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    Afternoon of Christianity

    Intervista a Tomáš Halik

    di Alessandro Zaccuri

    Afternoon of Christianity, ‘Il pomeriggio del cristianesimo’, è il titolo del nuovo saggio di monsignor Tomáš Halík, in uscita nei prossimi mesi da Vita e Pensiero, la casa editrice che sta proponendo organicamente le opere del teologo ceco, vincitore di premi prestigiosi come il Templeton e il Guardini. Dopo Voglio che tu sia (2017) e Pazienza con Dio (2020), di recente è apparso Tocca le ferite (traduzione di Paolo Baiocchi, pagine 182, euro 16), sorta di manifesto programmatico di una «spiritualità della non-indifferenza» che ha nell’apostolo Tommaso il suo imprevedibile patrono. Nato a Praga nel 1948, Halík è stato segretamente ordinato sacerdote nel 1978 a Erfurt, in Germania. La sua vocazione è maturata nel silenzio delle chiese distrutte dal regime comunista. Da quelle volte devastate, racconta, ha imparato a guardare verso il cielo. Durante il confinamento planetario del 2020, ha pubblicato un breve saggio, Il segno delle chiese vuote, che attinge alla sua esperienza personale per annunciare i temi del nuovo libro. «Ogni tempo – riassume Halík per i lettori di ‘Avvenire’ – è un tempo propizio».

    Il concetto di kairós, in effetti, è decisivo del suo lavoro.
    Kairós è il termine biblico che indica appunto il tempo opportuno. Per me praticare un metodo cairologico significa interpretare teologicamente i segni dei tempi, ossia tutto quello che accade nella cultura e nella società contemporanea, comprese le crisi e non esclusi i cambi di paradigma. Un cristianesimo maturo è in grado di abbracciare la vita nella sua interezza: non soltanto la luce del Tabor, ma anche le tenebre del Getsemani. La fede, non dimentichiamolo, cresce proprio grazie alle difficoltà, si tratti della secolarizzazione o della pandemia. Il mistero pasquale è il cuore del cristianesimo, ma di questo mistero fa parte il grido di Gesù abbandonato sulla croce così come il canto dell’allelluia all’alba della Risurrezione.

    Tra i credenti, però, permane ancora un sentimento di paura: come mai?
    Il comandamento fondamentale di Cristo è l’amore, e l’amore è sempre rischioso. Non diversamente dalla fede, richiede il coraggio di trascendere sé stessi per entrare nella nube di un mistero sconosciuto. Da dove viene la paura? Gesù pone la medesima domanda ai discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», chiede. A essere spaventati sono i cristiani che hanno confuso la fede con l’ideologia o con una credenza religiosa. Perché la fede è un orientamento esistenziale, non una visione del mondo.

    Per questo motivo lei è così interessato ai testimoni della contraddizione?
    Da Pascal, Kierkegaard e Chesterton ho imparato a considerare il cristianesimo come una religione del paradosso. Mi sento ispirato da coloro che hanno camminato nella notte oscura della fede, come hanno fatto molti mistici, da san Giovanni della Croce a Teilhard de Chardin. E poi c’è il genio oscuro di Nietzsche, il più divino tra i senza Dio. A fianco di queste notti individuali, nella storia dell’umanità e della Chiesa ci sono anche le notti oscure collettive. Teilhard ha concepito la sua grandiosa visione di unificazione universale, che per tanti aspetti anticipa l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, nelle trincee della Grande Guerra.

    Anche la sua generazione ha sperimentato una notte oscura?
    Più di una, direi. Prima sotto la persecuzione comunista, poi con il dilagare degli scandali nella Chiesa. La lezione che possiamo trarne è sempre la stessa: ogni crisi è un kairós, un’occasione per purificarsi, scendere in profondità e crescere. In una parola, un’opportunità di trasformazione, di metànoia. Uno dei miei libri ha preso il titolo da un verso del poeta ceco Vladimír Holan, «Solo chi trema rimane fermo». Solo un medico che sia stato ferito può veramente comprendere e curare, solo una Chiesa ferita può diventare «ospedale da campo». Secondo una leggenda, un giorno il diavolo assunse l’aspetto di Cristo per apparire a san Martino, che però riuscì a smascherarlo con una semplice domanda: «Dove sono le tue ferite?». Sinceramente, non riesco a credere a un Dio, a una Chiesa o a una fede che non mostri le proprie ferite.

    Deriva da qui la sua simpatia per gli atei?
    Non esiste un ateismo assoluto. Quando cerca di assolutizzarsi, l’ateismo si costituisce in religione sui generis. L’ateismo è un fenomeno che presuppone una relazione, perché ha sempre la necessità di fare riferimento a qualcos’altro, e cioè a una particolare forma di teismo, a una specifica idea di Dio. Ogni volta che sento un ateo negare il Dio che ha in mente, mi viene da rispondergli che, grazie a Dio, io non credo in quel Dio lì. Insomma, laddove entrano in gioco le primitive e addirittura volgari convinzioni dei fondamentalisti, oppure si sostiene l’immagine deleteria di un Dio come crudele poliziotto morale, anch’io mi sento un po’ ateo, nel senso che quello non è il mio Dio. Ci sono tanti tipi di atei, così come ci sono tanti tipi di credenti. Esiste un ateismo non meno stupidamente dogmatico del suo fratello gemello, che è il fondamentalismo religioso, ma ci sono anche gli atei che, come Nietzsche e molti altri, non si stancano di lottare appassionatamente con Dio. Ecco, già l’Antico Testamento ci rivela la predilezione di Dio per questi lottatori dello spirito: Giacobbe e Giobbe, per esempio. Allo stesso modo, la Scrittura mostra il disprezzo verso i tiepidi e gli indifferenti, che saranno vomitati.

    Qual è allora il vero avversario della fede?
    L’idolatria, che comporta l’assolutizzazione di ciò che è relativo. Durante la pandemia, nel tempo delle ‘chiese vuote’, Dio ci ha invitati a essere così creativi da stabilire una relazione personale con Lui anche al di fuori delle pareti di un edificio consacrato. Dal mio punto di vista, è stato un monito profetico: questo è quello che succederà in molte parti del mondo, se la Chiesa non si impegna subito in una riforma radicale. La chiamata di papa Francesco a intraprendere un percorso sinodale non poteva cadere in un momento migliore. Dobbiamo comprenderlo e agire di conseguenza, altrimenti le chiese, i conventi e i seminari chiuderanno presto e finiranno in vendita, uno dopo l’altro.

    Che cos’è ‘il pomeriggio del cristianesimo’?
    Ho preso spunto dalla metafora che Carl Gustav Jung applica alla vita umana. Secondo il fondatore della psicologia del profondo, dopo infanzia e gioventù (che corrispondono al mattino dell’esistenza) verso mezzogiorno arriva la crisi di mezza età, il cui superamento consente di entrare nella maturità del pomeriggio. In maniera analoga, nell’epoca premoderna abbiamo avuto un mattino del cristianesimo, impegnato nella costruzione di strutture istituzionali e dottrinali. La modernità ha portato con sé la crisi meridiana, che ha scosso le strutture tradizionali e che ha ormai raggiunto il culmine. Ma proprio adesso, quando secolarizzazione e ateismo sembrano all’apice, si apre la possibilità di un cristianesimo più consapevole e più fortemente connotato in senso ecumenico. Veniamo da una stagione nella quale la volontà di difendersi dagli esiti della Riforma protestante e della rivoluzione scientifica ci aveva indotti a rifugiarci entro i confini angusti di un cattolicesimo meramente confessionale. Emanciparsi da questo schema non può però indurci a dissolvere il cristianesimo nell’indistinto pluralismo postmoderno, né a perdere la nostra identità per conformarci al pensiero corrente. Al contrario, questo è il momento in cui dobbiamo tornare a interrogarci sulla nostra fede, andando al centro del messaggio evangelico. Questo, a mio avviso, è l’invito che Gesù ci rivolge oggi: operare per la metànoia, essere disponibili al rinnovamento. La metànoia è una forma di esodo, è la disponibilità a svincolarsi dalle strettoie dell’ego per andare incontro al mistero degli altri e di Dio. Un compito che coinvolge tutti, individui e Chiese. Insieme, dobbiamo rinunciare alle seduzione del narcisismo di massa e dell’autocompiacimento.

    Non è più il tempo di guardare al passato, dunque?
    Le due forme che il cristianesimo ha fin qui conosciuto, vale a dire religio (la perfetta integrazione tra fede e società, come nel Medioevo) e confessio (l’assimilazione della fede a una certa visione del mondo, come nella contrapposizione fra protestantesimo e cattolicesimo), somigliano ad abiti passati di misura a causa della crescita del bambino per cui erano stati confezionati. Nel suo pomeriggio il cristianesimo sarà sì una religione, ma in un altro senso, quello del verbo latino relegere, ‘leggere di nuovo’. Abbiamo bisogno di un’ermeneutica inedita, che ci permetta di reinterpretare non solo le Scritture e la nostra tradizione, ma anche e specialmente i segni dei tempi. Il magistero di papa Francesco va esattamente in questa direzione e lo stesso metodo cairologico, in fondo, non è se non la prosecuzione dell’attitudine profetica che, nel corso della storia, ha permesso ai cristiani di rileggere in chiave sapienziale e contemplativa gli eventi nei quali di volta in volta si trovavano coinvolti.

    Anche il Natale può spingersi verso il rinnovamento?
    Pensi all’esclamazione dell’apostolo Tommaso davanti alle piaghe di Gesù: ‘Mio Signore e mio Dio!’. In nessun altro brano dei Vangeli la divinità di Cristo è proclamata tanto esplicitamente. Ma anche la povertà della grotta di Betlemme è come una finestra attraverso la quale, per paradosso, la divinità del Bambino si rivela a noi. Le ferite e la povertà che incontriamo nel mondo sono le finestre che ci permettono di scrutare nell’intimità del mistero di Gesù, che è la sua unione con il Padre. Se ci rivolgiamo a Gesù come al nostro Dio e Signore, e se riconosciamo Dio nel Padre, sforzandoci di continuare ad ascoltare la Sua voce, non possiamo fare a meno di lasciare aperte le finestre della compassione, non possiamo permettere che il nostro cuore si inaridisca.

    (“Avvenire” - 24 dicembre 2021)


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