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     Legge e Vangelo:

    da Gesù a Paolo

    Romano Penna


    P
    remetto che il mio è un discorso non speculativo ma di carattere storico-letterario, nel senso che è limitato alle origini cristiane e ai suoi scritti, nella misura in cui là troviamo il DNA della nostra identità, in quella storia e in quei testi che ci documentano la prima presa di coscienza di cosa significa essere cristiani.

    Ho parlato di una prima presa di coscienza, al singolare, ma in realtà si dovrebbe usare il plurale, perché lo studio degli inizi conduce inevitabilmente a prendere atto di una dimensione pluralistica, cioè di una varietà di ermeneutiche, che è tipica delle origini e che perciò dovrebbe auspicabilmente essere propria anche del corso storico del cristianesimo1.

    1. Grecità e giudaismo

    Il punto di partenza per il mio discorso non può essere altro che il concetto giudaico di legge di Dio, da cui dipende poi il discorso cristiano. Lo stesso sintagma “Legge di Dio”, infatti, si comprende bene solo all’interno del giudaismo e non della grecità, per il semplice motivo che differisce il rispettivo concetto di Dio. In effetti, come scrive un noto studioso dello stoicismo, «l’etica greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell’uomo … e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori … Uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»2. L’uomo greco, infatti, fonda la moralità nient’altro che nella legge di natura e nel logos/ragione inerente all’uomo.

    In Israele abbiamo invece un concetto personalistico di Dio, e di un Dio unico. E, come si sa bene, il monoteismo ebraico nell’antichità, benché soggetto a un certo sviluppo nella sua affermazione, costituì un’eccezione nelle culture del tempo per il modo di rapportarsi a Dio3. Il Sommo Bene di Platone o il Motore Immobile di Aristotele si disinteressano delle vicende storiche dell’uomo, mentre d’altra parte gli storici greci nelle loro opere storiografiche non tirano in ballo gli dèi (a meno che siano poeti come Omero, ma è un’altra cosa). Il Dio d’Israele invece è un Dio che conduce la storia, non tanto dell’umanità (in prima battuta) quanto piuttosto di un popolo specifico, che Egli ritiene suo, e che ha coscienza di appartenere a lui.

    A questo popolo il Signore Dio dona una sua legge, da intendersi come livello elevato sui cui camminare per essere alla sua altezza. Certo avete presente il capitolo 20 dell’Esodo, dove si trova redatto il decalogo. Esso comincia così: “Io sono il Signore Dio tuo, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altro Dio al di fuori di me….. ”. Come si vede, prima della elencazione degli imperativi c’è un indicativo che ricorda l’intervento gratuito e immotivato di Dio in favore del popolo liberato dalla schiavitù.

    Appare di qui manifesto che nella coscienza di Israele c’è l’idea, secondo cui all’origine della sua esistenza e della sua identità c’è un atto di grazia di Dio e che la legge perciò, in qualche modo, è ‘seconda’ rispetto alla grazia iniziale, la quale sola è primaria, fondamentale e fondante, concretamente dimostrata da Dio nei confronti del suo popolo. In ogni caso, la legge donata da questo Dio costituisce la griglia, la piattaforma, la cornice e anche il quadro di ciò che questo Dio di Alleanza richiede al suo partner che è Israele.

    Ebbene, un’idea del genere non è greca. È vero che un filosofo pagano del I secolo, pressoché contemporaneo di Paolo, lo stoico Epitteto, impiega lo stesso sintagma nómos theoû, “legge di dio”. Ma in Epitteto questa legge non è altro che la legge di natura (cfr. Diatribe 1,29,19): essa consiste nella possibilità e anzi nel dovere dell’uomo di costruire sé stesso sapendo di non dipendere da niente e da nessuno e di mettersi così al servizio degli dèi a prescindere da ogni presunzione ed emozione, da ogni condizionamento esterno che lo potrebbe disturbare. La legge divina, per Epitteto, è questo: “Se vuoi qualcosa di buono, tiralo fuori da te stesso” (ib.1,29,4); è quindi paradossalmente una legge in potere dell’uomo in quanto tale. In un certo senso potremmo dire che l’uomo è legge a sé stesso. Si tratta di un atteggiamento del tutto umanistico, che potremmo qualificare come sapienziale, quello cioè di sapersi rapportare al mondo con totale distacco. Substine et abstine, “sopporta e rinuncia”, è il celebre principio stoico: il mondo non deve disturbarmi, intralciare la mia interiorità personale o semplicemente la mia serenità. Quindi, costruire sé stessi: questa è la legge di dio. Ma il dio di cui parla Epitteto non è certo il Dio del Sinai; è il dio della natura. La legge di cui si parla qui, in sostanza, coincide almeno con una certa interpretazione della legge naturale. E poiché, come scrive Seneca, “non c’è natura senza dio né c’è dio senza natura, ma entrambi sono la stessa cosa” (Sui benefici 4,8,2), va considerata “una innocenza meschina quella di essere virtuosi secondo la legge … infatti le obbligazioni che impongono la pietà, l’umanità, la giustizia, la generosità, la lealtà non stanno scritte sulle tavole ufficiali” (Sull’ira 28,2)!

    Quando però il Nuovo Testamento parla della “legge”, in greco nómos, la intende in un senso molto variegato e comunque intende il termine secondo almeno tre accezioni. Già si discute sulla traduzione di questo vocabolo, almeno in rapporto all’originale ebraico, Torà, che di per sé vuol dire “insegnamento, istruzione”. Il fatto è che il vocabolo ebraico è stato reso in greco appunto con nomos, che propriamente vuol dire “delimitazione”, richiamando l’idea del pascolo perimetrato (poiché deriva dal verbo némō, “distribuire, assegnare; pascolare”). Ebbene, ci sono tre concetti di nomos che sono salvaguardati dal Nuovo Testamento in generale e da Paolo in particolare.

    Il primo, tipico, consiste nel già accennato significato mosaico del termine: la legge è quella data da Dio a Mosè sul Sinai ed eventualmente specificata poi nella tradizione orale del giudaismo farisaico (questa reca il nome di halakà, dal verbo halak, “camminare”). È a questa legge che di fatto si riferisce sempre Gesù. Essa è ristretta dalla tradizione al Decalogo, ma i suoi comandamenti nel Talmud sono ampliati a un totale di ben 613 precetti (intesi come somma dei giorni dell’anno più il numero delle membra del corpo umano), che riguardano gli aspetti più vari dell’agire umano secondo il pio giudeo.

    C’è poi un concetto di conio greco già accennato, inteso non come legge di un Dio personale, ma formulato senza il genitivo come “legge ágrafos”, cioè legge “non scritta”, la quale è equivalente a ciò che un giudeo-ellenista qual è Filone Alessandrino definisce esplicitamene come nómos fýseos, “legge di natura” (Su Giuseppe 29). È quel tipo di norma che già faceva dire ad Antigone che è meglio disobbedire alla legge positiva del re di Tebe, lo zio Creonte, e seppellire invece comunque il fratello, poiché “vi sono delle leggi non scritte” (Sofocle, Antigone 454-455). Questa legge non scritta è, non dico esaltata, ma ammessa da Paolo chiaramente nel capitolo 2 della Lettera ai Romani (versetti 14-15) ed è messa in parallelo con la legge scritta dei Giudei. Cioè: i Giudei saranno giudicati sulla base della legge scritta, mentre i Greci, i gentili, lo saranno sulla base della legge che è scritta nei loro cuori. Quindi anche il cristianesimo ha un concetto positivo di questa legge, e già questo è molto interessante perché si vede che, almeno Paolo, ha lo sguardo aperto anche fuori degli steccati religioso-culturali di provenienza.

    C’è però ancora un altro concetto positivo di legge in Paolo, là dove il termine nómos si riferisce semplicemente ad una parte del canone biblico, e precisamente a quello che noi chiamiamo Pentateuco, i Cinque Rotoli, e che sono identificati semplicemente come grafé, cioè “Scrittura”. E la legge come scrittura è assolutamente un punto di riferimento inevitabile e fondamentale. Nella Lettera ai Romani 3,21, in uno stesso versetto, ci sono i due significati di legge, cioè uno positivo ed uno negativo, quando dice che “ora invece indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio testimoniata dalla legge e dai profeti”. Qui con il binomio legge-profeti Paolo rimanda al canone delle Sacre Scritture, mentre con la prima ricorrenza scarta il significato di cui ora parleremo, cioè la legge (mosaica ma anche naturale) come criterio di giustificazione.

    Ma dicevo del concetto giudaico di “legge di Dio”. ebbene, noi dipendiamo da quel concetto (sia detto per inciso: mi sarebbe piaciuto che il papa Benedetto XVI nella visita alla sinagoga di Roma il 17 gennaio 2010 avesse riconosciuto che il cristianesimo è solo una variante del giudaismo, poiché tra i due non c’è una distinzione simmetrica ma assolutamente asimmetrica: noi siamo figli di Israele più che fratelli minori). All’interno del giudaismo odierno c’è una varietà di significati e di importanza attribuita alla legge: per esempio, il giudaismo riformato americano ammette le donne Rabbino, cosa che il giudaismo ortodosso non fa, poiché, secondo la lettera dell’Antico Testamento e alcuni antichi autori (penso a Giuseppe Flavio e agli antichi rabbini), le donne non sarebbero deputate a svolgere un servizio del genere; eppure c’è un settore del giudaismo contemporaneo che ammette questo fatto.

    In ogni caso nel giudaismo ciò che è fondamentale, anche se abbiamo parlato della grazia di Dio che conduce Israele fuori dall’Egitto, ciò che denota Israele è il Fare. Questo lo ha scritto in termini chiarissimi il celebre psicanalista Eric Fromm, ebreo tedesco, nella sua tesi di laurea discussa nel 1922 e che era proprio intitolata La Legge degli ebrei, dove si dichiara apertis verbis: “La legge chiede l’azione e non la fede”4! È dunque il fare che conta, più del credere. In effetti, se voi togliete al giudaismo la legge, gli togliete l’anima, il midollo della spina dorsale. Ecco perché ai nostri fratelli ebrei l’Apostolo Paolo è assolutamente indigesto. Ed è altamente significativo che il rabbino americano, professore universitario, Jacob Neusner (citato per altre cose anche da Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth), in una sua pubblicazione intitolata A Rabby talks with Jesus dice testualmente che se lui fosse stato tra gli uditori del discorso della montagna, se ne sarebbe tornato deluso a casa sua, al suo villaggio, alla sua famiglia, al suo contesto sociale, perché nelle parole di Gesù c’è una carenza di legge5! Questo è interessantissimo, e io come cristiano paolino sono molto contento che Gesù, a differenza di Mosé, non sia stato un legislatore, perché proprio non lo è!

    Certamente il cosiddetto Medio giudaismo o giudaismo del Secondo Tempio, ovvero quello che va grossomodo dal III secolo a.C. fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito nell’anno 70, e quindi quello contemporaneo di Gesù e di Paolo, con corrisponde esattamente a quello successivo, di impostazione rabbinica, ma è un fenomeno molto sfaccettato. Là ci sono delle correnti in cui la legge è ritenuta una cosa secondaria, come nell’essenismo, e altre correnti come la comunità di Qumran, dove la legge è fondamentale: tuttavia, la comunità di Qumran che, come si legge nel Rotolo della Regola (1QS), si costruisce proprio per studiare e attuare la legge, sorprendentemente precisa che se tu osservi la legge ma non appartieni a questa comunità, non ti serve: come dire che c’è ormai una “comunità della nuova alleanza” (così si autodesignano quelli di Qumran) e se non appartieni a questa comunità, se non fai parte di questo gruppo, di questi’impostazione della vita, la semplice osservanza materiale della legge non serve, non basteranno tutte le acque dei fiumi per purificarti (così in 1QS 2,25-3,7: “Chiunque rifiuti di entrare nel patto di Dio [= nella comunità] … non sarà santificato dai mari o dai fiumi né sarà purificato da tutta l’acqua delle abluzioni”)! Quindi l’appartenenza alla comunità stessa è posta addirittura al di sopra della mera osservanza prassistica della legge.

    2. Gesù

    All’interno del complesso fenomeno del giudaismo del secondo Tempio c’è anche un movimento particolare messo in piedi da un certo Gesù di Nazareth, all’inizio un illustre ignoto, uno che quando ritorna al suo paese dopo 30 anni non viene praticamente riconosciuto e i compaesani si stupiscono del suo parlare perché prima non si era mai fatto notare (cfr. Mc 6,1-6). Il fatto resta qualcosa di straordinario! Egli si farà notare solo negli ultimi 3 anni della sua vita, ma nei lunghi decenni precedenti vissuti nel villaggio di Nazareth non aveva mai attirato l’attenzione: questo è sorprendente… Però quando poi si allontanò da casa e iniziò il suo movimento, chiamiamolo così, prese degli atteggiamenti davvero originali, che suscitarono l’interesse di molti.

    In ogni caso, arrivare al piano del Gesù storico non è cosa facile. Voi sapete che i testi evangelici sono posteriori di decenni alla vita terrena di Gesù, e quindi si pone sempre il problema di sapere se quella parola o quel gesto che leggiamo in quel dato vangelo come attribuiti a lui, davvero ci riferiscano il pensiero e il volto del Gesù terreno o se invece non siano qualcosa che di aggiunto dalla comunità posteriore. Questo è un problema fondamentale per lo studio delle origini cristiane e della figura di Gesù, per arrivare eventualmente a scindere, a precisare quale sia stata davvero la figura storica di questo Nazareno ricostruibile a monte delle varie interpretazioni che ce ne vengono date nei testi che parlano di lui. Questi testi appunto sono tanti, anche a prescindere da quelli apocrifi. Per il fatto stesso che ne siano stati canonizzati 4 la chiesa si è resa la vita difficile. Per me è stato un atto di estrema onestà intellettuale canonizzarne più di uno, anche se ciò avrebbe semplificato di molto le cose, visto che essi sono spesso in discordia tra di loro (Sant’Agostino, usando un ossimoro, parlava di concordia discors).

    A proposito del nostro tema, leggiamo in Matteo che “non passerà uno iota o un solo trattino della legge, senza che tutto sia avvenuto; chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti … sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (5,18-19). Può Gesù aver detto una cosa del genere? A parte che queste parole sono scritte nel testo evangelico e quindi ‘fanno testo’, diciamo così, è legittimo chiedersi: ma Gesù può aver detto davvero queste parole? Un motivo di dubbio può consistere nel fatto che le troviamo solo in Matteo, poiché sono assenti tanto in Marco quanto in Luca come in Giovanni. Sicché viene a cadere uno dei criteri usati oggi dalla critica biblica per ricostruire le parole del Gesù storico, ovvero il criterio della molteplice attestazione. In questo caso non c’è la molteplice attestazione, poiché si tratta di parole presenti solo in Matteo. E il vangelo di Matteo, nel cristianesimo antico, è considerato di fatto uno scritto giudeo-cristiano. Matteo e Paolo sono due poli diversi, e non per nulla Ireneo (seconda metà del II secolo) ci dà la notizia che il gruppo giudeo-cristiano degli Ebioniti, quindi di provenienza giudaica o comunque caratterizzati da una ermeneutica giudaizzante dell’evangelo, ritenevano come unico vangelo Matteo, considerando invece Paolo come apostata dalla legge (cfr. Contro le eresie 1,26,2). Questo dato esemplificativo serve, se non altro, per prendere coscienza di quanto sia complesso il cristianesimo delle origini, plurale e sfaccettato. Comunque, per dirla subito tutta, io ritengo che queste parole non siano gesuane, cioè non siano state pronunciate dal Gesù storico, ma esprimano il punto di vista della comunità matteana, che è giudeo-cristiana e che sta a monte di questo scritto ma anche a valle del Gesù storico6. D’altronde, ogni vangelo ha una sua comunità alle proprie spalle, di cui esso è espressione e che diverge in qualche cosa da quella degli altri scritti; la stessa cristologia non è uguale per tutti i vangeli.

    Ebbene, da uno sguardo d’insieme sulla figura di Gesù e dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo dedurre che Gesù non critica la legge in linea di principio, come farà almeno in parte Paolo. Egli certo non la critica come grafé, quindi come “Scrittura” (e così neanche Paolo), ma esplicitamente non la critica neppure come principio di prassi, di vita morale o istituzionale (a diversità di Paolo); al lebbroso infatti dice: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti” perché così dice la Legge (Mc 1,44). Quindi è certamente vero che Gesù non critica la legge in linea di principio. Tuttavia nella sua pratica di vita si dimostra molto libero nei suoi confronti. Si trova libero nella prassi del sabato, nell’osservanza del sabato, dove preferisce la situazione dell’uomo all’osservanza della norma; abbiamo in Mc 3,1-6 la guarigione in giorno di sabato dell’uomo con la cosiddetta mano secca o rattrappita, ed egli giustifica il proprio intervento col dire che è meglio guarire un uomo che osservare la legge. Questo principio lo si vede ancora di più per quanto riguarda le leggi di purità, che Gesù bellamente sorvola: infatti tocca il lebbroso, tocca il cadavere del figlio della vedova di Nain o della figlia di Giairo, si lascia toccare da una mestruata, che sarebbe fonte di impurità, sta a contatto con un centurione pagano, addirittura vieta a chi decide di seguirlo di seppellire il padre contravvenendo proprio a una norma esplicita. Si vede bene dunque che Gesù è un uomo libero, è libero dalla legge o comunque dalle prescrizioni della legge soprattutto quando questa va ad umiliare l’uomo: questo è il suo criterio7.

    Quanto alle specifiche norme di purità è eloquente il principio enunciato in Marco 7,14-23, secondo cui non ciò che entra nell’uomo contamina l’uomo (si vedano tutte le norme alimentari, che vigono tuttora per i nostri fratelli ebrei, per non dire dei musulmani), bensì ciò che esce dall’uomo. E un po’ a commento di questa prassi di Gesù si potrebbe citare Romani 14,14, dove Paolo scrive: “Non c’è nulla di impuro per sé stesso se non solo per chi lo ritiene tale”. Questo è un principio paolino straordinario, che Gesù stesso avrebbe sottoscritto! Quindi il concetto di purità o impurità è soggettivo, ma non ci può essere e non c’è una norma per il cristiano che delimiti da un punto di vista religioso il menù che devi seguire. Ecco, dunque: il Gesù storico doveva essere un uomo libero. Non sviluppo qui la pur necessaria precisazione, secondo cui la sua sottovalutazione della legge era tutta funzionale alla centralità della persona stessa di Gesù, visto che i suoi discepoli erano chiamati non a studiare la Torà insieme a lui (come nelle scuole dei Rabbi) ma semplicemente a condividere la sua vita.

    3. Paolo

    Veniamo ora alla posizione di Paolo, che all’interno delle origini cristiane è comunque originale. Infatti, sorprendentemente, il comportamento di Gesù, a ben vedere, non sembra che abbia fatto testo e questo è uno delle questioni più interessanti sul passaggio dalla fase gesuana, cioè del Gesù storico, alla fase della chiesa o delle chiese post pasquali. Quando Pietro in Atti 10 non vuole entrare nella casa del pagano perché si sarebbe contaminato, riceve una visione dal cielo di quadrupedi e animali di ogni sorta che lui non vuole mangiare perché alcuni sono impuri, e allora una voce dal cielo invece gli dice: “Mangia e non chiamare impuro ciò che io ho creato puro” (At 10,28). Insomma, c’è da chiedersi se Pietro c’era o non c’era quando Gesù si è pronunciato in quei termini così liberanti? Come mai ha bisogno di una visione dal cielo? Non bastavano le parole di Gesù? Quindi o Gesù non si è espresso nei termini che noi leggiamo oppure i suoi discepoli più vicini non lo hanno capito.

    In effetti, all’interno del cristianesimo delle origini prese corpo quel filone ermeneutico ed ecclesiale che noi oggi chiamiamo “giudeo-cristianesimo”, di cui è esponente massimo Giacomo, fratello del Signore (non uno dei due Giacomo della lista dei Dodici). Questo Giacomo è ampiamente lodato in alcuni testi di stampo giudeo-cristiano (le cosiddette Pseudo-Clementine), in cui è considerato addirittura al di sopra di Pietro e soprattutto contrapposto a Paolo che è identificato con il “nemico” della parabola della zizzania che va a seminare l’erbaccia nel campo del buon grano. Del resto, accennavo poco sopra alla qualifica di Paolo come “apostata” da parte dei giudeo cristiani ebioniti. Avete presente ciò che si legge in Gal 2,11-15 e che successe ad Antiochia di Siria, la città delle prime volte (dove per la prima volta l’annuncio evangelico fu fatto ai pagani, dove per la prima volta i seguaci di Gesù furono detti cristiani, e di dove per la prima volta partì una missione esplicitamente voluta). Proprio lì Paolo aveva speso sé stesso per superare le barriere delle leggi di purità e impurità, che dividevano i cristiani di origine giudaica dai cristiani di origine pagana; nella prassi del mangiare a tavola Pietro in un primo tempo aderisce al principio della commensalità e adotta un comportamento di libertà, ma poi al sopraggiungere di quelli di Giacomo da Gerusalemme (come se fossero del Sant’Uffizio) Pietro fa un voltafaccia e non mangia più con i pagani, sia pure cristiani; egli sovverte in qualche modo quel principio di comunione privo di pregiudizi, che già aveva guidato l’esistenza di Gesù, il quale mangiava liberamente con pubblicani e prostitute. Ecco, Pietro dal punto di vista giudaico appare persino più ‘ortodosso’ di Gesù! Allora è lì che si attiva il rimprovero pubblico di Paolo, e viene fuori almeno questa dualità di atteggiamenti verso la matrice giudaica del cristianesimo. D’altronde, c’è chi ha paragonato le origini cristiane all’arco parlamentare che va da un’estrema destra ad un’estrema sinistra: l’estrema destra sarebbe quella di Giacomo, poi c’è un centro-destra che sarebbe quello di Pietro, poi un centro-sinistra che sarebbe quello di Paolo, ed una sinistra che sarebbe quella del vangelo di Giovanni e della lettera agli Ebrei8. Questo schema potrebbe essere discusso; comunque è certo che alle origini esisteva un ventaglio di ermeneutiche dell’evangelo accompagnato da diverse attuazioni pratiche dell’evangelo stesso.

    Ora, diciamo, Paolo è un innovatore, se non altro perché è anteriore al vangelo di Giovanni e anche, penso io, alla lettera agli Ebrei: anche se questi forse fanno ancora un passo avanti, è Paolo che ha innovato per primo nelle origini cristiane. Ed egli è innovatore rispetto non tanto a Gesù quanto ai giudeo-cristiani, come dicevo poco fa. Quando di ritorno dal terzo viaggio missionario Paolo si trova a Gerusalemme e incontra Giacomo, questi lo rimprovera perché “si sente dire che tu vai in giro a predicare contro la legge di Mosè, ma fai vedere che non è vero” e gli consiglia quell’escamotage di pagare lo scioglimento di un voto nel Tempio di Gerusalemme ad alcuni giudeo-ellenisti; questi vengono poi scambiati per dei Gentili introdotti dove essi non potevano entrare, allora vengono aggrediti e poi si tenta una lapidazione contro lo stesso Paolo, ma subentra l’autorità romana occupante che lo sequestra e lo salva (cfr. At 21,17ss).

    Quindi la posizione di Paolo si capisce bene se rapportata a quest’altro filone, che noi oggi denominiamo appunto con l’etichetta di giudeo-cristianesimo e che individuiamo come fenomeno a parte solo perché è sorto Paolo che gli si è contrapposto9. Proprio lui fu l’imprevisto nel quadro delle origini cristiane; senza di lui il cristianesimo sarebbe certamente andato avanti su di una linea giudaizzante. Ma, senza voler fare il filosofo della storia, possiamo ben ritenere che poi, come spesso succede, ciò che si butta fuori dalla porta rientra poi dalla finestra...

    Per quanto riguarda il rapporto specifico con la legge, sapendo che per Paolo il nómos in prima battuta è essenzialmente la legge mosaica, quella data da Dio stesso (ma in Gal 3,19-20 non è nemmeno chiaro che il datore sia stato proprio Dio!), egli da una parte ammette senz’altro la santità della legge. Come leggiamo in Rom 7, “la legge è buona e santa”, ma egli dice queste parole come mera concessione retorica. Infatti, per conoscere un testo bisogna anche conoscere i suoi destinatari, che ne relativizzano in parte il contenuto; ebbene, i destinatari della Lettera ai Romani sono giudeo-cristiani, poiché la chiesa di Roma era stata fondata prima di Paolo da alcuni cristiani di origine giudaica. Quindi a questi destinatari Paolo concede di ritenere che la legge sia santa, buona, giusta; ma nel contempo egli argomenta chiaramente col dire che essa è tuttavia impotente a giustificare il peccatore davanti a Dio10.

    È importante precisare che il concetto paolino di legge è strettamente connesso con un originale concetto di Peccato (con la P maiuscola)11. In Paolo infatti bisogna distinguere due diversi concetti di peccato. L’uno, minoritario, è quello di impronta farisaica e consiste nel considerare il peccato come trasgressione fattuale della legge, come atto trasgressivo di una prescrizione, di un comandamento. Da questo punto di vista si può e si deve parlare al plurale di “peccati”, come leggiamo in 1 Cor 15,3: “Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”. Ma non per nulla questo testo non è paolino, essendo invece un testo di tradizione che viene citato. Di suo, invece, quando Paolo parla di peccato/hamartía, ne parla al singolare (51 volte su 58 ricorrenze) e gli riconosce tre caratteristiche: l’universalità, in quanto tutti peccano (ma questo lo diceva anche Seneca, quindi non è la cosa più originale: tutti trasgrediscono almeno una legge), la personificazione, perché è fatto soggetto di vari verbi (entra nel mondo, regna, signoreggia, abita addirittura in me, in casa mia [cfr. Rom 7,17: “Non sono io che faccio il male, ma il peccato che abita in me”]), e infine la sua precedenza rispetto alla legge stessa e quindi anche a tutte le sue trasgressioni possibili. Quindi nell’ottica di Paolo c’è una situazione, uno status di peccato in cui gli uomini sono immersi, senza una loro personale responsabilità.

    Per uscire da questo invischiamento non basta che un altro muoia per me. Sono piuttosto io che devo morire ad esso. Ebbene, questo Peccato si supera solo con la mia partecipazione alla morte di Cristo: non soltanto ritenendo che la sua morte è valida per me, ma per il fatto che io sono addirittura personalmente morto con lui. A questo proposito il testo paolino fondamentale è Rom 6,1-11. Certo è che una morte subìta da altri per me può valere per i miei peccati, ma qui si tratta di un Peccato che non è mio, poiché mi ci trovo dentro prima di ogni mio peccato. Quindi vengono sovvertite anche tutte le liturgie sacrificali (del giudaismo o altro). Si tratta invece di una concezione originalissima, che porta in primo piano una concezione “mistica” dell’identità cristiana: mistica nel senso di “partecipativa”, poiché comporta un transfer da una signorìa a un’altra12. Si vede bene dunque che il punto di partenza della critica che Paolo fa alla legge non è una riflessione sulla legge stessa o, come si dice con un termine tecnico, non è una toralogia, cioè non è una riflessione sul fatto che la legge possa giustificare o meno e che la natura umana sia debole cosicché nessuno mai riuscirebbe a mettere in pratica tutti i comandamenti. Paolo non parte da una considerazione negativa della legge, anzi lui stesso dice in un testo autobiografico di essere stato “irreprensibile per quanto riguarda l’osservanza della legge” (Fil 3,6). Il punto di partenza della critica paolina alla legge non è nient’altro che la considerazione della decisività di Cristo, è la figura stessa di Gesù Cristo e della sua portata soteriologica: “Tutti hanno peccato, ma sono giustificati gratuitamente per grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù” (Rom 3,24).

    All’inizio quindi della svalutazione della legge non c’è una toralogia, ma c’è la cristologia, c’è una attenta valutazione di ciò che Cristo significa per me e, diciamo pure, per tutti gli uomini. È lui che mette in scacco il valore della legge: “Fine della legge è Cristo” (Rom 10,4)! Di qui si comprende anche l’assioma di Rom 3,28: “Riteniamo quindi che venga giustificato per fede un uomo senza opere di legge”. Nell’originale greco di questa frase, a differenza delle traduzioni, non ci sono articoli così che viene messo in rilievo il valore assoluto dei termini. La mancanza dell’articolo invita a considerare la natura delle cose, più che questo uomo qui o quella legge là. E se Lutero nella sua traduzione tedesca aggiunge l’avverbio “allein”/soltanto, fa un errore di traduzione perché nel testo greco non c’è, ma interpreta esattamente il pensiero del’Apostolo. D’altronde, l’avverbio “soltanto” è tradizionale, essendo già presente nella traduzione del primo commento alla lettera ai Romani di Origene (III secolo) fino almeno a Tommaso d’Aquino, che parla di fides scilicet sola … ac si totum fecisset (= colui che crede in Cristo, per il solo fatto di credere, è !come se avesse fatto tutto” [!], evidenziando ancora di più con il suo costrutto latino il valore insostituibile e persino sufficiente della fede). Infatti, chi regge la comparazione con la figura di Gesù non è certamente Mosè, che anzi in Galati 3 è presentato solo come una parentesi tra la promessa fatta ad Abramo (che risponde alla promessa soltanto mediante la fede) e la venuta di Gesù Cristo a cui ci si rapporta solo mediante la fede (cfr la versione CEI di Gal 2,16: “L’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo”, dove il soltanto nel testo greco non c’è!). Addirittura in Gal 3,23 si paragona la situazione dell’uomo sotto la legge a quella di un carcerato, e in Gal 4,1-2 a quella di un minorenne…!

    Dunque il punto di riferimento per Paolo non è Mosè, ma è Abramo, perché questi si rapportò a Dio prima di ogni legge e solo mediante la fede, come si legge in Gen 15,6 che Paolo cita ben due volte (in Gal 3,6 e in Rom 4,3): “Abramo credette e gli fu computato a giustizia”, cioè fu ritenuto giusto da Dio, e giusto vuol dire santo! Abramo aderì alla parola di Dio e la accolse prima di fare qualunque opera (infatti di circoncisone si parla solo in Gen 17 e il sacrificio di Isacco è narrato solo in Gen 22). La legge invece propriamente non va creduta, ma va solo osservata, cioè va messa in pratica, come suggerisce anche il sintagma paolino “le opere della legge”, riferito alle opere che la legge prescrive di fare.

    Si potrebbe anche dire che Paolo va oltre Abramo e propone come antonimo di Gesù uno che non è neanche ebreo, ma è semplicemente uomo, il primo uomo: “Adamo”. A lui corrisponde un ultimo Adamo che è Gesù (1Cor 15,45), come dire che Gesù è l’uomo nuovo; non per nulla chi aderisce a Gesù secondo Paolo è una creatura nuova (2Cor 5,17; Gal 6,15). Infatti, se dall’uno è provenuto il Peccato con la condanna, dall’altro proviene soltanto il dono della grazia giustificante (Rom 5,15-16).

    In Gal 5,1 c’è poi una frase famosa: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”, e nel contesto dell’argomentazione della lettera la libertà di cui si parla qui non è propriamente la libertà dal peccato, ma è piuttosto la libertà dalla legge. In Gal 5,4 Paolo scrive arditamente: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge, siete decaduti dalla grazia”! Io mi chiedo quante volte questo concetto venga davvero annunciato, presentato, sottolineato nella predicazione e nella catechesi. Vi confesso che, se l’anno paolino appena celebrato non avesse portato ad appropriarsi di questa tematica, non sarebbe servito a niente; anzi, la stessa indizione di un anno sacerdotale immediatamente successivo lascia supporre che l’anno paolino è servito a ben poco (visto che nelle lettere e nelle chiese paoline non c’è nessun ministero di tipo sacerdotale). Queste constatazioni, se non altro, servono per riconoscere che Paolo è sempre avanti a noi e che in lui c’è sempre qualcosa da esplorare.

    A questo punto viene il discorso sull’etica. E a questo proposito, per andare subito al nocciolo delle cose, trovo illuminante una frase di Lutero nel suo commento alla Lettera ai Romani (su 3,20): “Non è facendo le cose giuste che diventiamo giusti, ma se siamo giusti facciamo le cose giuste” (Non enim iusta operando iusti efficimur, sed iusti essendo iusta operamur); egli del resto lo ripete nella sua Lettera sulla libertà cristiana indirizzata a Leone X (§ 36: “Buone, pie opere non fanno mai un uomo buono e pio; ma un buono, pio uomo fa buone, pie opere”)13. Questo è autenticamente Paolo! L’accento fondamentale e primario è posto non sull’agire ma sull’essere (vedi al contrario Eric Fromm citato al’inizio, che peraltro è nientemeno che sulla linea di Aristotele, Etica Nicomachea 1103ab: “Compiendo atti giusti si diventa giusti”, ma non a caso il filosofo sta parlando delle virtù, che è un concetto non paolino!). Quando Paolo definisce i suoi destinatari “santi” (1Cor 1,2; 2Cor 1,1) è perché sono “santificati” in Cristo Gesù.

    C’è dunque un ‘essere’ che precede l’‘agire’! E’ quindi assolutamente fondamentale rendersi conto che l’originalità del cristianesimo (se volete diciamo pure del cristianesimo paolino) sta in un atto del tutto pre-morale, quello della fede e quindi della grazia, che è anteriore a ogni nostro impegno etico o comportamentale. Se riduciamo il cristianesimo a moralità, non abbiamo nulla di originale da dire sul mercato delle religioni! Persino il perdono delle offese si trova in Musonio Rufo, che è uno stoico romano contemporaneo di Paolo. Persino la condanna dell’adulterio, della contraccezione e della pederastia, che non si trova esplicita nel Nuovo Testamento, la troviamo invece in un’iscrizione di un culto privato pagano del 100 a.C. rinvenuta in una casa a Philadelphia in Licia (a sud di Efeso)14. Ciò che di originale ha da dire il cristiano è che già prima della morale si gioca la nostra identità. Prima! Com’è il caso del buon ladrone (riportato dal commento di Origene) o il caso di uno che è stato battezzato ma muore subito dopo (riportato dal commento di Tommaso d’Aquino). La grazia di Dio in Gesù Cristo, che io peccatore accolgo in un atto di fede: questo è pre-morale. La morte di Gesù è pre-morale. La mia adesione/partecipazione a/in Lui è assolutamente pre-morale.

    Dire pre-morale non vuol dire certo scaricare le responsabilità morali del cristiano. Iusti essendo, iusta operamur, dice Lutero: se siamo giusti noi facciamo le cose giuste. È il principio dell’albero, insomma, che dà i frutti conformi alla propria natura. È quindi sull’albero e sulle sue radici che semmai bisogna agire, non sui frutti che vengono dopo! Certo è per quanto riguarda l’uomo non conta il paragone necessitante della natura, di ciò che avviene nella botanica, perché nell’uomo c’è la libertà. Però a proposito di chi aderisce a Gesù Cristo, Paolo dice addirittura che è “connaturato” (Rom 6,5: sýmfytos) a lui, sicché dovrebbe scaturirne un ethos confacente a questa radice. Ecco perché Paolo dedica ben 11 capitoli della sua Lettera ai Romani per presentare e dettagliare i costitutivi fondanti dell’identità cristiana, e solo tre capitoli (12,1-15,13) alle sue conseguenze etiche. Mi chiedo se per caso non abbiamo invertito i termini nelle nostre prediche, nelle nostre omelie o trattati… Se non altro, ci resta molto lavoro da fare.

     NOTE

    1 Cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone tempi luoghi forme credenze, Carocci, Roma 2010.

    2 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, pag. 272.

    3 Cf. A. Lemaire, Naissance du monothéisme. Point de vue d’un historien, Bayard, Paris 2003; J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, il Mulino, Bologna 2009.

    4 Ed. Rusconi, Milano 1993, pag. 27.

    5 Traduzione italiana: “Un rabbino parla con Gesù”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pagg. 182-193.

    6 Cfr. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria –I. Gli inizi, Nuova edizione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pag. 74, nota 136.

    7 Cfr. R. Penna, Op.cit., pagg. 74-86.

    8 Così lo studioso americano R.E. Brown con J.P, Meier, Antioch and Rome, New Testament cradles of catholic christianity, Paulist Press, New York 1983, pagg. 2-8 (trad. ital.: Cittadella, Assisi 1987).

    9 Cfr. in breve C. Gianotto, Giacomo e il giudeocristianesimo antico, in: G. Filoramo – C. Gianotto (a cura),Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, pagg. 108-119.

    10 Cfr. S. Romanello, Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto, Supplementi alla Rivista Biblica 35, EDB, Bologna 1999.

    11 Cfr. R. Penna, “Origine e dimensione del peccato secondo Paolo: echi della tradizione enochica”, in: Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Studi sulla Bibbia e il suo ambiente 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pagg. 391-418.

    12 Si veda in materia il classico studio di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Biblioteca teologica 21, Paideia, Brescia 1986, specialmente le pagg- 634-647.

    13 Cfr. rispettivamente: Lezioni sulla lettera ai Romani (1516-1517), a cura di G. Pani, vol. I, Marietti, Genova 1991, pag. 185; La libertà del cristiano (1520), a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 2005, pag. 169.

    14 Cfr. R. Penna, “Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto”, in: Id., Vangelo e inculturazione, cit., pagg. 746-770.

    (da: https://www.statusecclesiae.net/status/vangelo_tre.php?pagina=penna_legge_vangelo.php)


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