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    Il capitolo 6 di Giovanni

    Lectio sulle domeniche dell'anno B

    Enzo Bianchi


    XVII domenica del tempo Ordinario B
    Condivisione e dono dei pani

    Gesù ci ha insegnato che non può esistere una regalità umana né per la chiesa né per i cristiani: i cristiani regnano solo quando servono i fratelli, quando spendono la vita per loro

    Gv 6,1-15
    Il brano evangelico di domenica scorsa narrava il tentativo da parte di Gesù di ritirarsi in disparte, insieme ai suoi discepoli, per riposare un poco. Questo progetto però fallisce, perché nello sbarcare all’altra riva del lago di Galilea essi scoprono di essere stati preceduti da una grande folla bisognosa della parola di Gesù, vero cibo capace di saziare la fame di ogni uomo; allora “Gesù si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose” (Mc 6,34). E il racconto prosegue con la moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44 e par.) operata da Gesù in favore di quelle persone… Con grande intelligenza spirituale il lezionario tralascia a questo punto la lettura cursiva del vangelo secondo Marco, proponendo all’attenzione dei cristiani lo stesso episodio della moltiplicazione dei pani e la sua interpretazione eucaristica secondo il quarto vangelo: per alcune domeniche sosteremo dunque sul capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni.
    Di fronte alla numerosa folla che li attende, Gesù rivolge a Filippo una precisa domanda: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Quest’ultimo registra la reale impossibilità di sfamare tante persone – “duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” – e Andrea aggiunge: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. Siamo di fronte a una situazione di stallo, non sembrano esserci vie d’uscita umanamente praticabili. Ed ecco che Gesù prende l’iniziativa con sovrana gratuità: fatta sedere quella moltitudine, “prese i pani e, dopo aver reso grazie – parole che costituiscono un chiaro rimando al gesto eucaristico – li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero”. Ma c’è di più: con i pezzi avanzati si riempiono dodici canestri…
    I quasi cinquemila uomini presenti restano impressionati da tale evento, e subito affermano a proposito di Gesù: “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!”. Sì, il profeta promesso da Dio per gli ultimi tempi, il profeta uguale a Mosè (cf. Dt 18,15-18) è ormai presente in mezzo al suo popolo: occorre pertanto incoronarlo re, occorre riconoscergli il potere politico, poiché egli è capace di soddisfare le attese della gente… Ebbene, è proprio a questo livello che emerge la differenza e si consuma la frattura tra la folla e Gesù, che pure si era mostrato accogliente verso di essa, fino a sfamarla con grande compassione: quando Gesù comprende che il gesto da lui compiuto non aveva suscitato la fede nella sua persona, ma, al contrario, era servito solo a fomentare attese mondane, subito “si ritira di nuovo sulla montagna, tutto solo”.
    Egli è consapevole che questa sua reazione deluderà le attese di molti, ma non può acconsentire a questi facili entusiasmi e ai progetti politici che ne derivano. Gesù infatti non era venuto nel mondo per diventare un re tra i re di questa terra (cf. Gv 18,35-38), non era venuto per conquistare un potere e godere di riconoscimenti mondani. Egli non ha moltiplicato il pane per compiere un miracolo, un atto strabiliante in grado di impressionare le folle, ma lo ha fatto per dare loro un “segno” (cf. Gv 6,26), cioè un segnale: occorre non arrestare lo sguardo sui pani moltiplicati, ma dirigerlo verso colui che ha compiuto tale gesto, Gesù, perché egli è “il pane della vita” (Gv 6,35), l’unico pane capace di sfamare per la vita eterna (cf. Gv 6,51).
    Davvero Gesù “sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2,25), e quindi non si illude e non illude le persone che incontra. Quante volte invece uomini di chiesa o semplici cristiani paiono intenti unicamente a organizzare il consenso, a cercare di impressionare l’uditorio e, nello stesso tempo, a riporre la loro fiducia nelle folle facilmente suggestionabili! No, Gesù ci ha insegnato che non può esistere una regalità umana né per la chiesa né per i cristiani: i cristiani regnano solo quando servono i fratelli, quando spendono la vita per loro, amandoli gratuitamente fino alla fine (cf. Gv 13,1). Solo così essi possono essere autentici discepoli di Gesù Cristo, “il pane di Dio che discende dal cielo e dà la vita per il mondo” (Gv 6,33).

    XVIII domenica del tempo Ordinario B
    La moltiplicazione dei pani

    Dalla pagina evangelica odierna emerge per noi con chiarezza una semplice domanda: sappiamo ascoltare in profondità Gesù e, soprattutto, lasciare che sia lui a orientare la nostra ricerca?

    Gv 6,24-35
    «Quando la folla vide che Gesù non era più là, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù». Il giorno prima, di fronte al segno della moltiplicazione dei pani compiuto da Gesù, la gente voleva acclamarlo re; Gesù allora si era ritirato sulla montagna (cf. Gv 6,15), perché solo con questo suo sottrarsi ad attese mondane poteva insegnare che egli è un Messia «altro», che il suo regno non è di questo mondo (cf. Gv 18,36).
    La folla però persiste in questa sua ricerca ostinata di Gesù e, trovatolo aldilà del mare di Galilea, gli chiede: «Rabbi, quando sei venuto qui?». Ma il vero problema non è sapere quando Gesù sia giunto in questo luogo, bensì interrogarsi sulle motivazioni profonde per cui lo si cerca. Ed è lo stesso Gesù a mettere a nudo questa differenza cruciale, ri-orientando la «fame» della gente: «in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Egli vuole spostare l’attenzione di queste persone, chiedendo loro di mutare il loro bisogno di cibo in desiderio di un altro cibo, quello che viene da Dio: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà». Come sempre nel quarto vangelo, occorre passare dalla visione del segno alla contemplazione nella fede di chi lo ha compiuto, Gesù, l’Inviato di Dio, «colui sul quale Dio ha posto il suo sigillo».
    Udite queste parole, la folla entra in dialogo con Gesù, ma con un atteggiamento di fondo sviante, come se la salvezza fosse qualcosa che l’uomo deve conquistare facendo opere meritorie: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». Gesù allora ribadisce nuovamente che all’uomo è chiesto solo di saper accogliere un dono, di rispondere con la fede al dono per eccellenza fatto al mondo dal Padre, quello del Figlio amato: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato». L’evangelista del resto lo aveva già detto, commentando l’incontro tra Gesù e Nicodemo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16)…
    E questa fede nasce dall’ascolto obbediente di Gesù, proprio quello che la folla qui non riesce a compiere, rifugiandosi invece ancora una volta nella pretesa di avere da lui dei segni, dei «miracoli» capaci di rassicurare con la loro evidenza: «Quale segno tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?». Anzi, questa volta i giudei rivestono le loro parole di un’aura religiosa, sacrale, ricordando a Gesù l’evento straordinario della manna donata a Israele nel deserto (cf. Es 16,11-36); e per rendere ancora più solenne la loro richiesta citano un versetto del salmo: «Diede loro da mangiare un pane dal cielo» (Sal 78,24).
    Gesù, lui sì, sa porsi in ascolto dei suoi interlocutori, si sforza di partire dalle loro parole per convertire i loro sguardi e condurre alla fede i lori cuori. Essi hanno parlato della manna e, a questo proposito, Gesù li fa risalire dal dono al Donatore: «non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero». Insomma, la manna era un cibo che nutriva i corpi, ma restava un cibo che perisce; per gli occhi illuminati dalla fede poteva però essere un segno, il segno che rimandava alla realtà del pane vero: «il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
    A questo punto la folla, che sembra incominciare a compiere quel movimento interiore indicatole da Gesù, gli chiede: «Signore, dacci sempre questo pane», così come la donna samaritana, colpita dalla sua autorevolezza, gli aveva detto: «Signore, dammi di quest’acqua perché non abbia più sete e non continui a venire al pozzo ad attingere» (Gv 4,15).
    Gesù, in risposta, consegna la rivelazione centrale di questo capitolo sesto: «Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete». Essa sarà poi ulteriormente precisata da un lungo discorso che mediteremo nelle prossime domeniche, in cui Gesù farà il grande annuncio eucaristico, concludendolo con queste parole: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51.58).

    XIX domenica del tempo Ordinario B
    Condivisione e dono dei pani

    Se Dio aveva risposto alla mormorazione dei figli di Israele nel deserto con il dono della manna (cf. Es 16,11-36), qui Gesù risponde con il dono di se stesso, con il dono di una vita spesa fino alla morte per i fratelli (cf. Gv 13,1).

    Gv 6,41-51
    Dopo il segno della moltiplicazione dei pani compiuto da Gesù (cf. Gv 6,11-13) e il suo ritiro nella solitudine per evitare l’acclamazione a re da parte della folla (cf. Gv 6,14-15), questa stessa folla continua a cercare Gesù (cf. Gv 6,22-25); egli però “non mette fede nella loro fede” (Gv 2,24), ma chiede di mutare la loro ricerca di cibo in desiderio di Dio: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà” (Gv 6,26-27). Gesù infatti, disceso dal cielo, è “il pane di Dio” (Gv 6,33), è “il pane della vita” (Gv 6,35): chi ha fede in lui è nutrito per la vita eterna...
    Di fronte a queste parole di Gesù i capi religiosi rispondono con la mormorazione, come avevano fatto i loro padri durante l’esodo nel deserto (cf. Es 16,1-10; 17,1-7; ecc.). Mormorare: questa contestazione nascosta e sottile, sussurrata all’orecchio di altri al fine di creare dei complici, questa lamentela che incrina la vita comunitaria e guasta i rapporti fraterni è un peccato grandemente stigmatizzato da tutta la Scrittura. Nei vangeli, in particolare, l’oggetto della mormorazione è Gesù, il quale sperimenta così in prima persona ciò che da sempre tocca ai profeti. I capi dei giudei contestano le parole con cui Gesù si era dichiarato “il pane disceso dal cielo”, sulla base della falsa pretesa di conoscere Gesù, da loro ritenuto nient’altro che un uomo semplice e ordinario: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (cf. anche Mc 6,1-3 e par.).
    Ecco l’epifania dell’incredulità astiosa verso Gesù, il quale però svela immediatamente l’atteggiamento dei suoi interlocutori – “Non mormorate tra di voi!” – e riconosce che in loro non c’è fede; manca cioè l’obbedienza all’azione del Padre che attira tutti gli uomini verso il Figlio. In questo modo Gesù compie una grande confessione di fede nell’iniziativa di Dio, che si manifesta non solo nell’invio del Figlio amato nel mondo (cf. Gv 3,16), ma anche nel movimento che porta i credenti verso di lui (cf. Gv 6,37): è grazia il dono di Gesù agli uomini, così come lo è la chiamata degli uomini ad aderire al Figlio!
    Questa verità va però ben compresa: la fede è dono del Padre, ma la risposta dell’uomo resta libera; e il rifiuto che i capi religiosi oppongono a Gesù indica precisamente questa libertà, che può giungere fino a una resistenza colpevole all’attrazione esercitata da Dio, al non ascolto della sua Parola, alla cecità di fronte al segno della moltiplicazione dei pani. Davvero l’unica grande opera richiesta all’uomo è la fede, l’adesione salda a Dio e a colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 6,28-29). Se infatti c’è questa fede obbediente che si nutre di ascolto del Padre, se cioè si è “ammaestrati da Dio” (cf. Is 54,13), allora si è condotti anche a credere in Gesù, e così si può partecipare alla vita per sempre, alla vita senza tramonto. Dirà più avanti Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)…
    Se Dio aveva risposto alla mormorazione dei figli di Israele nel deserto con il dono della manna (cf. Es 16,11-36), qui Gesù risponde con il dono di se stesso, con il dono di una vita spesa fino alla morte per i fratelli (cf. Gv 13,1). Chi accoglieva il dono della manna si chiedeva: “Man hu: che cos’è?» (Es 16,15); ora il dono che Gesù fa di se stesso dovrebbe suscitare allo stesso modo la domanda sulla sua identità: “Chi è Gesù?”. Egli è colui che dal cielo è disceso in mezzo agli uomini, per offrire in dono se stesso come pane che dà vita, fortifica e sostiene. Ecco perché Gesù opera proprio un paragone con la manna: “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”. Sì, chi mangia il pane vivo che è Gesù stesso, chi si nutre della sua parola e della sua vita partecipa già ora della vita di Dio, in attesa della vita per sempre nel Regno!

    XX domenica del tempo Ordinario B
    Mangiare la carne e bere il sangue di Cristo

    Gv 6,51-58
    L’ordo delle letture bibliche dell’annata liturgica B ha previsto che, giunti nella lettura cursiva di Marco all’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44), si interrompa la lettura del vangelo più antico e la si sostituisca con la lettura dello stesso episodio narrato nel quarto vangelo. Per cinque domeniche si legge dunque il capitolo 6 di Giovanni, un testo che richiede una breve introduzione generale.
    In verità questo capitolo, tutto incentrato sul tema del “pane di vita”, che mai appare altrove, appare piuttosto isolato nello svolgimento del racconto giovanneo. Con buona probabilità, si tratta di un brano aggiunto più tardi per dare alla chiesa giovannea una catechesi sull’eucaristia, il cui racconto è mancante nel quarto vangelo, sostituito da quello della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17). Se questa ipotesi fosse vera, questo capitolo diventerebbe ancora più importante, perché proprio trattando il tema dell’eucaristia si conclude con la confessione dell’identità di Gesù: per i giudei è il figlio di Giuseppe, semplicemente un uomo della Galilea (cf. Gv 6,42), mentre Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, colui che è suo Padre (cf. Gv 6,40); e ciò è confermato da Pietro e dagli altri discepoli, che riconoscono in lui “il Santo di Dio” (Gv 6,69).
    51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
    52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
    Questa pagina del vangelo secondo Giovanni è tra le più scandalose di tutti i vangeli, può addirittura risultare ripugnante a chi non sta nello spazio “dentro” (éso), lo spazio dell’intimità con il Signore. Chi l’ha scritta ha faticato per far comprendere ciò che doveva affermare, di fronte a una fede gnostica che non accettava l’umanità, la carne umana nella sua debolezza quale luogo in cui incontrare Dio. Eppure, secondo il quarto vangelo, Dio ha scelto che la sua manifestazione definitiva, la sua rivelazione decisiva fosse l’umanità come carne debole di Gesù (cf. Gv 1,14.18), un galileo che andava verso la morte. Tentiamo dunque con molta umiltà di leggere questa pagina.
    Gesù aveva detto: “Io sono il pane vivente, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Questo annuncio appariva una pretesa intollerabile, un’affermazione irricevibile e, come tale, aveva suscitato mormorazione e discussione (cf. Gv 6,41-42). Qui nasce un’aspra discussione, una vera e propria battaglia verbale tra gli ascoltatori di Gesù: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Ed egli risponde loro con espressioni ancora più scandalose, rendendo il suo annuncio più duro e urtante, in modo da togliere ogni possibilità di comprendere le sue parole in modo semplicemente parabolico, in modo intellettuale, raffinato ma gnostico: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita eterna”.
    Era già uno scandalo pensare di poter mangiare la carne del Figlio dell’uomo, ma bere il sangue è un’azione gravemente peccaminosa, vietata dalla Legge e dunque ripugnante per i credenti nell’alleanza sancita da Mosè. Su questo non c’erano dubbi. Nella Torah, infatti, sta scritto: “Ogni uomo, figlio di Israele o straniero, che mangi qualsiasi tipo di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita (nephesh) della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11). L’ebreo sapeva che l’umanità fino ai giorni di Noè non si era nutrita della carne di animali ma unicamente di vegetali e che solo nell’economia dopo il diluvio Dio aveva permesso e tollerato le carni animali come nutrimento, ma a una precisa condizione: “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita (nephesh), cioè con il suo sangue” (Gen 9,4). Questo comando, che indica un rispetto della vita, rappresentata dal sangue, era talmente importante che gli apostoli lo manterranno anche per i cristiani provenienti dalle genti (cf. At 15,20.29; 21,25).
    Eppure Gesù annuncia che per avere parte alla vita eterna, alla vita di Dio, per conoscere la salvezza, è necessario mangiare – o meglio “masticare”, stando al verbo greco utilizzato (trógo) – la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue? Perché questo realismo nelle parole di Gesù secondo il quarto vangelo, parole che non risuonano né negli altri vangeli né nel resto del Nuovo Testamento? Perché questo linguaggio proprio nel vangelo che non ricorda l’istituzione eucaristica, ma la sostituisce con il racconto della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17)? Certamente l’autore di questo racconto si serve di un linguaggio che vuole affermare come la partecipazione al pane e al calice di Gesù Cristo sia partecipazione al suo corpo e al suo sangue. Ma a mio avviso vuole andare più in profondità nella comprensione dell’eucaristia.
    Ciò che vuole farci comprendere è che l’incarnazione, cioè l’umanizzazione di Dio, va accolta seriamente, senza riserve e senza pensieri che rispondono più al bisogno religioso dell’umanità che all’azione di Dio. La verità è che Dio si è fatto uomo in Gesù affinché lo cercassimo e lo trovassimo, per quanto ci è possibile, nella condizione umana. Dio ha voluto condividere con noi proprio la nostra umanità, la nostra stessa carne, perché noi potessimo realmente conoscere il suo amore, non come qualcosa da credere, ma come qualcosa che comprendiamo e sperimentiamo attraverso e nella nostra carne. Gesù è questa carne che possiamo incontrare nella nostra carne, è questo corpo che possiamo incontrare solo nella nostra corporeità. Perché noi potessimo partecipare alla vita di Dio – “diventare Dio”, come si esprimevano gli antichi padri della chiesa d’oriente – era necessario che Dio diventasse uomo e che carne e carne, corpo e corpo si incontrassero realmente. L’amore espresso solo a parole, anche nella rivelazione non era sufficiente: occorreva una carne umana che raccontasse (exeghésato: Gv 1,18) Dio, una carne umana che, amando la nostra umanità, ci narrasse l’amore di Dio, o meglio il “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16). Questa nostra carne, che ci dice la nostra debolezza, la nostra fragilità, la nostra morte, questa carne che a volte pensiamo di negare o dimenticare in favore di una “vita spirituale”, per poter incontrare Dio, proprio questa carne è stata assunta da Dio e non è un ostacolo alla comunione con lui, ma anzi è il luogo ordinario dell’incontro con Dio.
    Le parole eucaristiche di Gesù, in questo sesto capitolo di Giovanni, in profondità ci dicono che incarnazione di Dio, resurrezione della carne ed eucaristia esprimono insieme il mistero della nostra salvezza. Nella nostra povera carne, nel “corpo di miseria” (Fil 3,21) che noi siamo, proprio lì noi incontriamo Dio, perché in Gesù “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Carne da masticare e sangue da bere sono la condizione in cui Gesù si consegna a noi, in cui Dio si dà a noi, raggiungendoci là dove siamo e non chiedendo a noi di salire alla sua condizione divina, azione per noi impossibile e solo frutti di un orgoglio religioso malato. Entrando in noi, la carne e il sangue di Cristo ci trasformano, per partecipazione in carne e sangue di Cristo, producendo ciò che a noi è impossibile: diventare il Figlio di Dio in Cristo stesso, l’Unigenito amato dall’amante, il Padre, con un amore infinito, lo Spirito santo. Chi mangia la carne e beve il sangue di Cristo conoscerà la resurrezione, vivrà per sempre, in una salda comunione con Cristo per la quale rimane, dimora (verbo méno) in Cristo, così come Cristo rimane, dimora in lui: corpo nel Corpo e Corpo nel corpo!
    Lo stesso Giovanni nel prologo della sua Prima lettera, parlando dell’esperienza di Gesù da lui fatta, scrive: “Ciò che noi abbiamo ascoltato, visto e toccato del Verbo della vita…” (cf. 1Gv 1,1), cioè di Gesù. E in questa pagina del vangelo è come se arrivasse a dire: “Ciò che abbiamo mangiato, gustato di Gesù”, attraverso l’eucaristia, è la nostra vita!

    XXI domenica del tempo Ordinario B
    "Volete andarvene anche voi?"

    Gv 6,60-69
    60 Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?». 61 Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62 E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? 63 È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. 64 Ma vi sono alcuni tra voi che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E continuò: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio».
    66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
    67 Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». 68 Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; 69 noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

    Siamo giunti alla fine del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni e in questi ultimi versetti ci viene posto davanti tutto l’urto, lo scandalo che le parole di Gesù hanno causato non solo nelle folle dei giudei ma anche tra i suoi discepoli.
    Questa crisi nelle relazioni tra Gesù e la sua comunità è testimoniata da tutti e quattro i vangeli al momento di una parola decisiva di Pietro che confessava, anche se non pienamente, l’identità di Gesù come Messia (cf. Mc 8,29 e par.) e come inviato dal Padre quale Figlio. Perché questa crisi? Perché le parole di Gesù a volte erano dure e urtavano anche gli orecchi di discepoli che lo seguivano con devozione ma non riuscivano ad accettare, ritenendola una pretesa, che Gesù fosse “disceso dal cielo” e che nella carne di un corpo umano fragile e mortale raccontasse il Dio vivente. Nel suo discorso Gesù aveva detto più volte: “Io sono il pane vivente disceso dal cielo” (Gv 6,51; cf. 6,33.38.41-42.58), ma proprio quelli che lo avevano acclamato come “il grande profeta che viene nel mondo” (cf. Gv 6,14) e che avevano voluto farlo re (cf. Gv 6,15), di fronte a queste parole si sentono scandalizzati nella loro fede. Profeta sì, ma disceso dal cielo e corpo consegnato (verbo paradídomi) fino alla morte violenta, corpo da mangiare e sangue da bere (cf. Gv 6,51-56), questo proprio no: sono parole che suonano come una pretesa insopportabile, impossibili da ascoltare!
    Gesù, che conosce queste mormorazioni dei discepoli contro di sé, a questo punto non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione tra i suoi e un abbandono della sua sequela. Potremmo dire che “attacca” i mormoratori: “Questo vi scandalizza? E quando vedrete il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”. Cioè, “quando sarete messi di fronte alla realtà del Figlio dell’uomo che, attraverso l’innalzamento sulla croce, sale a Dio dal quale è venuto (cf. Gv 3,14; 8,28; 12,32); quando sarà manifestata la mia piena identità di colui che è disceso da Dio e che a Dio è risalito nella sua umanità assunta come condizione carnale, mortale, ‘simile alla carne del peccato’ (Rm 8,3), allora lo scandalo sarà più grande!”. Gesù fa questo attacco soffrendo tutto il peso dell’incredulità, della non comprensione da parte di quelli che da anni erano coinvolti con lui e assidui alla sua parola. Com’è possibile questo loro comportamento?
    Ecco perché egli non può fare altro che constatare che in realtà nessuno può venire a lui se il Padre non lo attira, non glielo concede. Occorre questo dono che non è dato arbitrariamente da Dio ma va cercato, va accolto come dono che non richiede alcun merito da parte di chi lo riceve. Ma anche questo scandalizza le persone religiose, che pretendono sempre che Dio faccia doni non solo secondo i loro desideri ma anche secondo quanto hanno meritato e conseguito. Ciò che di Gesù è scandaloso è il suo consegnarsi in una carne fragile e in un corpo mortale a carni fragili e corpi mortali, cioè gli umani. Com’è possibile che Dio si consegni in un uomo, “il figlio di Giuseppe” (Gv 6,42), creatura che può essere consegnata, tradita, data in mano ai peccatori, come farà proprio uno dei Dodici, Giuda, un servo del diavolo (cf. Gv 6.70)? Qui la fede inciampa nel dover accogliere l’immagine di un “Dio al contrario”, di un “inviato divino, un Messia al contrario”, che è fragile, povero, debole e del quale gli uomini possono fare ciò che vogliono… È lo scandalo dell’umanizzazione di Dio, patito lungo i scoli da molti cristiani, da molte chiese, dall’Islam stesso, e ancora oggi dagli uomini religiosi che accusano di non credere in Dio chi accoglie dal Vangelo il messaggio scandaloso di un Dio fattosi realmente, veramente uomo, carne mortale, in Gesù di Nazaret. La fede cristiana facilmente diventa docetismo, perché preferisce, come tutte le religioni, un Dio sempre e solo onnipotente, un Dio che non può diventare umano.
    Per questo Gesù incalza: “Volete andarvene anche voi?”, rivolgendosi a quelli che sono rimasti, in realtà pochi. Gesù non teme, anche se soffre, di restare solo, perché ha fede nella parola che il Padre gli ha rivolto, nella promessa di Dio che non verrà meno. Possono venire meno gli altri, ma Dio resta fedele! A volte mi chiedo perché nella chiesa non si abbia il coraggio di far risuonare ancora oggi queste parole di Gesù, perché si insegni sempre il successo, si guardi al numero dei credenti, si compiano sforzi mirando alla grandezza della comunità cristiana e non alla qualità della fede. Siamo tutti genti di poca fede! La crisi invece, che è sempre fallimento, la allontaniamo il più possibile, la dissimuliamo, la tacciamo, affinché non appaia che a volte perdiamo, cadiamo, falliamo anche nelle nostre imprese ecclesiali e comunitarie più conformi alla volontà del Signore. D’altronde, Gesù userà l’immagine della potatura della vite, per dire che vi sono tralci che vanno potati (cf. Gv 15,2): determinante, però, è che la potatura la compia il Padre, non noi e neppure chi nella comunità cristiana presiede o la lavora come un operaio. Di per sé il Vangelo ha la forza di attrarre e di lasciar cadere: basta che sia annunciato nella sua verità e con franchezza, senza essere edulcorato. Sì, il Vangelo è la Parola di vita eterna, come Pietro risponde a Gesù, confessando che la fede della chiesa è fede nel “Santo di Dio”, cioè fede che in Gesù c’è la Shekinah, la Presenza di Dio. dov’è Dio i questo mondo? Non nel Santo del tempio di Gerusalemme, ma nell’umanità fatta carne e sangue di Gesù, il Figlio.
    Così termina il discorso di Gesù sul pane della vita. Alla fine probabilmente sono più le cose che non capiamo, le realtà che non riusciamo a percepire, rispetto a ciò che abbiamo compreso. Anche noi siamo forse urtati da queste parole, magari non intellettualmente, ma nell’accoglierle fino a viverle. Se però, come i Dodici, non ce andiamo, ma restiamo con le nostre insufficienze presso Gesù e tentiamo di essergli discepoli, ciò è sufficiente per accogliere il dono gratuito e non rifiutarlo o misconoscerlo: Gesù uomo come noi, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della vita di Dio” (Col 2,9), Dio stesso.


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