eventi della vita passano loro accanto senza una vera partecipazione, senza un'adeguata risposta di sentimento a quanto intorno accade.
    Buon terreno di cultura sono di solito le famiglie perbene, dove i problemi, quando si affrontano, si affrontano sempre in modo razionale, dove non si alza mai la voce, dove non si piange e non si ride, e dove soprattutto non si comunica, perché quando i figli hanno dato le loro informazioni sull'andamento scolastico e sull'ora del rientro quando si fa notte il sabato sera, sono lasciati nel rispetto della loro autonomia, dietro cui si nasconde il terrore (anche questo mascherato) dei genitori ad aprire quell'enigma che i figli sono diventati per loro.
    E i figli, come gli animali, sentono quando c'è la paura dei genitori, e, quando non c'è, sentono il loro sostanziale disinteresse emotivo. Soli da piccoli, affidati alla televisione o alle prestazioni mercenarie dell'esercito delle baby-sitter, questi figli, figli del benessere e della razionalità, crescono con un cuore dapprima tumultuoso che invoca attenzione emotiva, poi, quando questa attenzione non arriva, giocano d'anticipo la delusione e il cinismo per difendersi da una risposta d'amore che sospettano non arriverà mai.

    2. L'ottimismo egocentrico. Quando l'indifferenza emotiva si coniuga col fatalismo connesso al concetto di destino ("sono fatto così!"), il vuoto si esprime in quell'"ottimismo egocentrico" di cui parla il sociologo Falko Blask:

    Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra. [1]

    Portando alle estreme conseguenze il principio di non dover mai chiedere il permesso a nessuno, gli ottimisti egocentrici non chiedono più nulla nemmeno a se stessi, e si dedicano totalmente al compito di inventare nuove regole del gioco laddove grava la routine. Inscenano in questo modo tutta la loro vita come un esperimento sociale dall'esito incerto e vanno su di giri al semplice ed esaltante pensiero che ciascuno nella propria vita va in diretta ventiquattro ore su ventiquattro.
    Il loro modo di relazionarsi alla vita prevede infatti che si agisca come virtuosi dell'irresponsabilità, senza alcun riguardo per la propria storia personale, senza rispettare impegni e senza temere le eventuali conseguenze del proprio agire, dal momento che tutte le scelte sono disponibili e quelle effettuate tutte revocabili.
    Dalla perdita di identità, che si costruisce solo con la consequenzialità delle nostre azioni e con l'irrevocabilità delle scelte, nasce quel frazionamento psichico, dove l'identità vive nel gesto misurato non sulla scala del bene e del male, di cui non si distingue più il confine, ma sulla scala della noia e dell'eccitazione, della ripetizione e della novità.
    Nell'esperienza ormai assaporata da questi giovani circa la loro non incidenza, neppure minima, nel cambiare le regole di una società tecnologicamente ed economicamente, ma non politicamente o moralmente ordinata, ognuno va alla ricerca della nicchia adeguata dove poter mettere in scena la propria disarticolata avventura, che appare naturalmente come un'esplorazione delle sconosciute possibilità dell'esistenza
    Ma soprattutto i giovani dell'ottimismo egocentrico hanno ormai imparato a rifiutare la comunicazione e a negare l'accesso al proprio cuore, perché preferiscono tenerlo ben nascosto al centro di un labirinto, in cui gli altri possono solo vagare senza alcuna speranza di poter recuperare uno straccio di autentica comunicazione.

    3. L'inerzia conformista. Tra le forme del vuoto, è la più diffusa. Essa è caratterizzata da quella rassegnazione contenuta così ben descritta da una ricerca dell'Eurisko, là dove si parla della "tipologia degli abbastanza" con riferimento a quei giovani che vanno abbastanza d'accordo con i loro genitori, i quali concedono loro abbastanza libertà. Hanno abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta. Nessun progetto per il futuro anche perché non ci sono abbastanza opportunità, nessun ideale da realizzare anche perché non ce ne sono di abbastanza coinvolgenti.
    Sono giovani che si riconoscono per il loro basso livello di autoconsiderazione, per la loro sensibilità gracile, introversa, indolente, per la loro inerzia provocata da un'eccessiva esposizione agli influssi della televisione e di Internet. Un'unica preoccupazione: procurarsi un'incredibile quantità di tempo libero per assaporare fino in fondo l'assoluta insignificanza del proprio peso epocale.
    Di qui le frequenti fughe nel sogno e nel mito, il mimetismo nella ricerca neppur troppo spasmodica di un'identità venata dalla nostalgia relativa all'impossibilità di reperire radici proprie, il tutto condito con un acritico consumismo, reso possibile da un'inedita disponibilità economica che, per disinteresse o per snobismo, questi giovani neppure utilizzano, perché le cose sono a disposizione prima ancora di averle desiderate.
    E così a questo tipo di giovani viene attribuita una valenza di mercato prima ancora che di identità. Su di essa si buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della loro condizione psichica che la pubblicità, la produzione dell'abbigliamento, le agenzie di viaggio e l'industria del divertimento hanno decodificato molto meglio di quanto non abbiano fatto le statistiche sociologiche, le analisi psicologiche del profondo, la cultura devitalizzata della scuola, dove molti insegnanti neppure s'accorgono che quei giovani non avvertono alcuna corrispondenza tra quanto si apprende in classe e quanto s'intravede dalla finestra dell'aula.
    E che c'è fuori da quella finestra? A sentire Stefano Pistolini, che descrive questi ragazzi che ha visto da vicino quando giocava a pallacanestro e quando faceva il chitarrista punk:

    Al di là dei vetri c'è l'America, la cui scoperta è questione di mesi per qualsiasi ragazzino del pianeta. Il tempo di essere svezzato, di appropriarsi delle categorie del discernimento e l'America diventa uno stato mentale. [2]

    A questo punto incomincia quell'emigrazione verso il modello americano da parte di legioni di adolescenti e ventenni che porta a quell'omologazione planetaria che Pier Paolo Pasolini denunciava come il rischio maggiore per le generazioni future le quali, deprivate delle specificità locali ormai umiliate, sarebbero rapidamente entrate in crisi di identità.
    E così la gioventù di tutto il mondo, senza particolari sforzi, per il solo fatto di entrare in un McDonald's, nonostante la deprimente prospettiva alimentare, diventa un satellite della cultura popolare statunitense che, trascinando con sé interi procedimenti esistenziali, si diffonde a pioggia come una necessità vitale al di sopra dei livelli minimi di sopravvivenza.
    In questo modo tra i quindici e i venticinque anni, quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale, molti giovani vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l'identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l'autostima deperisce.
    Ma che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? È solo una faccenda di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione? Forse l'Occidente non sparirà per l'inarrestabilità dei processi migratori, contro cui tutti urlano, ma per non aver dato senso e identità, e quindi per aver sprecato le proprie giovani generazioni.

    NOTE

    [1] F. Blask, Ich will spass (1996); tr. it. Q come caos, Tropea, Milano 1997, p. 13.
    [2] S. Pistolini, Gli sprecati. I turbamenti della nuova gioventù, Feltrinelli, Milano 1995, p. 11.

    (da: I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli 2007, pp. 67-74; 115-121)


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    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

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    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
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    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
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    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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