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    Il pane di vita

    (Gv 6,1-71)

    Bruno Maggioni

    Il capitolo 6 è molto importante [1], ma noi non possiamo analizzarlo con la stessa cura in tutte le sue parti. Ci concentriamo perciò sui suoi momenti essenziali, e uno di questi, sembra a noi, è il miracolo del pane posto all'inizio. Esso non solo offre l'occasione del discorso, ma ne anticipa le linee maestre, le tematiche essenziali.
    Il contenuto del capitolo è vario: il miracolo dei pani (6,1-15), il cammino sul mare (6,16-25), il discorso sul pane di vita (6,26-59), la crisi (6,60-71). C'è una connessione in tutto questo? L'unico dubbio riguarda il cammino sulle acque. È collocato qui semplicemente perché nella tradizione era collegato col miracolo del pane (cf. 6,45-52)? o anticipa un significato pasquale? C.K. Barret [2] Ci fa giustamente osservare che il c. 6 si pone al centro dell'attuale dibattito intorno a Giovanni. Si direbbe che numerosi aspetti del dibattito, che vanno dalle questioni di critica letteraria ai temi teologici, siano qui volutamente radunati insieme ed evidenziati: la questione della disposizione dei capitoli (il c. 6 rompe l'evidente legame fra il c. 5 e il c. 7); la relazione con i sinottici che pure ci trasmettono il medesimo miracolo; il nesso, tipico di Giovanni, fra il segno e il discorso; la simultanea presenza dell'escatologia presente e dell'escatologia futura; la forte sottolineatura della gratuità del dono della fede e dell'iniziativa di Dio, accanto alla chiara affermazione della decisione dell'uomo; da una parte l'insistenza sulla Parola e la fede, dall'altra una delle più chiare affermazioni sacramentali di tutto il NT; il rapporto di compimento-superamento nei confronti del giudaismo; la decisa rivelazione del mistero di Gesù e l'altrettanta decisa sottolineatura dell'incomprensione e dell'incredulità.

    Il miracolo del pane: 6,1-15
    (Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17)

    1 Poi Gesù passò all'altra riva del mare dì Galilea, detto anche di Tiberiade.
    2 Lo seguiva molta folla, vedendo i segni che egli operava sugli infermi.
    3 Gesù salì sopra un'altura e là sedette con i suoi discepoli.
    4 Era vicina la pasqua, la festa dei giudei.
    5 Alzando lo sguardo, Gesù vide molta folla che veniva verso di lui e disse a Filippo: Dove possiamo comperare del pane per dar loro da mangiare?
    6 Parlava così per mettere alla prova la sua fede; egli già sapeva ciò che avrebbe fatto.
    7 Gli rispose Filippo: Duecento denari di pane non basterebbero neppure per darne un pezzetto a ciascuno.
    8 Soggiunse uno dei discepoli, Andrea, il fratello di Simone:
    9 C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci, ma che cosa sono per tutta questa gente?
    10 Disse Gesù: Fateli sedere. C'era molta erba. Si sedettero: erano quasi cinquemila uomini
    11 Allora Gesù prese i pani, recitò la preghiera del ringraziamento e li distribuì alla gente seduta. Lo stesso fece dei pesci, quanti ne vollero.
    12 Quando ebbero mangiato, ordinò ai discepoli: Raccogliete le porzioni avanzate perché nulla vada perduto.
    13 Le raccolsero, e con gli avanzi di quei cinque pani d'orzo - e dopo che tutti ne ebbero mangiato! - riempirono ben dodici canestri. [2 Re 4,42.44]
    14 Quanti avevano assistito al miracolo dicevano: Costui è davvero il profeta che deve venire nel mondo.
    15 Ma Gesù, accortosi che volevano rapirlo per farlo re,  [1,21] si ritirò di nuovo, solo, [18,36] sulla montagna. [Mc 1,34]

    Questo miracolo fu sempre considerato dalla tradizione evangelica un gesto di Gesù molto importante. È già significativo il fatto che tutti e quattro gli evangelisti lo abbiano riportato: cosa che non avviene per nessun altro miracolo. Inoltre Marco e Matteo ci offrono di esso una seconda versione, che nella sua forma letteraria è molto simile alla prima. Non solo il racconto è ricordato da tutte le tradizioni evangeliche, ma occupa in ciascun vangelo un posto particolarmente importante: costituisce, in un certo senso, un momento culminante nella manifestazione di Gesù e, di conseguenza, un momento importante della decisione di fede [3]. Per quanto riguarda più particolarmente il quarto vangelo, ha ragione D. Mollat [4] di affermare che il c. 6 rappresenta una sintesi dell'attività di Gesù in Galilea, contiene una delle più alte rivelazioni su Gesù, è un esempio tipico della scelta di fede che si impone all'uomo.
    Nei primi quattro versetti, che costituiscono l'inquadratura del racconto, troviamo già diverse indicazioni importanti. L'evangelista pone Gesù in primo piano: i discepoli appaiono soltanto alla fine (v. 3b). Ciò appare ancora più chiaramente se facciamo il confronto con il racconto (li Marco: «E essi partirono in barca in un luogo appartato, da soli» (6,32). È una prima indicazione da non perdere, Secondo: Gesù è seguito da molta folla (v. 2), la quale aveva visto i segni che egli compiva. È una annotazione simile a quella che abbiamo trovato in 2,23. Come la folla di Gerusalemme, anche questa non ha una vera fede: lo si vedrà chiaramente più avanti. Infine il ricordo della Pasqua (v. 4) - che è un tratto proprio di Giovanni - non rappresenta un desiderio di puntualizzazione cronologica, è piuttosto un richiamo all'uscita dall'Egitto e al miracolo della manna. Del resto Giovanni ama inserire le rivelazioni di Gesù nel quadro delle grandi feste liturgiche d'Israele: la Pasqua, la festa delle Capanne, la Dedicazione. Gesù porta a compimento - e insieme supera - ciò che le feste di Israele significavano e attendevano. Nei sinottici sono i discepoli che dicono a Gesù di provvedere alle folle. Qui l'iniziativa è del solo Gesù (v. 5). E lui che si preoccupa delle folle e già sa che cosa fare. Interpella Filippo soltanto per metterlo alla prova. Il breve dialogo con lui (vv. 6-7) vuol mettere in luce l'incapacità dell'uomo a capire e la sua impossibilità di risolvere il caso. Anche l'intervento di Andrea [5] ha lo scopo - come già il dialogo con Filippo - di mettere in luce l'incapacità dell'uomo, la situazione di impossibilità nella quale si trova.
    Nei sinottici sono i discepoli che distribuiscono i pani e i pesci: qui è Gesù (vv. 10-13). È la solita concentrazione giovannea su Gesù. In questi versetti ci sono inoltre piccole annotazioni che danno al racconto un colorito eucaristico. Non si potrà essere sicuri sui singoli dettagli, ma dal complesso tale colorito emerge con notevole sicurezza. Anzitutto il gesto di Gesù, che prende i pani e li distribuisce (v. 11), potrebbe alludere al gesto dell'ultima cena, che Giovanni non racconta ma che, ovviamente, sia lui sia la sua fonte conoscevano. Il termine distribuire (diadidonai) può essere improntato al rituale eucaristico. Poi c'è il verbo eucaristein (ringraziare: v. 11), presente pure nel secondo racconto sinottico. Infine i vv. 12-13 ci offrono due elementi interessanti: il verbo raccogliere (sunaghein) e il vocabolo avanzi (clasmata). Appartengono al rituale eucaristico e trovano riferimento in Didachè 9,4. Anche l'espressione "perché nulla vada perduto" (v. 12b) può essere un tratto che ricorda la cura dei frammenti eucaristici nella chiesa primitiva.
    La narrazione del miracolo propone il confronto con i miracoli alimentari dell'A.T., in particolare col miracolo della manna (Nm 11,22 e Es 16,16ss) e col miracolo di Eliseo (2 Re 4,42-44). Il confronto è fatto per mettere in luce la sovrabbondanza del miracolo di Gesù rispetto ai miracoli dell'A.T. Dopo che ciascuno ne prese quanto ne volle (v. 11b), Gesù ordina di raccogliere le porzioni avanzate e si riempiono 12 canestri (v. 13). Mentre la manna in eccedenza periva (Es 16,20), qui invece gli avanzi vengono raccolti perché non abbiano a perire. Il numero 12 (dodici canestri) forse vuol indicare il numero perfetto, completo: il pane di Gesù, il pane messianico, non è fatto solo per cinquemila ma per tutti.
    I giudei attendevano per il tempo messianico il rinnovamento del miracolo della manna. Ecco perché, di fronte al miracolo del pane, vedono in Gesù il profeta atteso (Dt 18,15; cf. 1,21). Vogliono farlo re e, per evitarlo, Gesù si ritira (vv. 14-15). È un'annotazione molto precisa, può benissimo essere un'ottima reminiscenza storica, credibile: nella Palestina del tempo le attese messianiche finivano spesso in rivolgimenti politici (dai Romani puntualmente soppressi nel sangue), ed è questo un equivoco che Gesù vuol evitare. In tutto il suo ministero Gesù pone molta attenzione nell'evitare l'equivoco zelota: equivoco che diventerà poi pretesto ufficiale per la sua condanna. Sbaglieremmo tuttavia se ci limitassimo a considerare il v. 15 solo come una precisazione cronachistica. Il punto che Giovanni sottolinea è un altro: quello delle folle era un entusiasmo falso. Le folle non vedono nel miracolo un segno che rivela Gesù nel suo messianismo, ma una prova che conferma la loro preconcetta ed equivoca speranza messianica. Le folle «si interessano del pane ma non del Messia che dà il pane» [6]. A questa falsa ricerca Gesù si sottrae.
    A parte la concentrazione su Gesù (che è una prospettiva di ogni pagina di Giovanni) e a parte la coloritura eucaristica (che sarà più visibile nell'ultima parte del discorso), due ci sembrano i temi più importanti. Abbiamo detto che Gesù, moltiplicando i pani, ha compiuto un segno che la gente attendeva. Per questo il miracolo suscita l'entusiasmo delle folle, che riconoscono in Gesù il profeta che doveva venire e desiderano farlo re. Ma le folle hanno letto il segno secondo i loro schemi, non lo hanno capito nel suo vero significato. Così Gesù si ritira, fugge. Eppure questo Dio che elude le attese degli uomini e fugge, si farà spontaneamente incontro ai discepoli (6,16-21). Il fatto è che Gesù vuole una ricerca sincera: il verbo cercare è importante in questo capitolo; i galilei cercavano se stessi, non il Cristo; seguivano il loro sogno messianico, non erano in attesa del dono di Dio. Ecco l'insegnamento: la ricerca di sé impedisce di leggere il segno come segno rivelatore del Cristo e di aprirsi alla fede. Dunque Gesù (ancora più esplicitamente che nei sinottici) dissolve l'entusiasmo delle folle ritirandosi, solo, sulla montagna: con questa separazione egli vuol affermare che il suo messianismo è diverso, che la strada che egli percorre è diversa. In questo senso il gesto di Gesù che si ritira è un elemento importante. Diciamo che il segno rivelatore del Messia non è semplicemente la moltiplicazione dei pani, ma tutto il complesso (moltiplicazione dei pani, entusiasmo delle folle, fuga di Gesù). In altre parole il segno è la moltiplicazione dei pani, letta dalle folle e letta da Gesù: è nel contrasto tra le due letture che si rivela chi è Gesù.
    Un secondo tema molto chiaro è costituito dal rapporto tra la moltiplicazione dei pani, il miracolo della manna e il miracolo di Eliseo. Questo tema era già presente nella tradizione più antica del racconto: la moltiplicazione dei pani è la ripetizione del miracolo della manna, compiuto da un nuovo Mosè in un nuovo Esodo [7]. Il racconto di Giovanni è molto fedele a questa antica tradizione. Ma in esso non c'è solo il confronto con Mosè, si afferma che Gesù è il compimento-superamento di Mosè. Superamento che certamente esulava dalle attese giudaiche del tempo. Gesù è più grande di Mosè: soltanto più grande o anche diverso? L'uno e l'altro.

    Gesù va incontro ai discepoli: 6,16-21
    (Mt 14,22ss; Mc 6,45-52)

    16 Venuta la sera, i discepoli scesero al mare.
    17 Salirono sii una barca e salparono per l'altra riva, verso Cafarnao. Era già buio, e Gesù non li aveva ancora raggiunti.
    18 Si sollevò un forte vento e il mare si ingrossò.
    19 Avevano già remato per diversi chilometri, quando scorsero Gesù camminare sul mare e accostarsi alla barca. Ne ebbero paura.
    20 Ma egli disse: Sono io, non temete.
    21 Allora lo volevano prendere nella barca, ma questa subito toccò la riva alla quale erano diretti.

    Il racconto di Giovanni [8], se confrontato con il parallelo sinottico (cf. Mc 6,47-52), appare incompiuto. Alcuni tratti sono presenti come reminiscenze della tradizione, ma si direbbe che l'evangelista non li sfrutta. Così, ad esempio, l'annotazione che il mare si era ingrossato (v, 18). Ci attenderemmo che Gesù cammini sul mare per venire in aiuto ai discepoli (come è nel racconto sinottico) e che il miracolo consista precisamente nel placare la tempesta. Invece nulla di tutto questo. Evidentemente l'intenzione di Giovanni è un'altra. Al posto di una tempesta placata si parla di uno sbarco miracoloso (v 21). Ma neppure questo interessa l'evangelista in modo particolare. Giovanni non sta sviluppando il tema del Cristo che viene in aiuto dei discepoli che si trovano in difficoltà [9], ma vuole piuttosto dirci che Gesù è il Signore maestoso, esente dai limiti imposti all'uomo dalla natura. In Gesù si manifesta la presenza di Dio maestosa e potente, libera, salvifica. Tutto questo è racchiuso nell'affermazione "Sono io" (v. 20), che è l'equivalente del nome divino ed è indubbiamente il punto centrale dell'intero episodio. Gesù sceglie la via del mare non tanto per affrettarsi in aiuto dei discepoli quanto per affermare che è il Signore, l'Io sono.
    Tutto questo si fa ancora più convincente se richiamiamo alcune reminiscenze bibliche che forse fanno da sfondo all'episodio e che intendono descrivere la presenza di Dio, salvifica e vittoriosa in mezzo al suo popolo [10]. Viene in mente soprattutto il Salmo 107, nel quale il salmista ringrazia il Signore per i suoi interventi salvifici e sembra anticipare la sequenza che troviamo nel nostro capitolo: «Erravano per luoghi deserti e solitari, erano pieni di fame e sete... ed egli li sollevò dalle loro necessità» (vv. 4-5); «quelli che solcano il mare con le navi... videro i prodigi del Signore... si scatenò il vento e le onde si ingrossarono, salivano al cielo, scendevano negli abissi, e la loro anima era piena di paura... nelle loro angustie gridarono al Signore ed egli li liberò» (vv. 23-30).
    Rimane una domanda la cui risposta può in parte precisare e in parte modificare quanto abbiamo detto finora. Perché il cammino sul mare è inserito proprio qui, fra la moltiplicazione dei pani e il discorso che la spiega? Può darsi che l'evangelista abbia raccontato il cammino sul mare semplicemente perché già nella tradizione esso si trovava associato alla moltiplicazione dei pani. Però non è conforme al modo di procedere di Giovanni attingere qualcosa dalla tradizione senza approfondirne il significato [11]. R. E. Brown vede nell'episodio un correttivo all'interpretazione che la folla ha dato al segno dei pani. Essa ha visto in Gesù il profeta e vuole farlo re, ma Gesù è ben altro, Egli è la presenza di Dio in mezzo a noi, ed è questo che l'episodio intende mostrare. In tal modo il succedersi degli avvenimenti (moltiplicazione dei pani, tentativo di rapire Gesù, partenza dei discepoli e cammino di Gesù sulle acque) non fa che riproporre il medesimo schema del discorso, cioè l'opposizione fra la concezione messianica delle folle (falsa o inadeguata) e il vero significato di Gesù, la presenza maestosa e salvifica di Dio in mezzo a noi [12].

    Il discorso nella sinagoga di Cafarnao: 6,22-59

    22 II giorno seguente la folla rimasta sull'altra riva si accorse che c'era là una sola barca e che Gesù non era partito in barca con i discepoli, ma questi erano partiti soli.
    23 Con altre barche, partite da Tiberiade, si avvicinarono al luogo, nel quale, dopo che Gesù ebbe recitato la preghiera di ringraziamento, essi avevano mangiato il pane.
    24 Quando videro che non c'era né Gesù né i suoi discepoli, risalirono in barca e si diressero verso Cafarnao in cerca di Gesù.
    25 Lo trovarono sull'altra riva e gli dissero: Maestro, quando sei giunto qui?
    26 Rispose: In verità in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete veduto dei segni, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati.
    27 Impegnatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura per la vita eterna, quella che il Figlio dell'uomo vi darà, perché Dio Padre ha segnato proprio lui col suo sigillo.
    28 Chiesero: Che cosa dobbiamo fare per impegnarci nelle opere di Dio?
    29 Rispose Gesù: Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato.
    30 Replicarono: ma tu che segno fai perché [Mt 16,1-4] noi possiamo vedere e credere in te? [Lc 11,29-32 ] Qual è la tua opera? [Mc 8,10ss]
    31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Ho dato [Es 16,4ss] loro da mangiare un pane disceso dal cielo. [Sl 77,24]
    32 Disse Gesù: In verità in verità vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane venuto dal cielo, è il Padre mio che vi dà il vero pane venuto dal cielo:
    33 il pane di Dio è infatti colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo.
    34 Ed essi: Signore, dacci sempre di questo pane.
    35 Gesù precisò: Sono io il pane della vita. [Pr 9,1-6] Chi viene a me non avrà più fame. [Sir 24,19-22] Chi crede in me non avrà più sete. [Is 56,1-3; 4,14]
    36 Ma ve lo dissi: Voi mi avete veduto e tuttavia non credete.
    37 Tutti coloro che il Padre mi dà verranno a me, e chi viene a me io non lo respingerò,
    38 poiché sono disceso dal cielo non per fare la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. [Is 4,34; 5,30]
    39 Ora è questa la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nessuno [10,28ss, 17,12] di coloro che egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno.
    40 Questa è infatti la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e io lo risusciti nell'ultimo giorno.
    41 Mormoravano i giudei perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo.
    42 E dicevano: Ma costui non è Gesù, [Mc 6,1-6] il figlio di Giuseppe? [Mt 13,54-57] Non conosciamo forse suo padre e sua madre? Come osa dire: io sono disceso dal cielo?
    43 Gesù intervenne: Non mormorate fra di voi.
    44 Nessuno viene a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira. E io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
    45 Sta scritto nei Profeti: tutti saranno ammaestrati da Dio.[Is 54,13] Dunque chi ha ascoltato il Padre e si è lasciato da lui ammaestrare viene a me. [Gr 31, 53ss]
    46 Ma nessuno ha veduto il Padre, tranne colui che viene da Dio, lui lo ha veduto. [1,18; 7,19]
    47 In verità in verità vi dico, chi crede ha la vita eterna. [1 Gv 4,12]
    48 Sono io il pane della vita.
    49 I vostri padri mangiarono la manna nel deserto, eppure sono morti.
    50 Questo è il pane disceso dal cielo: chi ne mangia non muore.
    51 Sono io il pane vivente disceso dal cielo. Chi mangerà di questo pane vivrà in eterno. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. [Mc 14,22; Mt 26,26ss; Lc 22,14ss; 1 Co 11,23ss]
    52 I giudei si misero a discutere fra di loro: Come può darci la sua carne da mangiare?
    53 Rispose Gesù: Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il sito sangue, non avrete la vita in voi.
    54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
    55 Poiché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda.
    56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui. [1 Co15, 4ss]
    57 Come il Padre, il vivente, ha mandato me, e io vivo grazie al Padre, così chi mangia di me vivrà grazie a me.
    58 Questo è il pane disceso dal cielo. Non quello che mangiarono i vostri padri e sono morti. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno.
    59 Gesù insegnò queste cose nella sinagoga di Cafarnao.

    Il lettore noterà subito che in questo lungo discorso [13] sono riprese diverse tematiche già a noi familiari: per esempio la solenne e ripetuta rivelazione cristologica contenuta nell'Io sono, la ribadita affermazione del Cristo nei confronti del Padre, la opposizione al giudaismo e alle sue speranze, il rapporto segno e parola, e altri ancora [14]. Si può ben dire che in ciascun episodio e discorso sia contenuto l'intero vangelo.
    Ma nonostante la presenza di temi familiari, il discorso non è di facile lettura. Occorre dello sforzo per individuare la struttura e la dinamica della costruzione. E occorre un secondo sforzo per chiarire i principali temi teologici e le loro peculiarità.

    Struttura letteraria e dinamica del discorso.
    Sono state proposte molteplici divisioni del testo [15], ma si tratta generalmente di elaborazioni complesse, inutili per il nostro scopo e che finirebbero col distrarci. Ci sembra invece che E. Galbiati abbia messo in luce una struttura fondata su innegabili rilievi letterari e nello stesso tempo semplice [16]. Ispirandoci sostanzialmente ad essa, raccogliamo le osservazioni attorno a due punti: Primo: dopo una ripresa narrativa che ha lo scopo di collegare il discorso col miracolo (vv. 22-25), viene enunciato il tema: (vv. 26-29). In questa enunciazione possiamo già notare tre elementi importanti: a) l'interruzione da parte dei giudei, tecnica di procedimento che già conosciamo ed è una delle ossature dell'intero discorso (è un primo elemento da privilegiare nella lettura); b) la contrapposizione fra il cibo di Gesù e la manna: altro elemento che scandisce tutto il discorso e quindi da privilegiare; c) infine la presenza (ma ancora a livello di accenno, quasi di enigma) dei motivi cristologici che formano l'oggetto degli sviluppi successivi: la vita eterna, il cibo che il Figlio dell'uomo darà (cioè l'origine celeste del pane e il suo rapporto con Gesù), l'azione del Padre, la fede.
    Possiamo perciò concludere che questo inizio appare non solo un avvio al discorso ma quasi un riassunto-anticipo del discorso stesso. In qualche modo lo contiene già tutto. È il tipico procedere di Giovanni (cf. il Prologo).
    Secondo: Un'ulteriore interruzione dei giudei (vv. 30-31) è l'indispensabile passaggio al vero e proprio sviluppo del discorso. Questo è strutturato in due dittici (vv. 32-50 e 48-58), saldati fra loro dai vv. 48-50.
    Il primo quadro (vv. 32-50) è diviso in due da una obiezione dei giudei (vv. 41-42): ecco perché abbiamo usate il termine dittico. Anche il secondo (vv. 48-58) è diviso in due da una obiezione (v. 52).
    Si osservi che ambedue i dittici sono inquadrati da affermazioni che fanno riferimento all'opposizione fra la manna e il pane di Gesù: v. 32, che inizia il primo dittico; vv. 49-50 che chiudono il primo dittico e aprono il secondo; v. 58 che chiude il secondo dittico e quindi l'intero discorso. Queste osservazioni non solo ci mostrano, dal punto di vista letterario, la struttura del discorso, ma evidenziano un suo tema importante: l'opposizione fra Gesù e la manna, fra la rivelazione di Gesù e l'attesa dei giudei, fra l'antica e la nuova economia.
    Rileggendo ora il testo alla luce delle indicazioni date, il lettore può certamente rendersi conto che tutto il discorso è ben concatenato e che il suo procedere è logico e intelligente [17]. La struttura letteraria esterna è in realtà rivelatrice di una logica interna, che è quella di tutti i discorsi di Giovanni, anzi del suo intero vangelo: un serrato conflitto tra la rivelazione di Dio e l'incredulità dell'uomo, fra la rivelazione che sempre più si precisa man mano che si avvicina al centro del mistero e l'incredulità che trova sempre più forti ragioni per giustificarsi.
    Come è abituale in Giovanni [18], Gesù inizia con un detto enigmatico, parabolico (v. 27): Impegnatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Partendo di qui tutto si concatena. Mediante un rapido succedersi di domande e risposte si fornisce il passaggio alla vera e propria rivelazione: è Gesù il vero pane disceso dal cielo, capace di dare la vita al mondo (v. 33). La reazione dei giudei (analogamente a quella della Samaritana: 4,15) sembra positiva (v. 34), ma l'ulteriore spiegazione di Gesù li sconcerta (vv. 41-42). Tuttavia Gesù non ritira nulla di quanto ha affermato, anzi lo ribadisce e lo precisa, spingendo lo scandalo sino in fondo: la sua rivelazione passa dalla parola al sacramento, dall'origine celeste al dono di salvezza per noi. Così la «crisi» non si limita più ai giudei, ma arriva al gruppo dei discepoli (v. 60).
    Le linee dello svolgimento - già intraviste - ora sono ancora più chiare: un procedimento a ondate che ritorna sul medesimo tema (Gesù è il vero pane), precisandolo sempre di più; una continua contrapposizione fra il vero pane che è Gesù e le altre attese di salvezza; un conflitto fra la rivelazione del Cristo e le resistenze dell'uomo.

    I principali temi teologici: parola e sacramento.
    Accingendoci a discutere i molti temi di questo denso e ricco discorso (talmente ricco che ci piace paragonarlo a un crocicchio a cui pervengono molte strade, anche troppe), vogliamo indicare il nostro punto di vista. Secondo diversi studiosi, i vv. 51-58 sarebbero stati aggiunti al discorso in un secondo momento: il primitivo discorso svolgeva il tema della parola e della fede, i vv. 51-58 il tema dell'eucarestia. Dal pane, che è la parola di Gesù da accogliere nella fede, si passa alla «carne» e al «sangue» da mangiare e bere. Non intendiamo discutere questa opinione, che secondo noi ha buone ragioni, ma resta al livello della preistoria del testo. L'importante è che ora i vv. 51-58 sono parte integrante del discorso. Non sono semplicemente «accostati» al primitivo discorso, ma sono profondamente inseriti in esso e connessi: questo ci è apparso con chiarezza dall'esame della struttura ed è altrettanto chiaro dall'esame del vocabolario e dei temi. Chi lo ha inserito ne ha fatto la logica conclusione dell'intero discorso, quindi un ottimo punto da cui partire per comprenderlo. È un invito che intendiamo accogliere.

    Sono io il pane vivente disceso dal cielo (v. 51).
    Gesù ha moltiplicato i pani e ha sfamato la folla, abbondantemente. Ma il gesto non ha il significato che gli ha attribuito la folla. È invece un «segno», e nel linguaggio di Giovanni questo significa che è capace di svelare la realtà profonda di Gesù, «chi egli è per noi». Ecco il punto: chi è Gesù? Che cosa è per noi? La risposta: Questo è il pane vivente disceso dal cielo e capace di darci la vita. Due aspetti. dunque: l'origine celeste e la dimensione salvifica.
    La chiara risposta del v. 51 è già stata preparata, ed è quindi carica di tutte le risonanze delle affermazioni precedenti: vv. 27.33.35.48. Noi sappiamo che in queste formule lo sono c'è una concentrazione su Gesù. La fede è adesione a lui, prima e più che a una dottrina. Ma c'è anche un comprendere, e precisamente un riconoscere la sua origine (viene dal Padre) e la sua capacità di salvezza (dono per noi). Sappiamo che qui c'è una polemica: il vero pane è Gesù, non le altre offerte di salvezza, che tutt'al più sono avvio e preparazione ma in nessun modo meta e conclusione.
    Sappiamo infine che c'è una pretesa, quella di offrire all'uomo quel dono di cui, lo sappia o no, egli ha unicamente bisogno.
    Tutto questo ci è noto, ed è ben chiaro nel nostro discorso. Però il v. 51 precisa che il pane non è soltanto parola di Gesù, ma la sua «carne» in dono. Certo è un'allusione al sacramento, ma ancora prima una rivelazione del significato profondo del Cristo (e perciò dell'uomo): una esistenza in dono. È di questo che abbiamo bisogno, e sotto due aspetti. Noi siamo alla ricerca del dono di Dio per noi, ma siamo anche alla ricerca di qualcuno che ci faccia divenire dono, perché questo è il progetto per cui siamo fatti. Abbiamo bisogno del dono di Dio (di un Dio che si dona a noi), ma abbiamo anche bisogno di qualcuno che ci aiuti a donarci.

    Come può costui darci la sua carne da mangiare? (v. 52).
    Il tema dell'incomprensione è tanto importante che non solo sottolinea tutti i momenti cruciali del discorso, ma costituisce l'oggetto di una sezione a parte, conclusiva (vv. 60ss). Le folle non hanno compreso il segno della moltiplicazione dei pani. Lo hanno letto coi loro occhi, prendendolo a conferma della loro parziale ed equivoca attesa messianica. Per questo Gesù si ritira (v. 15). Sono dunque a confronto due schemi messianici. È una prima incomprensione.
    Successivamente l'incomprensione dei giudei si esplicita e si approfondisce. Essi non riescono a convincersi dell'origine divina di Gesù (vv. 41-42). Il suo aspetto terreno, fenomenico, sembra loro incompatibile con la sua proclamata origine celeste. È lo sconcerto che nasce dal contrasto fra la pretesa del Cristo e la sua realtà storica. Non è più semplicemente in gioco lo schema messianico, ma tutta una teologia: il modo di concepire Dio, la sua manifestazione, la sua possibilità di inserimento nella storia.
    Nel v. 52 i giudei mostrano di non comprendere il significato di «sangue» e di «carne». Non comprendono il sacramento, non comprendono che la comunione con Cristo è l'unica strada di salvezza, che la verità dell'uomo è un progetto di donazione.
    A questo punto diventa sorprendente il comportamento di Gesù. Egli non discute più, afferma. Il dialogo c'è stato, e anche la pazienza di Dio, ma ora - arrivati al punto - c'è spazio soltanto per un sì o per un no [19]. In questa analisi dell'incomprensione noi abbiamo tralasciato un aspetto, cioè la contrapposizione fra le opere di cui i giudei sono ansiosi e l'unica opera che Gesù afferma (vv. 28-29). «Nel pensiero dei giudei le opere di Dio sono le cose esteriori, cultuali o no, che Dio esige dai suoi adoratori. Gesù parla invece di un'unica opera, di una soltanto: credere in colui che Dio ha mandato» [20]. Non le opere dunque, ma la fede. Quale fede? Siamo già tornati sull'argomento a proposito della fede dei discepoli dopo il segno di Cana, e altri spunti li abbiamo intravisti nell'episodio di Nicodemo e della Samaritana. Il verbo credere (pisteuein) è qui costruito - come spessissimo in Giovanni - con eisl'accusativo: significa aver fiducia in Gesù, affidarsi a lui. Ma due precisazioni sono indispensabili. Occorre affidarsi a lui in quanto inviato di Dio: bisogna cioè riconoscere la sua origine e vedere in lui il dono del Padre. E poi occorre accettare il cambiamento, il superamento della propria attesa, uscire dalla propria visione: deve essere una fiducia tanto grande da indurci a cambiar vita (non solo la pratica ma i motivi profondi che la ispirano) e metterci al suo seguito. Senza queste due precisazioni la nostra fede in Cristo sarebbe come quella dei molti di Gerusalemme e dello stesso Nicodemo (2,23-3,2) o come la fede (che sta per tramutarsi in rifiuto) dei molti discepoli di cui si parlerà in 6,64.
    Possiamo giustamente concludere che il filo conduttore dell'intero discorso è una continua opposizione: fra la ricerca delle opere e la fede, fra la pretesa di Gesù e la sua umile realtà fenomenica. C'è una terza opposizione, che però merita un discorso a parte: fra l'antica e la nuovo economia.

    Non è il pane che mangiarono i vostri padri e sono morti (v. 58).
    Il motivo del contrasto col dono della manna era già presente nel miracolo. La manna periva, mentre il pane di Cristo rimane, ed è abbondante. Nel discorso il medesimo motivo ritorna più esplicitamente: vv. 32.49.58. Qui viene sottolineato il superamento, e questo è un primo scandalo: scandalo per tutti coloro che esigono un Dio ripetitivo.

    Il rapporto non è solo di superamento ma anche di compimento; e questo è un secondo scandalo. Nel discorso si rintracciano riferimenti espliciti e impliciti alle meditazioni bibliche intorno al dono della manna (Sl 78,24ss; Dt 8,2-3; Sap 16,26): la manna non è un cibo materiale ma la parola di Dio. E si rintracciano i riferimenti al banchetto della Sapienza (Pr 9,5-6; Sir 24,19-21; Is 55,13) e al banchetto escatologico-messianico (Is 65,11-13) [21]. Ora Gesù, il Gesù storico, figlio del falegname, afferma di riassumere in sé tutte queste attese e di portarle a compimento. È il secondo scandalo.

    Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna (v. 54).
    Noi sappiamo che «vita» è l'espressione privilegiata usata da Giovanni per indicare la salvezza. Quali le sue caratteristiche? Una rapida lettura del discorso offre molteplici spunti: è una vita dono, che viene da Dio e di fronte alla quale l'uomo è impotente; è una vita per tutti, universale, non solo per alcuni; è una vita simultaneamente presente e futura; è connessa con la fede e il sacramento; esige la comunione con Cristo e in essa si esplica. Ci sembrano tre i motivi più importanti. È una vita divina, non soltanto perché viene da Dio, ma perché è comunione con la stessa vita di Dio. È un inserimento nel dialogo trinitario (v. 57).
    È una vita di fronte alla quale l'uomo è impotente. Un tale dono può venire soltanto da Dio. È una vita frutto di dono, di grazia, e questo è detto in tre modi [22]: essere dato a Gesù (vv. 37.39), essere attirato dal Padre (v. 44), essere ammaestrato da Dio (v. 45). Nessuno dunque può far scattare in sé il movimento della fede senza la chiamata del Padre. «Credere nel Cristo non è in potere dell'uomo, Questi si limita ad acconsentire alla grazia che gli viene offerta, pur avendo la possibilità di ricusarla. Ecco il punto critico» [23].
    Infine è una vita che supera le attese dell'uomo. Le supera e le contesta. Costringe l'uomo a superare le proprie concezioni. Per questo a molti pare deludente.

    La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda (v. 55).
    Un autore del I secolo non avrebbe potuto scrivere le espressioni contenute nei vv. 51-58 senza pensare all'eucarestia. E nessun lettore del tempo le avrebbe intese diversamente.
    Ma quale concezione dell'eucarestia ci viene data? E quale è il suo rapporto con la tradizione comune del Nuovo Testamento?
    I testi eucaristici dei sinottici (Mc 14,22-25; Mt 26,20-29; Lc 22,14-20) e della prima lettera ai Corinti (11,23-26) testimoniano la presenza di elementi costanti, quasi strutture fondamentali nella fede comune: la cornice del tradimento (dei capi, di Giuda, di Pietro e dei discepoli); il gesto del pane spezzato e del vino rosso distribuito; le parole di commento che esplicitano il riferimento all'antica alleanza, al servo di Iahvè e alla croce; la sottolineatura della «vita in dono» (per) come elemento centrale dell'esistenza del Cristo; la sequela come invito a condividere il dono del Cristo («prendete»; «bevete»).
    Tutti questi elementi sono presenti in Giovanni, ma a modo suo. Le diversità non meravigliano: Giovanni non intende raccontarci la cena, ma ci offre una omelia eucaristica. Ma si direbbe una omelia costruita sugli elementi comuni: la cornice di incomprensione e di tradimento: i giudei, i discepoli (vv. 61.66), Giuda (v. 70); il riferimento all'antica alleanza (alla manna, al banchetto della Sapienza e al banchetto escatologico); l'affermazione della vita in dono («per»), che costituisce un chiaro riferimento a Is 53,11-12, alla Croce e alla tradizione neotestamentaria comune [24]; l'invito alla sequela («mangiare» e «bere»). Naturalmente questi elementi della fede comune sono sviluppati, come al solito, all'interno di un pensiero fortemente originale. I tratti eucaristici non riguardano soltanto l'eucarestia-sacramento, e neppure - più ampiamente - la parola e la fede: ma è tutta l'esistenza di Cristo, è l'incarnazione che viene spiegata nel suo significato di fondo. Espressioni come «disceso dal cielo» (vv. 33.50.58), «dato dal Padre» (v. 32), «mandato dal Padre» (v. 57) si riferiscono all'incarnazione. E altre come «sangue» e «dato» si riferiscono alla Passione e alla Croce. È dunque tutta l'esistenza del Cristo che ci viene svelata nel suo profondo. Possiamo indicare altre particolarità: l'insistenza e il realismo del «mangiare» e del «bere» (vv. 53-55); l'affermazione che la partecipazione al sacramento è condizione indispensabile per avere la vita (v. 53); l'esplicita dimensione universale del dono di Cristo («per la vita del mondo»: v. 51); la dichiarazione che frutto della comunione con Cristo è la vita, nel suo aspetto presente e futuro e da intendere come estensione a noi della medesima vita che unisce il Padre e il Figlio (v. 57); infine il ricorso al termine «carne» anziché «corpo» (una polemica antidoceta? Oppure, più semplicemente, una traduzione giovannea del comune termine aramaico?).
    Ma la vera originalità di Giovanni, sembra a noi, è in un'altra direzione, cioè la stretta unione fra Parola e sacramento, fede e sacramento: due realtà talmente congiunte che non si vede dove termina l'una e dove inizia l'altra. Tutto il discorso si è mosso attorno a questa felice ambiguità. Il lettore ricordi la struttura del discorso: i due dittici non sono accostati e non trattano due temi paralleli, ma il medesimo tema a due livelli. Le accentuazioni sono certamente diverse: più esplicito nel primo il tema della Parola, più esplicito nel secondo il tema del sacramento. Ma sono soltanto accentuazioni diverse: il primo si conclude nel secondo e il secondo deve essere inteso alla luce del primo.
    Qualcuno ha pensato a un Giovanni polemico nei confronti di tendenze che esageravano il sacramento al punto da mettere in ombra la presenza del Cristo vivente e dello Spirito, l'importanza della fede e dell'ascolto della Parola. Opinioni. Ma è certo che Giovanni è attento al Cristo-Parola: non per eliminare il sacramento, ma per svelarcene il senso. La Parola e l'ascolto si completano nel sacramento, che ne è quindi il vertice. Ma il sacramento, a sua volta, si fa nostro nella fede e ci apre il suo senso nella Parola.
    Ci è lecito pensare che Giovanni, con la sua omelia eucaristica, abbia voluto combattere su due fronti. Contro coloro (in qualche modo rappresentati dai giudei) che erano alla ricerca di gesti materiali a scapito dell'unica opera che è la fede: a costoro Giovanni ricorda l'ascolto e la Parola, ricorda che il sacramento può divenire un gesto magico, profondamente incompreso se non avviene all'interno dl un incontro vivo e personale col Cristo.
    E contro gli spirituali, portati a svuotare di ogni senso il gesto, il sacramento, e alla fine la stessa incarnazione: contro costoro Giovanni parla con estremo realismo di «carne» e di «sangue», di mangiare e bere.

    L'incredulità dei discepoli e la fede dei dodici: 6,60-71

    60 Molti dei discepoli che lo avevano ascoltato dicevano: Questo è un linguaggio duro, come possiamo accettarlo?
    61 E Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano, disse loro: Questo vi scandalizza?
    62 E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima?
    63 È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla. [3,11] Le mie parole sono spirito e vita;
    64 ma vi sono tra voi alcuni che non credono. Gesù infatti sapeva fin dal principio chi erano coloro che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.
    65 E soggiunse: Ecco perché vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre.
    66 Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
    67 Allora Gesù disse ai dodici: Volete forse andarvene anche voi? [Mt 16,16]
    68 Simon Pietro gli rispose: Signore, da chi andremmo? Tu hai parole di vita eterna.
    69 Noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Santo di Dio.
    70 Rispose Gesù: Non sono forse stato io a scegliere, voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo.
    71 Alludeva a Giuda, figlio di Simone Iscariota, il quale stava per tradirlo, lui, uno dei dodici.

    Il motivo dell'incomprensione e dell'incredulità lo abbiamo incontrato in tutto il capitolo, dal miracolo al discorso. Giovanni ci ha mostrato le radici profonde di tale incredulità: la ricerca di sé (v. 26) e lo sconcerto di fronte all'incarnazione (vv. 41-42). Il mistero di Gesù viene negato nei suoi due aspetti: nella sua origine da Dio e nel suo significato di salvezza per noi.
    Ora Giovanni riprende questo motivo, quasi isolandolo dagli altri, e lo tratta a parte a modo di conclusione. Lo sconcerto non si limita solo ai giudei, coinvolge anche i discepoli (vv, 60-66) [25]. Quello di Cristo è un discorso duro da accettare: come si può intenderlo e fargli credito? Il significato del verbo greco akouein è duplice: ascoltare (nel senso di comprendere) e accettare, obbedire, aderire. La risposta di Gesù ripropone il motivo della grazia: l'uomo è impotente (la carne non giova a nulla); soltanto la presenza dello Spirito di Dio può far rinascere l'uomo e aprirlo a nuovi orizzonti (lo Spirito vivifica) [26].
    Il racconto continua con la notizia che molti discepoli da quel momento si «tirarono indietro» (v. 66). Gesù si manifesta progressivamente, e questa progressiva manifestazione è contemporaneamente una tentazione per la fede e una occasione di approfondimento e di purificazione. È questo il significato essenziale del brano, con evidente contrapposizione fra l'incredulità dei discepoli e la fede dei dodici che si fa più matura. È un tema analogo a quello che si trova nei sinottici e che è chiamato la «crisi galilaica»: cf. Mc 8,27ss. Anche là la chiave di volta è la professione di fede di Pietro [27].
    Ponendo la domanda Gesù costringe i dodici a prendere posizione (v. 67). La risposta di Pietro esprime un'adesione personale a Cristo, un amore a lui indiscusso, si direbbe frutto di fiducia prima che di comprensione: credere e conoscere (v. 69), ecco la successione dei verbi che è senza dubbio indicativa. Per Pietro Gesù è l'unico salvatore (l'unico capace di offrire all'uomo parole di vita); è il santo, cioè il consacrato, l'appartato, il diverso, colui che sfugge ai nostri schemi perché viene da Dio e - per questa sua diversità - rende presente la salvezza di Dio in mezzo a noi. La risposta di Gesù è insieme consolante e dolorosa. Consolante perché l'elezione del discepolo poggia sull'amore di Dio, incrollabile quindi come è incrollabile la scelta di Dio, come è senza pentimento la sua alleanza. Dolorosa perché il mistero dell'incredulità e del tradimento si annida ovunque, anche nella cerchia dei dodici.
    Secondo una intelligente osservazione di C.K. Barret [28] i vv, 60-71 chiudono il ministero in Galilea e ne riassumono il risultato. Qualcosa di simile avverrà in 12,37-50 per quanto riguarda il ministero in Giudea. I due ministeri si chiudono sotto il segno del fallimento, della incredulità di molti e della fede di pochi.


    NOTE

    1 A. HEISING, La moltiplicazione dei pani, Brescia 1970; F.M. BRAUN, "L'eucharistie selon Saint Jean", in Revue Thomiste (1970), pp. 5-29; G, SEGALLA, "Eucarestia e comunità di fede in Giovanni", in L'Eucarestia nella riflessione teologica oggi, Udine 1971, pp. 44-69; J. GIBLET, "L'eucarestia nel vangelo di Giovanni". "Una lettura di Giovanni 6", in Con 10 (1968), pp. 70-71; B. MAGGIONI, La multiplication des pains (Jn 6,1-15) in Assemblee du Seigneur 48 (1972), pp. 39-47. Per tutto il capitolo 6 si può vedere B. Maggioni, La brocca dimenticata. I dialoghi di Gesù nel vangelo di Giovanni, Vita&Pensiero 2010, pp. 69-85.
    2 C.K. BARRET, New Testament Essays, London 1972, pp. 49-69.
    3 J. GIBLET, e.c., p. 70.
    4 J. MOLLAT, Dodici meditazioni sul vangelo di Giovanni, Brescia 1966, p. 50.
    5 Cf. R. BROWN, o.c., p. 233.
    6 H. VAN DEN BUSCHE, Giovanni, Cittadella 1970, p. 245.
    7 A. HEISING, o.c.., p. 66.
    8 Cf. H. STRATHMAN, Il Vangelo secondo Giovanni, pp. 193-194; R.E. BROWN, The Gospel, vol 1 pp. l, pp. 251-256; C.H., DODD, L'interpretazione del quarto vangelo, pp. 423-424; F.J. LEENHARDT, "La structure du chapitre 6 de l'Évangile de Jean", in RHPR, 39 (1959), pp. 1-13.
    9 Secondo F.J. LEENHARDT (pp. 9-10) il nostro episodio anticiperebbe il tempo della chiesa. I discepoli, dopo che Gesù si è allontanato, sono soli sul mare, è notte e il mare si ingrossa. È la situazione della chiesa, tempo nel quale il Cristo è tornato al Padre e sembra assente, tempo di tristezza e di persecuzione. Ma in realtà l'assenza del Cristo è una presenza, come egli stesso dirà: «Non vi lascerò orfani, tornerò da voi» (14,18).
    10 C.H. DODD, o.c., p. 424.
    11 O.c., p. 225.
    12 Cf. C.H. DODD, o.c., p. 424.
    13 G. SEGALLA, "La struttura circolare chiasmatica di Gv 6,26-58 e il suo significato teologico", in BibOr 13 (1971), pp. 191-198; E. GALBIATI, "Il pane della vita (Gv 6,55-58)", in BibOr 5 (1963), pp. 101,110; A. VANNESTE, "Il pane vivo disceso dal cielo", in PAF 29 (1971), pp. 43-58; EM. BRAUN, "Eopera di Dio", Gv 6,24-35 in PAF 46 (1971), pp. 84-99; G. CROCETTI, "Le linee fondamentali del concetto di vita in Gv 6,57" in RivB 19 (1971), pp. 175-194.
    14 Il lettore è rinviato all'Excursus Linguaggio, dualismo e simbolismo nel quarto vangelo, p. 1582 a quello su Discorsi e segni, p. 1620 e infine al commento del capitolo precedente.
    15 Cf. R.E. BROWN, o.c., pp. 293-294.
    16 Art.cit., pp. 101-102.
    17 P. BORGEN (Bread from Heaven, Leiden 1965; cf. R.E. BROWN, o.c., p. 280) ha sostenuto che il discorso segue il canovaccio della predicazione sinagogale del tempo di Gesù: si inizia con una citazione scritturistica (cf. v. 31), che poi l'omelia riprende e sviluppa parola per parola. Il nostro discorso sarebbe un'omelia eucaristica.
    18 Cf. A. VANNESTE, o.c., pp. 46-47.
    19 Abbiamo già detto che questo fa parte di tutti i dialoghi di Gesù: ci, l'Excursus Discorsi e segni, p. 1620.
    20 F.M. BRAUN, o.c., p. 89.
    21 Cf. lo studio di A. FEUILLET, "Les thèmes bibliques majeurs du discours sur le pain de vie", in Études Johanniques, Paris 1962, pp. 47-129.
    22 Cf. E M. BRAUN, o.c., pp. 90-91.
    23 Ibid., p. 91.
    24 Giovanni ritorna diverse volte su questo motivo: 10,11.15; 11,50-52; 12,24; 15,13; 18,14-15.
    25 Il motivo della incomprensione del discepolo non è tipico di Giovanni, ma è presente anche, e forse di più, nella tradizione sinottica. Può essere istruttivo un confronto con il vangelo di Marco. Troviamo in esso due ordini di testi. Il primo, tutto raggruppato nella sezione dei pani (6,52; 7,17-18; 8,14-20), sembra indicare l'incapacità della fiducia, di sentirci sicuri in compagnia del Cristo, e una incapacità di comprendere il vero senso degli avvenimenti. Tale incomprensione è imputata alla durezza di cuore, cioè a quella ottusità (che coinvolge l'intelligenza, la sensibilità e il coraggio) che alligna nel cuore dell'uomo allorché questi si chiude in sé, eccessivamente preoccupato di se stesso. Il secondo ordine di testi (per es. 8,32-33 e 9,32) ci porta invece in direzione della Croce: è l'incomprensione della Croce come via di salvezza.
    26 Anche la tradizione sinottica si pone lo stesso interrogativo: come può il discepolo vivere la proposta di Dio? Marco lo pone a proposito dell'episodio del giovane ricco (10,27). E anche in Marco la risposta è la medesima: «Ciò che è impossibile all'uomo, non è impossibile a Dio».
    27 Cf. E FESTORAZZI - B. MAGGIONI, Introduzione alla storia della salvezza, Torino 1974, pp. 203-206.
    28 C.K. BARRET, o.c., pp. 248-249.

    (I Vangeli, Cittadella 2011, pp. 1646-1669)


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