Anche il XXI secolo
avrà la sua «somiglianza»
con Dio
Aldo Schiavone
Il punto d’arrivo cui ci conduce la nostra esplorazione riguarda una questione cruciale. Quella del rapporto fra l’accrescimento della potenza dell’umano – non solo tecnologica e materialmente trasformatrice, ma complessivamente culturale e mentale – e il superamento del limite della sua finitezza (l’immagine dei due alberi al centro dell’Eden, e la rassomiglianza fra Dio e l’uomo nel linguaggio della 'Genesi'). L’annuncio dello sfondamento di questa soglia riempie il nostro tempo, e ne determina il significato. D’ora in poi non potremo concepire il finito, in riferimento all’umano, se non come un vincolo sempre provvisorio, che non può essere fissato da alcuna misura 'naturale' in grado di contenerlo e di racchiuderlo per sempre dentro di sé: una frontiera mobile, e mai una definitiva invalicabilità. In altri termini, quel che viene in questione è l’installarsi dell’infinito entro la storicità e la limitatezza del finito: un grande tema hegeliano e, sebbene entro coordinate assai diverse, un aspetto decisivo dell’antropologia filosofica tedesca fra Marx e Nietzsche, che aveva già di fronte (ancor più di Hegel) la nuova realtà della Rivoluzione industriale e della prima organizzazione capitalistica del mondo.
Come sappiamo bene, non è stato facile per la nostra specie arrivare ad aprire questa strada: generare la forza creatrice dell’infinito come illimitata possibilità trasformatrice di noi stessi e del mondo entro la forma del nostro agire nella storia, come provvisori abitatori del tempo. Anche la storia degli uomini – come quella evolutiva della vita – ha dovuto procedere per tentativi, selezionando in modo diseguale e discontinuo attitudini e caratteri, combinando caso e necessità, alternando pause e accelerazioni, spesso scegliendo vie in apparenza inutilmente tortuose, e comunque includendo sempre la possibilità del fallimento, della regressione e della catastrofe. Aver determinato le condizioni materiali e intellettuali di questo salto, aver fatto emergere per la prima volta sul piano della storia l’infinita produttività del lavoro umano come creatore di trasformazione attraverso la tecnica, e dunque le sconfinate possibilità della specie, che mai più cercherà di rimanere 'qualcosa di divenuto', ma si identificherà sempre di più con il 'movimento assoluto del divenire', ha reso febbrile e consumato la modernità, e forse spiega molte delle sue tragedie. E dà forse una spiegazione del vertiginoso dilatarsi dei bisogni, dei desideri e delle soggettività – che hanno preso la forma provvisoria e rischiosa di uno sfrenato individualismo consumistico e acquisitivo – che se per un verso sta rappresentando un inaudito aumento delle nostre potenzialità di vita e di emancipazione, sta però anche schiacciando il pianeta e le sue risorse sotto un carico incontrollato di domande e di aspettative. Sono convinto che questa nuova condizione dell’umano, che sta vedendo cadere ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi – un umano proiettato sull’infinito – implichi, non possa che implicare, il formarsi di una nuova idea di Dio, e di conseguenza, lo stabilirsi di un nuovo rapporto con Lui.
Non ritengo che nessun credente debba considerare 'scandalosa' questa affermazione. Da sempre, ogni immagine umana di Dio è il risultato di un’elaborazione storica, è – per così dire – un riflesso di Dio nel tempo e nelle intelligenza degli uomini – e quindi muta, con il mutare delle condizioni storiche. Il Dio del Vecchio Testamento non è il Dio dei Vangeli, e la percezione di Dio come affiora nella Divina Commedia non è quella di un teologo del ventesimo secolo. La transizione rivoluzionaria che stiamo vivendo comporta la nascita di una nuova antropologia, e questa induce a sua volta una diversa costruzione del divino. Detto in maniera estremamente sintetica, come qui sono costretto a fare, credo che noi dobbiamo passare da un’esperienza di Dio in cui l’infinità era tutta dalla Sua parte, e l’umano di fronte a Lui non era che limitatezza e finitudine, a un’esperienza ben più straordinaria e matura, in cui l’umano e il divino 'coesistano' per così dire, nell’infinità, per quanto su diversi piani e con diversa pienezza e responsabilità. In questo senso, la 'rassomiglianza' fra l’uomo e Dio affermata all’inizio del racconto biblico indicherebbe un cammino, una potenzialità, e non un dato di fatto già acquisito: riguarderebbe il compimento del nostro futuro (che è – non dimentichiamolo – il presente di Dio, cui è concesso di conoscere il tempo come un blocco di ghiaccio, e non un fiume che scorre).
Somigliare a Dio sarebbe perciò non la nostra condizione di partenza, ma una possibile stazione d’arrivo, che sta a noi saper conquistare. Sarebbe la nostra prospettiva escatologica: non essere, ma 'poter diventare' simili a Dio, dopo che Dio stesso ha voluto farsi uomo. E non per aprire una competizione (l’ipotesi oscura che attraversa il racconto della 'Genesi'), ma per realizzare un ricongiungimento, finalmente fuori della storia (nella lingua delle Scritture vuol dir questo, attingere all’immortalità), all’interno di una legge universale d’amore e d’alleanza come etica assoluta del divino.
(Avvenire, 25 ottobre 2009)