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     I sette salmi penitenziali

    Ludwig Monti

    salmo51
    Quaresima, tempo di penitenza, di pianto per i propri peccati e di ritorno al Signore, attraverso l’amore fraterno. Scegliamo di accompagnare questo cammino con il commento ai sette salmi penitenziali, uno per ogni venerdì di Quaresima: giorno particolarmente simbolico, nel quale, anche grazie alla pratica intelligente del digiuno a cui la chiesa ci invita, possiamo conoscere meglio il nostro cuore e disporci ad accogliere la chiamata del Signore a fare ritorno a lui.
    Questi sette salmi non sono una raccolta messa in evidenza dal Salterio con qualche titolo specifico, non appartengono neanche a un determinato genere letterario. È la sapienza della grande tradizione cristiana ad averli costituiti in un settenario glorioso, da leggere, meditare e pregare per accompagnare il proprio pentimento. Tracce di tale raggruppamento sono già presenti in Origene (185-254) e in Agostino (354-430; il suo biografo scrive che egli amava e meditava con particolare intensità una collezione di “pochissimi salmi di penitenza”); ma il primo a collegare esplicitamente tra loro questi sette salmi è Cassiodoro (485-580): “Nel libro del Salterio, secondo l’uso recepito dalle chiese, i penitenti vengono ammaestrati da sette particolari insegnamenti, utilissimi a chi vuole chiedere perdono al Signore … Questi salmi sono gli strumenti più efficaci per la purificazione del nostro cuore, per rinascere dalla morte dei peccati e passare dal pianto alla gioia nel Signore”.
    Intraprendiamo dunque questo itinerario dal pianto alla gioia, percorrendo le sette tappe indicate dalla sapienza di questi salmi.

    1. Anche il lamento ha un senso
    2. La coscienza del proprio peccato
    3. La forza del desiderio
    4. Miseria e misericordia
    5. Sofferenza personale e comunitaria
    6. Le nostre profondità, i nostri abissi
    7. Dalla morte alla gioia


    PRIMA TAPPA: IL PIANTO
    Salmo 6

    1 Per il maestro del coro. Su strumenti a corda. Sull’ottava.
    Salmo. Di David.

    2 Signore, rimproverami senza adirarti
    correggimi senza furore
    3 pietà di me, Signore, sono sfinito
    guariscimi, Signore, tremano le mie ossa,
    4 tutto il mio essere è turbato
    ma tu, Signore, fino a quando?

    5 Ritorna, Signore, liberami
    salvami a causa del tuo amore
    6 poiché non c’è ricordo di te nella morte
    negli inferi chi ti rende grazie?

    7 Sono stremato dal mio lungo lamento
    ogni notte io piango sul mio letto
    di lacrime bagno il mio giaciglio,
    8 i miei occhi si consumano dal soffrire
    fuori dalle orbite per tanti oppressori.

    9 Via da me, voi che fate il male
    il Signore sente i miei singhiozzi
    10 il Signore ascolta la mia supplica
    il Signore accoglie la mia preghiera,
    11 sono confusi e sconvolti i miei nemici
    confusi indietreggiano all’istante.


    Il salmo 6 è la preghiera di un uomo malato, impossibilitato al riposo notturno: nella sua sofferenza supplica con toni accorati il Signore di guarirlo (vv. 2-4), descrive accuratamente il proprio stato di prostrazione (vv. 5-8) e infine confessa la propria fiducia nel Signore, che – ne è convinto – accoglierà il suo grido e svergognerà i suoi nemici (vv. 9-11). Sempre la preghiera è espressione di tutto il nostro corpo: qui le ossa del salmista tremano sconvolte, il suo respiro è affannoso. Soprattutto, i suoi occhi si consumano nella sofferenza, versando lacrime abbondanti: preghiera non verbale, linguaggio più eloquente di tanti discorsi, “battesimo delle lacrime”…
    Ma anche in questa prostrazione (“sono sfinito!”) il credente ha la forza di rivolgersi con insistenza al Signore, nominato per ben otto volte e supplicato con sette verbi all’imperativo. Grande è la sua franchezza, pari alla consapevolezza di non avere alcun merito da vantare. Egli sa di poter contare solo sull’amore del Signore, sulla sua fedeltà, più forte di ogni sofferenza e più grande di ogni peccato. È come se dicesse: “Salvami a causa del tuo amore, non per la mia giustizia, perché io so di essere colpevole”. Qui si tocca un punto delicato: la relazione tra peccato e malattia, o meglio tra la malattia e il nesso stabilito dal malato tra questa condizione e il castigo di Dio per i suoi peccati (cf. Sal 37; 40;5; 102,3). Come affrontare tale relazione “scandalosa”, specie per gli uomini e le donne del nostro tempo? “Quando queste preghiere sono capite nel contesto dell’intera Scrittura, la confessione di peccato può riferirsi alla condizione peccaminosa di ogni essere umano. La malattia non è associata ad alcun peccato specifico, ma è la condizione che porta alla luce la nostra peccaminosità e il nostro bisogno di grazia” (J. L. Mays). Insomma, legando la malattia al peccato, l’uomo biblico tenta di rendere comprensibile ciò che altrimenti potrebbe apparire un puro non senso. Ma nessun perverso corto circuito tra malattia e peccato, come Gesù ha chiarito una volta per tutte (cf. Gv 9,1-3)!
    Si diceva della franchezza di quest’uomo. Egli apre la sua supplica chiedendo al Signore di rimproverarlo sì, ma senza scatenare la sua ira, come un padre che corregge un figlio: “il Signore corregge colui che egli ama” (Pr 3,12; Eb 12,6). Poi l’orante rivolge al “tu” confessato nella fede una domanda frequente nei salmi: “Signore, fino a quando?”, interrogativo lasciato in sospeso che contiene un rimprovero fatto con confidenza e, nel contempo, una richiesta sottintesa: fino a quando non libererai tutto il mio essere, non lo guarirai? Al centro del salmo, dopo aver chiesto al Signore di ritornare, cioè di “convertirsi”, giunge fino a “ricattarlo”: “Non c’è ricordo di te nella morte, negli inferi chi ti rende grazie?”. Sarebbe dunque il Signore a perdere un credente che lo loda e lo confessa, se lo lascia morire (cf. Sal 29,10-11; 87,11-13; 113,17-18)!
    Nell’ultima parte fanno capolino i nemici del malato, genericamente definiti “voi che fate il male”. Forse quest’uomo è reso più sensibile dal suo stato a un’ostilità passata, ora ingigantita dal suo cuore sconvolto e dai suoi occhi velati di lacrime; o forse è la sua prostrazione che lo induce a considerare come avversari anche gli amici più cari, incapaci di confortarlo. In ogni caso, ciò che per l’orante conta davvero è che il Signore ascolta il suo pianto: la sua preghiera sarà dunque accolta, e così i suoi nemici saranno sconvolti, ritorneranno indietro (stessi verbi utilizzati in precedenza rispettivamente per il salmista e per il Signore) e conosceranno la vergogna. Il salmo si chiude dunque su una nota di speranza e di fiducia: anche il lamento ha un senso, se rivolto al Signore, colui che sempre ascolta la preghiera del misero.
    Nei vangeli per due volte risuonano sulle labbra di Gesù espressioni tratte dal salmo 6. Nell’imminenza della sua passione egli esclama: “Adesso ‘l’anima mia è turbata’; che cosa dirò? Padre, ‘salvami’ da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto: per quest’ora! Padre, glorifica il tuo Nome” (Gv 12,27-28). Gesù porta a compimento la fede del salmista: spera di poter annunciare la fedeltà di Dio anche nella tomba, crede fermamente che il suo amore vada oltre la morte. Per questo si dispone a ricevere da lui la gloria riservata a chi “ama fino alla fine” (cf. Gv 13,1), anche al prezzo di una morte ignominiosa. Di altro tenore sono le sue parole di giudizio rivolte a quanti lo invocano quale Signore senza però mettere in pratica ciò che egli chiede: “Io dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti. ‘Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!’” (Mt 7,23). Pregando questo salmo, non possiamo non ricordare tale monito di Gesù, più sottile di quanto si pensi. Egli infatti non ci invita solo a metterci nei panni di quanti fanno il male (e non solo del malato!); con la sua interpretazione del salmo ci fa pure comprendere che si può presumere di agire, di compiere prodigi nel suo Nome (cf. Mt 7,22) e invece ingannarsi miseramente: anche in questo può consistere l’agire in modo ingiusto, come ci verrà svelato nell’ultimo giorno…
    Infine, nel nostro salmo si incontrano due cammini di conversione:
    “Volgiti, Signore” (Sal 6,5). Da dove? Da Dio in uomo, da Signore in servo, da giudice in padre, affinché la tua conversione mostri il tuo amore (Pietro Crisologo, V secolo).
    “Volgiti, Signore” (Sal 6,5), cioè aiutaci, affinché si compia in noi quella conversione che dona la comunione con te a chi ti ama (Agostino).
    È proprio in questo reciproco venirsi incontro tra Dio e l’uomo, realizzatosi pienamente nella persona di Gesù Cristo, che trascorre tutta la nostra vita di uomini e donne credenti, e viene consolata e asciugata ogni nostra lacrima (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4): nessuna lacrima andrà perduta, perché il Signore le raccoglie tutte nel suo otre (cf. Sal 55,9).

    O Dio, che esaudisci tutte le preghiere,
    ascolta la voce del nostro pianto
    e accorda alle nostre debolezze una guarigione definitiva.
    Accogliendo con bontà il gemito della nostra fatica,
    consolaci sempre con la tua misericordia.
    (Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)


    SECONDA TAPPA: LA COSCIENZA DEL PROPRIO PECCATO
    Salmo 32

    1 Di David. Maskil.

    Beato l’uomo assolto dalla colpa
    Hai tolto la mia colpa
    perdonato dal peccato
    2 beato l’uomo a cui il Signore
    non imputa la trasgressione
    e nel cui spirito non c’è inganno.

    3 Finché tacevo si consumavano le mie ossa
    e ruggivo tutto il giorno,
    4 la tua mano pesava su di me
    di giorno e di notte
    si inaridiva il mio vigore
    come nell’arsura dell’estate.

    5 Allora ho confessato a te il mio peccato
    non ho nascosto la mia colpa,
    ho detto: «Confesserò contro di me
    le mie rivolte verso il Signore»
    e tu hai portato la colpa e il mio peccato.

    6 Così ti prega ogni fedele nell’ora decisiva
    se irromperanno acque torrenziali
    non potranno raggiungerlo,
    7 tu sei per me un rifugio: mi liberi dall’angoscia
    mi circondi con canti di liberazione.

    8 «Ti istruisco e ti indico la via da seguire
    ti darò consiglio vegliando su di te:
    9 non essere come il cavallo e il mulo
    privi di discernimento
    soltanto con il morso e le briglie
    è domata la loro impetuosità».

    10 Numerosi i tormenti che attendono il malvagio
    ma l’amore circonda il credente nel Signore
    11 rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti
    retti di cuore gridate di gioia.


    Il salmo 32 è un ringraziamento penitenziale e, insieme, un’esortazione sapienziale, che nascono dall’aver confessato a Dio i propri i peccati, ricevendone in risposta il perdono. Il percorso delineato in questo salmo, considerato dalla tradizione cristiana “voce di colui che fa penitenza” (titoli antichi, serie II) e previsto nell’attuale liturgia battesimale, può essere così riassunto:
    Prologo sapienziale: beatitudine del perdono (vv. 1-2).
    Canto del perdono: miseria del peccato (vv. 3-4, passato); confessione e perdono ricevuto (v. 5, presente); pace che ne deriva, anche in mezzo alle tribolazioni (vv. 6-7, futuro).
    Istruzione sapienziale pronunciata da Dio (vv. 8-9).
    Dopo un ultimo insegnamento, fondato sulla teoria della retribuzione (v. 10), il testo si chiude con un’antifona dal tenore liturgico, che invita i giusti e i retti di cuore a gioire insieme al salmista (v. 11).
    Se il salmo 1 si apriva proclamando “beato l’uomo” (Sal 1,1) che lotta per non cadere nel peccato, qui la beatitudine descrive il realistico prosieguo di quella meditazione. I peccati, infatti, prima o poi vengono commessi, ma il cammino che conduce alla felicità non è precluso a chi sbaglia, altrimenti sarebbe un sentiero vuoto! L’importante è ammettere le proprie colpe, non fingere di non essere peccatori: questo è ciò che piace a Dio, il quale “gradisce la sincerità del cuore umano” (cf. Sal 50,8) e “non respinge un cuore contrito e spezzato” (cf. Sal 50,19), ma gli dona gratuitamente il suo perdono.
    La sapienza del salmista nasce dall’aver rimeditato alla luce dello sguardo d’amore di Dio la propria vicenda. Una vicenda di errore che egli sa definire con chiarezza, utilizzando i tre termini classici del lessico del peccato, che costituiranno il filo rosso del salmo 50 (51): nel suo comportamento vi sono la colpa, ossia la trasgressione disobbediente nei confronti dei comandi di Dio; il peccato, che indica il fallire il bersaglio; la trasgressione, cioè l’errare su strade sbagliate e perdute. L’orante riconosce le proprie mancanze, non vive nell’inganno, nell’ipocrita simulazione di chi finisce per intestardirsi come un animale privo di discernimento.
    Grazie a questa intelligenza da parte dell’essere umano, a questa comprensione realistica della propria fallibilità, il Signore gli toglie la colpa, perdona il suo peccato annullandolo, non gli imputa la trasgressione. Egli dimentica tutto questo, come ardiscono rivelare i profeti: “Io cancello le tue colpe per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25); “Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, poiché perdonerò la loro colpa e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,34). Non che il pentimento e lo sforzo di conversione siano la causa del perdono da parte di Dio: semplicemente, senza questa preliminare ammissione di colpa, che si traduce in una sincera confessione, l’essere umano non può aprirsi al perdono preveniente del Signore. È un’esperienza comune, che ha anche ricadute fisiche e psicologiche ben dipinte nel nostro salmo: chi non vuole riconoscere i propri errori è come roso da un invisibile tormento, qui descritto con le immagini delle ossa che si consumano e del vigore che viene meno per mancanza d’acqua. In tal modo finisce per isolarsi in una solitudine mortifera, segnata da un ruggito interiore tanto più rumoroso quanto più le labbra tacciono. E così perde la pace e finisce per sentire pesante su di sé la mano del Signore, che invece attende solo di poterlo risollevare…
    La teologia sottesa a questo salmo è ben presente in tutta la Scrittura: “Chi nasconde le proprie colpe non riuscirà nella vita, chi le confessa troverà misericordia” (Pr 28,13). Il discepolo amato fa eco: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio, che è fedele e giusto, perdona i nostri peccati e ci purifica da ogni iniquità” (1Gv 1,8-9). Ma è soprattutto Paolo a citare il nostro salmo quale caposaldo del principio della giustificazione per fede: “David proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: ‘Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati coperti; beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato’” (Rm 4,6-8). Questo salmo è dunque “il canto della grazia di Dio e della nostra giustificazione, di cui godiamo non per qualche nostro merito ma perché ci previene la misericordia del Signore” (Agostino). Non si può non citare al riguardo un appassionato brano di Lutero, che illustra l’intelligenza a cui il salmo 32 invita, mettendo in bocca a Cristo queste parole.
    Non tu, non una creatura, ma io, con il mio Spirito e la mia Parola, voglio mostrarti la strada su cui devi camminare; non è l’opera scelta da te, né la sofferenza escogitata da te, ma quella che ti si presenta contraria al tuo pensiero e al tuo desiderio: lì seguimi, lì sii mio discepolo, lì è il tempo propizio, lì non essere come un cavallo o un animale privo d’intelletto. Seguimi e abbandonati a me!
    Davvero, “non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1)! I singoli credenti e la chiesa nel suo insieme possono rifugiarsi in lui e ricevere da lui la rassicurazione: “Terrò fissi su di te i miei occhi, affinché tu possa rimanere saldo nella mia luce d’amore” (Girolamo).
    La verità di questa rilettura teologica è radicata nel comportamento di Gesù, nel suo donare a quanti incontrava la salvezza mediante la remissione dei peccati. Si ricordi il suo incontro con la donna peccatrice in casa del fariseo Simone. Agli insistiti gesti d’amore e di contrizione della donna, Gesù risponde donandole il perdono dei peccati, mentre Simone si scandalizza di fronte all’inattesa ventata di amore che vede davanti a sé (cf. Lc 7,36-50). O si pensi alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio. La preghiera gradita a Dio è quella di quest’ultimo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Avendo saputo umiliarsi nel riconoscere le proprie colpe, egli “torna a casa sua giustificato, a differenza dell’altro” (cf. Lc 18,14). Ecco spiegata la predilezione di Gesù per la compagnia dei peccatori pubblici, più esposti al biasimo e dunque più aperti alla contrizione: Gesù aveva compreso che i pubblicani e le prostitute (cf. Mt 21,31) sono un “sacramento” della condizione di peccatore comune a ogni essere umano, che in loro è solo più esplicita e immediatamente visibile. Per questo ha detto: “Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
    Sì, “l’amore circonda chi crede nel Signore” e, spinto da tale fiducia, non ha paura di compiere lucidamente un atto di verità: riconoscere il proprio peccato, per scoprire che Dio gli chiede solo di accettare che egli lo ricopra con il suo perdono. Ecco perché “la prima cosa da capire, l’intelligenza decisiva è riconoscersi peccatori” (Agostino). Ma noi ne siamo convinti?

    Liberaci, Signore,
    dalla tribolazione che ci circonda.
    Noi riconosciamo il nostro peccato e le nostre ingiustizie:
    tu perdonaci.
    (Orazione salmica di tradizione africana, seconda metà del V secolo)


    TERZA TAPPA: IL DESIDERIO
    Salmo 38

    1 Salmo. Di David. Per fare memoria.

    2 Signore, non rimproverarmi con sdegno
    non correggermi con furore,
    3 le tue frecce penetrano in me
    e pesa su di me la tua mano
    4 per la tua collera nulla è sano nella mia carne
    per il mio peccato neppure un osso è intatto.

    5 Le mie colpe ricadono sul mio capo
    sono un peso superiore alle mie forze
    6 le mie piaghe sono infiammate e purulente
    ecco come pago la mia stoltezza.

    7 Schiacciato e curvato all’estremo
    oscuro mi aggiro tutto il giorno
    8 fino alle midolla mi brucia la febbre
    nella mia carne non c’è più nulla di sano.

    9 Sfinito e indebolito all’estremo
    ruggisco per il fremito del mio cuore
    10 tutto il mio desiderio è davanti a te,
    Signore il mio gemito a te non è nascosto.

    11 Mi batte il cuore e le forze mi abbandonano
    viene meno la luce dei miei occhi
    12 amici e compagni stanno a distanza
    i miei vicini lontano dalle mie piaghe.

    13 Tendono lacci e attentano alla mia vita
    coloro che cercano la mia rovina
    essi pronunciano malefiche parole
    e tutto il giorno progettano inganni.

    14 Ma io come un sordo non ascolto
    come un muto non apro la bocca
    15 sì, come un uomo che non sente
    con una bocca incapace di replicare.

    16 È in te che io spero, Signore
    mi risponderai, Signore mio Dio
    17 io dico: «Non gioiscano alle mie spalle
    non si innalzino se il mio piede vacilla!».

    18 Ma ora io sto per cadere
    e il mio dolore mi è sempre presente
    19 ecco, io confesso la mia colpa
    sono turbato a causa del mio peccato.

    20 I miei nemici sono forti e vigorosi
    numerosi mi avversano con menzogne
    21 mi rendono il male per il bene
    mi accusano se perseguo il bene.

    22 Signore, non abbandonarmi
    non stare lontano da me,
    23 mio Dio vieni presto in mio aiuto
    tu, Signore, mia salvezza.


    “Questo salmo dipinge con la massima chiarezza le parole, le opere, i pensieri e i sentimenti di un cuore penitente”. Così Lutero riassume il salmo 38, il terzo dei penitenziali, accomunato al primo (il 6) dal medesimo inizio. “Voce di colui che nella malattia fa penitenza” (titoli antichi, serie II): un uomo accasciato da una durissima malattia descrive accuratamente il suo stato di prostrazione, si lamenta e supplica il Signore di essere liberato, sperando in lui e confidando nel suo aiuto. Il testo presenta gli elementi tradizionali dei salmi di supplica:
    il destinatario della preghiera è il Signore, invocato all’inizio (v. 2), al centro (vv. 10 e 16) e alla fine del salmo (vv. 22-23);
    quelli che un tempo erano gli amici del malato ora lo sfuggono, quelli che gli erano vicini, forse i parenti, stanno lontani da lui (v. 12); a ciò si aggiunge la classica ostilità dei nemici, che approfittano della situazione per odiare senza ragione il malcapitato (vv. 13.17.20-21); quest’ultimo mette davanti agli occhi del lettore lo sfacelo del suo corpo, senza nascondere alcun particolare (ossa, midolla, carne, cuore, occhi); si trova in una condizione di isolamento, di assenza di relazioni, è come un sordomuto (vv. 14-15).
    Questa segregazione è probabilmente dovuta alla lebbra (si parla di “piaga”, termine che per ben 56 volte nel Levitico designa tale malattia), un vero e proprio flagello per la Bibbia: chi ne è colpito è “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (cf. Nm 12,14), è come morto pur essendo ancora in vita. La lebbra è il caso per eccellenza in cui la mentalità biblica fa valere la teoria della retribuzione: ogni malattia, e questa con particolare evidenza, sarebbe il castigo del peccato commesso; alle sofferenze del lebbroso si aggiunge anche il marchio della colpa.
    Quello della malattia come castigo di Dio per un peccato commesso – qui espresso attraverso l’immagine delle frecce scagliate da Dio e del peso della sua mano – è un tema delicatissimo e sempre esposto al rischio di grossolani fraintendimenti. Su di esso Gesù ha pronunciato parole risolutive, in risposta alla domanda dei suoi discepoli a proposito di un uomo cieco dalla nascita: “‘Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?’. Rispose Gesù: ‘Né lui ha peccato né i suoi genitori’” (Gv 9,2-3). Ma se n’è già parlato a proposito del salmo 6…
    Il dato significativo è che anche in una condizione di estrema sofferenza quest’uomo osi aprire con fiducia il proprio cuore a quello stesso Dio che pure descrive come un implacabile arciere: ecco il paradosso del salmo 38, secondo per intensità espressiva solo al salmo 87 (88). È in questo quadro che si colloca anche la consapevolezza del proprio peccato da parte del salmista (tratto comune al salmo 31 [32], dove la malattia fisica è solo accennata), manifestata a più riprese davanti al Signore: “Per il mio peccato neppure un osso è intatto. Le mie colpe ricadono sul mio capo, sono un peso superiore alle mie forze … Ecco, io confesso la mia colpa, sono turbato a causa del mio peccato”. Anche l’affermazione “il mio dolore mi è sempre davanti” sembra suonare come: “il mio peccato mi è sempre davanti” (Sal 50,5). Quest’uomo non accampa scuse, non si scaglia neppure in modo eccessivo contro i nemici, di cui si limita a riconoscere l’esistenza: confessa con onestà la propria colpevolezza, collegandola forse inconsciamente alla sua prostrazione fisica, e lo fa davanti al Signore.
    Il suo atteggiamento è ben riassunto dall’affermazione del v. 10, vertice del salmo: “Tutto il mio desiderio è davanti a te, Signore”; tutta la mia epithymía, traduce la versione greca con un termine ambiguo, che può designare desideri buoni ma anche pulsioni meno nobili, frutto di concupiscenza mondana (cf. 1Gv 2,16-17). Grande insegnamento! Occorre la fatica di discernere tutto il proprio desiderio e tutti i propri desideri, insieme al coraggio di porli davanti a Dio, senza escluderne alcuno: solo così si può fare spazio in sé al desiderio profondo di Dio, quello di purificare e portare a compimento ogni nostro desiderio. Commenta magnificamente Agostino:
    “Davanti a te è ogni mio desiderio”. Non davanti agli uomini, che non possono vedere il cuore, ma “davanti a te”. Sia davanti a lui il tuo desiderio; “e il Padre, che vede nel segreto, ti esaudirà” (cf. Mt 6,6). Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l’Apostolo: “Pregando senza interruzione” (cf. 1Ts 5,17). Forse senza interruzione pieghiamo il ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani? Se intendiamo il pregare in tal modo, non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore ininterrotta: il desiderio. E se è davanti a lui il desiderio, non sarà davanti a lui anche il gemito? Come potrebbe non essere così, dal momento che il gemito è la voce del desiderio? Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre esso giunge agli orecchi degli uomini, ma mai resta lontano dagli orecchi di Dio.
    Balzano agli occhi i parallelismi del nostro salmo con quanto avviene a Gesù durante la passione: il suo essere abbandonato da parte degli amici (cf. Mc 14,50; Mt 26,56); le donne che osservano da lontano la sua crocifissione (cf. Mc 15,40-41 e par.); il suo silenzio davanti agli accusatori (cf. Mc 14,61; 15,5; Mt 26,63; 27,14), lo stesso vissuto dal Servo del Signore (cf. Is 53,7; At 8,32). Nell’ora finale della sua vita, di fronte a quanti lo odiavano senza ragione, Gesù “senza minacciare vendetta si è affidato a colui che giudica con giustizia” (cf. 1Pt 2,23). In quest’ottica è stata intesa la versione greca del v. 18: “Sono pronto ai colpi dei flagelli”, nonché due interessanti aggiunte presenti in alcuni manoscritti della stessa versione, di probabile origine cristiana: “Io sono stato appeso da loro” (v. 14); “Essi hanno rigettato me, l’amato, come un cadavere aborrito, e hanno inchiodato la mia carne” (v. 21).
    Più in generale, però, credo che l’intero salmo possa essere posto sulla bocca di Gesù: nel suo frequente accompagnarsi con malati e peccatori, egli ha finito per identificarsi con essi; ha vissuto la com-passione con loro a tal punto da “aver preso su di sé le loro infermità ed essersi caricato delle loro malattie” (cf. Is 53,4; Mt 8,17). Ecco come bisogna intendere l’ardita affermazione paolina: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2Cor 5,21).
    Così la preghiera del malato e del sofferente è diventata la preghiera di Cristo: egli prega questo salmo con noi e per noi, condividendo fino alla fine la nostra condizione umana e insegnandoci a porre davanti a Dio tutto e ogni nostro desiderio, sempre mescolato ai nostri gemiti. Chi non desidera e non geme, non può aprirsi alla comunione con Gesù Cristo.

    Signore, davanti a te è ogni nostro desiderio
    e il nostro gemito a te non è nascosto:
    donaci dunque ciò che desideriamo
    e perdona ciò che di male abbiamo fatto,
    accorda il frutto ai nostri desideri
    e il perdono ai nostri peccati.
    (Orazione salmica di tradizione spagnola, fine VII secolo)


    QUARTA TAPPA: MISERIA E MISERICORDIA
    Salmo 51

    1 Per il maestro del coro. Salmo. Di David.
    Quando andò da lui il profeta Natan,
    dopo che egli era andato con Betsabea.

    3 Pietà di me, o Dio, nel tuo amore
    nella tua grande misericordia cancella le mie rivolte
    4 e lavami a fondo dalla mia colpa
    rendimi puro dal mio peccato.

    5 Sì, io riconosco la mia rivolta
    il mio peccato mi è sempre davanti
    6 contro te, contro te solo ho peccato
    ciò che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

    Sì, tu sei giusto quando parli
    quando giudichi sei sempre irreprensibile
    7 ecco, colpevole sono nato
    peccatore mi ha concepito mia madre.

    8 Tu gradisci la sincerità del mio cuore
    nel profondo mi insegni la sapienza
    9 aspergimi con issopo e sarò puro
    lavami e sarò più bianco della neve.

    10 Fammi sentire gioia e allegria
    esulteranno le ossa che hai fiaccato
    11 distogli lo sguardo dai miei peccati
    e cancella tutte le mie colpe.

    12 Crea in me, o Dio, un cuore puro
    rinnova in me uno spirito saldo
    13 non scacciarmi lontano dal tuo volto
    non riprendere il tuo Spirito santo.

    14 Ridonami la gioia d’essere salvato
    sostieni in me uno spirito risoluto
    15 insegnerò agli smarriti le tue vie
    i peccatori ritorneranno a te, o Dio.

    16 Preservami dal versare il sangue, o Dio mia salvezza
    e la mia lingua proclamerà la tua giustizia
    17 Signore, apri le mie labbra
    e la mia bocca canterà la tua lode.

    18 Ti offrirei un sacrificio, ma non lo accetti
    l’olocausto ora non lo gradisci
    19 sacrificio a Dio è uno spirito contrito
    un cuore contrito e spezzato non lo respingi, o Dio.

    20 Nel tuo amore fa’ grazia a Sion
    rialza le mura di Gerusalemme
    21 allora gradirai i sacrifici, l’olocausto, l’offerta
    e si offriranno vittime sul tuo altare.


    Caro lettore, cara lettrice, mi rivolgo a te per confessarti lo sgomento che mi assale nel presentarti il salmo 51, il Miserere (così inizia in latino), il quarto dei salmi penitenziali: il vertice di questa collezione, uno dei capolavori dell’intero Salterio e oltre. Concedimi dunque un commento un po’ più ampio del solito…
    Siamo di fronte a un abisso di indicibile profondità, che raggiunge ogni umano nel suo oggi, leggendolo più che essere da lui letto. Il salmo 51 è una supplica individuale del tutto particolare. Manca ogni traccia di lamento, di professione di innocenza e di accusa dei nemici: l’orante confessa con franchezza la sua condizione di peccatore e senza addurre alcuna giustificazione chiede a Dio di essere perdonato. I due termini più attestati, entrambi sette volte, sono la radice del “peccare” e il Nome di Dio. Tra il peccato abbondante e l’amore di Dio sovrabbondante: ecco la condizione di ciascuno di noi. Ecco “il salmo della conversione” (tradizione rabbinica), “l’insegnamento del vero pentimento, nel quale stanno due cose: la conoscenza del peccato e la conoscenza della grazia, quindi la fiducia nella misericordia di Dio” (Lutero). In esso si passa dalla regione oscura del peccato (vv. 3-11) alla regione luminosa della grazia (vv. 12-19), con un’appendice dal sapore liturgico (vv. 20-21).
    Prima di entrare nel testo, incontriamo la soprascritta, storicamente inverosimile, ma inserita con rara intelligenza spirituale: “Salmo. Di David. Quando andò da lui il profeta Natan, dopo che egli era andato con Betsabea”. Con un gioco di parole il salmo viene attribuito al re David, che lo avrebbe composto quale confessione di peccato in seguito agli eventi narrati in 2Sam 11-12 : l’adulterio con Betsabea, di cui egli si invaghisce follemente; l’inganno con cui fa uccidere suo marito in battaglia; la parabola con cui il profeta Natan induce David a confessare il suo enorme peccato, insieme adulterio e omicidio. Nella tradizione ebraica si giungerà a questa geniale interpretazione, che può sembrare eccessiva, ma che andrebbe meditata: “Con la stessa sincerità e lo stesso ardore con cui era andato da Betsabea, David si rivolse a Dio e gli disse il suo canto. Perciò fu subito perdonato”.
    È con la stessa passione di David che il salmista si rivolge a Dio per invocare il perdono di un peccato grande, seppur imprecisato. Ora, se è vero che la prima parte del salmo insiste maggiormente sulla confessione del peccato, è però situata all’interno dell’amore preveniente di Dio, che la rende possibile: l’amore di Dio (dunque il suo perdono) precede la conversione! Il salmo è inequivocabile al riguardo, poiché prima dei tre termini che definiscono il peccato e dei tre verbi che indicano il perdono, vi è l’amore di Dio in tutta la sua potenza: la pietà/compassione, l’amore e la misericordia. Proprio come avviene in uno dei passi più alti della Torah, l’autorivelazione del Nome del Signore a Mosè (cf. Es 34,6-7).
    In principio è l’amore del Signore, ben prima del peccato umano, definito nella sua varietà con i tre termini classici. Si mescolano la trasgressione disobbediente e volontaria, il calcolo sbagliato, l’errare su vie perdute, che finisce per condurci in vicoli ciechi: insomma, la nostra multiforme miseria… A tanta miseria corrisponde una varietà di azioni di Dio, invocato perché si faccia prossimo all’essere umano per cancellare, lavare a fondo, purificare. Ma questo lavoro richiesto a Dio necessita di una previa disponibilità umana: “Sì, io riconosco la mia rivolta, il mio peccato mi è sempre davanti”. Parole nette, che contrastano con la naturale tendenza ad autogiustificarci, quasi una seconda pelle per noi umani, riflesso inconscio e velocissimo a ogni minima accusa che ci viene mossa. Quanto ci è difficile dire: “Io ho sbagliato, è colpa mia!”. Nella rinuncia alla giustificazione si riconosce la giustizia di Dio e gli si dice: “Contro te, contro te solo ho peccato”. Ciò che rattrista Dio, in profondità, sono le offese contro i nostri simili: contro di lui pecchiamo solo quando pecchiamo contro gli altri…
    Proprio nel momento in cui si percepisce l’amore giustificante di Dio, riappare in tutta la sua forza la miseria dell’orante: “Colpevole sono nato, peccatore mi ha concepito mia madre”. Il salmista tenta di esprimere con parole inadeguate l’inclinazione al male tipica della condizione umana. Si risale all’origine per indicare quella radicale condizione di peccato che a un certo punto ciascuno di noi scopre in sé. Quando il mio primo peccato? Non ricordo, dunque posso solo risalire al mio in-principio… Insomma, “l’uomo è un essere a cui è capitato qualcosa” (Jean Paul Sartre)! Ma questa sensazione di innata inadeguatezza non sprofonda l’orante nella disperazione, perché egli sa di potersi rivolgere con fiducia al suo Dio: “Tu gradisci la sincerità del mio cuore, nel profondo mi insegni la sapienza”. La vera sapienza, divinamente umana, è il riconoscersi peccatori: questa lucida coscienza è fonte di un sano realismo e di una costante possibilità di ricominciare, come chiarirà definitivamente Gesù.
    Ai vv. 9-11 si torna a invocare la purificazione, con sei richieste, che riprendono in parte le tre iniziali, creando così un’inclusione: cancellare, lavare, purificare (vv. 3-4), purificare, lavare, cancellare (vv. 9 e 11). Nel leggere il salmo puoi dunque riprendere fiato, e insieme condividere l’insistenza del salmista, che non si limita a ripetere, ma chiosa con creatività.
    Con il v. 12 siamo al centro e al vertice del salmo, e le nostre parole vacillano… Si chiede a Dio stesso di ricreare il cuore, cioè il centro della persona, l’intero suo essere; e di ricrearlo “puro”. Sì, con la potenza del Signore si può ricominciare, ricevendo da lui in dono anche “uno spirito saldo”, cioè solido, fermo, affidabile. Al momento però il salmista è ancora esitante e la coscienza del suo peccato lo spinge a temere che Dio possa privarlo della sua presenza, riprendendo il suo Spirito, il che equivarrebbe alla morte. Ma ecco che subito ritorna il desiderio di sperimentare “la gioia d’essere salvato”, che si accompagna a uno “spirito risoluto”, generoso, nobile e gentile. Al centro del salmo si applicano dunque al singolo le promesse che Geremia e Ezechiele avevano rivolto all’intero popolo dei credenti: all’orizzonte si intravede dunque niente meno che la prospettiva della “nuova alleanza”, ultima e definitiva, con tutta la profondità di tale concetto (cf. Ger 31,34; Ez 11,19-20; 36,24-28).
    Comprendiamo dunque che, giunto a questo vertice, l’orante sia spinto ad ampliare i propri orizzonti, coinvolgendo la comunità di cui vuole nuovamente essere parte. Egli desidera esprimere la sua gratitudine a Dio per la nuova creatura che sente di essere. Ma questa novità chiama ulteriori novità: egli non offre, come previsto, un sacrificio cruento. Comincia invece con l’esprimere a Dio il suo proposito: “Insegnerò agli smarriti le tue vie, i peccatori ritorneranno a te”. Senza bisogno di eccessiva sovraesposizione, il suo esempio sarà di insegnamento per i peccatori, che comprenderanno l’insperabile, l’insperato: è possibile fare ritorno a Dio, accogliendo il suo perdono, e colui che è stato “malato” è forse il “medico” che meglio può mostrarlo.
    Ma subito il salmista torna a invocare Dio perché lo “preservi dal versare il sangue…”: quale che sia il senso di tale espressione, egli sente ancora su di sé l’ombra della morte per il peccato commesso, stenta a liberarsene. I gravi errori che commettiamo tornano a presentare il conto, provocano pesanti conseguenze: è così, è realismo… Ma è possibile spezzare questa spirale, e non per le nostre forze, bensì grazie all’amore offerto dal Signore. Quest’uomo, infatti, pone le sue fatiche di fronte a Dio, si rivolge a lui con insistenza: “… o Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia”. Ecco il secondo proposito: celebrare Dio con la lingua, cantare la sua lode. Interpretazione alla quale se ne può affiancare un’altra: la verità del cambiamento si mostra nell’assumere responsabilità verso gli altri, esortandoli a non percorrere vie di morte; se non lo faremo, il Signore chiederà conto a noi dei peccati del fratello non avvertito (cf. Ez 3,17-21; 33,1-9)!
    Segue, questa volta esplicita, la lode: “Signore, apri le mie labbra, e la mia bocca canterà la tua lode”. Il salmista chiede a Dio di essere ispirato per poterlo lodare come si conviene. Con le parole, certo, ma soprattutto con la vita, riassunta in quell’organo fondamentale che la Bibbia chiama “cuore”, centro dell’intera persona. Poi continua: “Ti offrirei un sacrificio, ma non lo accetti, l’olocausto ora non lo gradisci. Sacrificio a Dio è uno spirito contrito, un cuore contrito e spezzato non lo respingi, o Dio”. Questo il vero, unico sacrificio gradito a Dio! È una sorta di unicum, nell’Antico Testamento, una vetta insuperabile. Senza questa disposizione interiore, la lode è esposta al rischio della doppiezza, l’ascolto obbediente può soggiacere alla logica del merito, persino l’offerta della vita (cf. Rm 12,1) può nascondere un orgoglio volontaristico. Solo quando ci si riconosce peccatori e si ha il coraggio di guardare in faccia la propria infinita debolezza, allora si può lasciare che questa miseria sia invasa dalla misericordia di Dio, ben più potente: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)…
    Giungiamo così ai vv. 20-21, un’aggiunta posteriore: vi si auspicano la ricostruzione delle mura della città, che avverrà sotto Neemia, dopo il 450 a.C., e la ripresa nel tempio dei sacrifici. Nulla però va perduto della radicalità di cui si è detto: nella nuova situazione, il popolo umiliato durante l’esilio celebra anche liturgicamente il rendimento di grazie al Dio che gli ha usato misericordia; ma sa di doverlo fare in novità di vita, perché i sacrifici sono veramente giusti solo se sgorgano da un cuore nuovo e puro.
    Al termine di questo appassionante percorso, resterebbe da dire qualcosa sulla fortuna del nostro salmo nella tradizione ebraica e cristiana. Ma ho già abusato della tua pazienza: sarà per un’altra volta… Consentimi però di chiudere notando un particolare decisivo: la parabola terrena di Gesù riattualizza il nucleo incandescente del salmo 51. Gesù è venuto per rivolgere proprio ai peccatori la buona notizia del Vangelo e per donare loro in modo gratuito e preveniente il perdono di Dio, l’amore misericordioso di cui ogni vivente ha estremo bisogno. E che può gustare solo se si riconosce peccatore. Per questo amava dire: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17). Ieri, oggi e sempre, chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio, si avvicina a Gesù perché sente in lui una persona affidabile, un uomo che sa incoraggiare e rinnovare la vita di chi accetta la propria miseria e desidera ricominciare. In una parola, il perdono fatto persona, che sempre fa l’offerta della vita nuova: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11).
    Ci congediamo dunque da questo salmo con una delle tante perle che esso non cessa di suscitare in chi lo ascolta con cuore libero, rileggendolo alla luce della vita di Gesù:
    “Pietà di me, o Dio”. Dio, che sei Misericordia, togli la mia miseria, togli i miei peccati, che sono la mia maggior miseria. Solleva me misero, mostra in me la tua azione. “L’abisso chiama l’abisso” (Sal 41,8): l’abisso della miseria invoca l’abisso della misericordia. È più grande l’abisso della misericordia che l’abisso della miseria. Dunque l’abisso della tua misericordia assorba l’abisso della mia miseria. Chi dunque può disperare? Chi non avere fiducia? (Girolamo Savonarola).
    Forse solo chi non pensa di aver bisogno di misericordia: nessuno è più lontano dalla guarigione di colui che pensa di non aver bisogno di guarigione.

    O Dio Trinità, Nome ineffabile di misericordia inesauribile,
    tu che purifichi dai suoi vizi l’abisso del cuore umano
    e lo rendi più bianco della neve,
    rinnova nei nostri cuori il tuo Spirito santo
    affinché possiamo annunciare con la nostra vita la tua lode.
    (Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)


    QUINTA TAPPA: SOFFERENZA PERSONALE, SOFFERENZA COMUNITARIA
    Salmo 102

    1 Preghiera di un povero che soffre
    e sfoga davanti a Dio il suo lamento.

    2 Signore, ascolta la mia preghiera
    il mio grido giunga no a te,
    3 non nascondere a me il tuo volto
    nel giorno in cui sono nell’angoscia
    verso di me piega il tuo orecchio
    quando ti chiamo, presto, rispondimi.

    4 Come fumo svaniscono i miei giorni
    le mie ossa ardono come brace,
    5 il mio cuore secca come erba falciata
    mi dimentico di mangiare il mio pane
    6 a forza di gridare il mio lamento
    la mia pelle aderisce alle mie ossa.

    7 Somiglio alla civetta del deserto
    sono come il gufo tra le rovine
    8 nella notte resto insonne a vegliare
    solitario come un passero su un tetto.

    9 I miei nemici mi oltraggiano tutto il giorno
    accaniti imprecano contro di me
    10 la cenere è il pane che mangio
    alla mia bevanda mescolo le lacrime.

    11 A causa della tua collera e del tuo sdegno
    mi hai sollevato e poi scagliato a terra
    12 i miei giorni come l’ombra che declina
    e io avvizzisco come l’erba.

    13 Ma tu, Signore, regni per sempre
    il tuo ricordo di età in età,
    14 tu sorgerai e avrai compassione di Sion
    l’ora è venuta di usarle misericordia:
    15 i tuoi servi hanno care le sue pietre
    per la sua polvere provano amore.

    16 Le genti temeranno il Nome del Signore
    la tua gloria tutti i re della terra,
    17 quando il Signore ricostruirà Sion
    quando vi apparirà nella sua gloria
    18 esaudirà la preghiera del solitario
    non avendo disprezzato la sua supplica.

    19 Si scriva questo per la generazione futura
    e il popolo ricreato loderà il Signore:
    20 dall’alto del Santo osserva il Signore
    dai cieli egli guarda sulla terra
    21 per ascoltare il lamento del prigioniero
    per liberare i condannati alla morte.

    22 Il Nome del Signore sarà esaltato in Sion
    sarà lodato in tutta Gerusalemme
    23 quando si raduneranno i popoli
    e i regni e insieme serviranno il Signore.

    24 Lungo il cammino [il Signore] ha fiaccato la mia forza
    ha abbreviato il numero dei miei giorni
    25 e io ho gridato: «Mio Dio!
    non prendermi alla metà dei miei giorni!».

    I tuoi anni nei secoli dei secoli
    26 dal principio hai fondato la terra,
    i cieli sono opera delle tue mani
    27 ma essi passeranno, tu resterai
    si consumano come un tessuto
    come un vestito tu li rinnoverai.

    28 Saranno rinnovati, ma tu resterai
    i tuoi anni non hanno mai fine
    29 i figli dei tuoi servi avranno una dimora
    la loro discendenza resterà alla tua presenza.


    “Preghiera di un povero che soffre e sfoga davanti a Dio il suo lamento”: nella soprascritta del salmo 102 è contenuta la sua efficace sintesi. Siamo di fronte a un testo composito, che alterna la dimensione personale e quella comunitaria, collettiva:
    lamento per la sofferenza personale (vv. 2-12);
    lamento per la sofferenza comunitaria, del popolo di Dio in esilio (vv. 13-23; si veda il riferimento alle rovine di Sion, Gerusalemme, ai vv. 14-15);
    lamento per la sofferenza personale (vv. 24-28);
    speranza finale: la discendenza dei servi del Signore vivrà in pace alla sua presenza (v. 29).
    Riprendendo numerose affermazioni tratte da altri salmi e da passi profetici, l’orante descrive con immagini molto intense la sofferenza che lo attanaglia. Per una volta, soprattutto dopo l’ampio e dettagliato commento al salmo 50 (51), lascio ai lettori il compito di soffermarsi su tali immagini, di gustarne tutto l’aspro sapore leggendole, rileggendole e riascoltandole nell’audio qui proposto. Faccio solo notare che quest’uomo sente la propria condizione come punizione divina, secondo quel riflesso psicologico che abbiamo già commentato in altri salmi. In realtà non è Dio che castiga, ma nella nostra debolezza umana, non riusciamo a esprimerci diversamente… Il miglior commento alle parole del v. 11 si trova in un altro salmo, che ancora una volta si esprime con gli stessi toni:
    Siamo consumati dalla tua ira, Signore,
    dalla tua collera siamo spaventati:
    tu metti le nostre colpe davanti a te
    le nostre opacità alla luce del tuo volto.
    Per la tua collera svaniscono i nostri giorni,
    i nostri anni se ne vanno come un soffio.
    La nostra vita arriva a settant’anni,
    a ottanta se ci sono le forze:
    quasi tutti sono pena e fatica.
    passano presto e noi ci dileguiamo (Sal 89,7-10).
    Qui addirittura il salmista non può nemmeno spingersi così avanti, ma è come annichilito da una tristissima prospettiva: “Ho gridato: ‘Mio Dio! Non prendermi alla metà dei miei giorni!’” (v. 25; cf. Is 38,10).
    Eppure, anche in tale condizione, continua a confidare nel Signore, a rivolgersi a lui con enorme fiducia e speranza: “Tu, Signore, regni per sempre, il tuo ricordo di età in età … Il Nome del Signore sarà esaltato in Sion, sarà lodato in tutta Gerusalemme … I cieli sono opera delle tue mani, ma essi passeranno, tu resterai; si consumano come un tessuto, come un vestito tu li rinnoverai. Saranno rinnovati, ma tu resterai” (vv. 13.22.26-28). Da dove nasce questo slancio interiore? Dalla coscienza che “l’amore del Signore è per sempre” (ritornello del salmo 135), ed è un amore che tocca certamente il singolo, ma si estende anche a tutto il popolo dei credenti di cui egli fa parte, anzi a tutti gli umani, per sempre: “I tuoi anni nei secoli dei secoli … I tuoi anni non hanno mai fine” (vv. 25.28). Ecco un discernimento davvero liberante, che ci fa alzare lo sguardo e respirare nell’esteso spazio della misericordia di Dio: i miei giorni finiranno, ma l’amore di Dio no, il suo amore è per sempre. Amore per me, per ciascuno, per tutti.
    Dunque, anche quando si consumeranno i cieli e giungerà il Giorno, il giorno del giudizio, della venuta gloriosa del Signore, della fine di questo cielo e di questa terra (cf. 2P 3,8-10), non dovremo temere nulla. Sarà l’ora del suo giudizio temibile e misericordioso, del quale Gesù ci ha svelato il criterio: saremo giudicati in base all’amore concreto che avremo saputo vivere verso ogni nostro fratello e sorella in umanità, soprattutto gli ultimi, i più poveri (cf. Mt 25,31-46). La prospettiva del nostro salmo non è molto diversa: unire la propria sofferenza a quella comunitaria (in una visione che si allarga fino al mondo intero, alla comunità di tutti gli esseri umani), significa già ampliare i nostri orizzonti, dilatare i nostri cuori ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fili 2,5), sapere anche noi ascoltare il lamento di ogni prigioniero (di ogni tipo di catene!), soffrire insieme a quanti vanno verso la morte (cf. v. 21), cioè tutti gli umani. Nessuna sofferenza di nessun essere umano ci può essere estranea: solo con questa chiara consapevolezza, potremo rivolgerci a Dio e supplicarlo anche per le nostre personali sofferenze, con “cuore puro e spirito saldo” (Sal 50,12).
    È esattamente ciò che ha fatto Gesù, come ha saputo cogliere con un’intelligente sintesi Agostino, commentando la soprascritta del salmo:
    Un povero prega. Quale povero? Colui che “si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Guarda le sue ricchezze: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Gv 1,3). Come è giunto a mangiare un pane di cenere e a mescolare la sua bevanda con le lacrime (cf. v. 10)? Sì, è lui che ha assunto la forma di schiavo (cf. Fili 2,7), è lui lo stesso povero che dice: “Dai confini della terra ho gridato a te” (Sal 60,3).
    Sì, nel farsi uomo il Signore Gesù ha assunto dall’interno tutta e ogni nostra povertà, dunque si è fatto povero della nostra povertà, fino a “prendere su di sé le nostre debolezze e caricarsi delle nostre malattie” (cf. Mt 8,17; Is 53,4), fino a morire d’amore, potremmo dire. Proprio per l’amore che ha vissuto e patito è stato richiamato dai morti e ora, risorto per sempre, “sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8,34): ormai in Dio c’è la nostra umanità crocifissa con Cristo e risorta con lui (cf. Rm 6,8; Col 2,12)!
    Questo stile proprio del passare sulla terra di Gesù, del suo condividere le nostre sofferenze, è espresso splendidamente in un testo liturgico che dovremmo meditare con più attenzione, in particolare in questo tempo di Quaresima:
    O Cristo,
    la tua passione è anche passione dell’umanità:
    è la fame degli affamati, la sete degli assetati.
    O Cristo,
    la tua passione continua tra i viventi:
    è il languire dei malati, l’agonia dei morenti.
    O Cristo,
    la tua passione è presente nella storia:
    è l’oppressione dei poveri, la tortura dei perseguitati.
    O Cristo,
    la tua passione è sofferta in mezzo a noi:
    ogni dolore è tuo dolore, ogni vergogna è tua vergogna.
    Ed è proprio per Cristo, con Cristo e in Cristo che possiamo accogliere con gratitudine un’audace intuizione della tradizione ebraica sul nostro salmo: “Sta scritto: ‘Preghiera di un povero’, ma si può anche leggere: ‘Preghiera a un povero’”. È Dio il povero che soffre con noi e ci prega di accogliere il suo patire insieme a noi: a ciascuno di noi e a noi tutti insieme.

    Signore, tu che ascolti la nostra preghiera,
    porgi l’orecchio alla nostra supplica.
    Schiavi del peccato,
    noi appassiamo come erba secca:
    donaci di essere risollevati
    grazie al tuo sguardo pieno di misericordia.
    (Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)


    SESTA TAPPA: LE NOSTRE PROFONDITÀ, I NOSTRI ABISSI
    Salmo 130

    1 Canto delle salite.
    Dal profondo grido a te, Signore
    2 Signore, ascolta la mia voce
    i tuoi orecchi siano attenti
    alla voce della mia supplica.

    3 Se tu ricordi le colpe, Signore
    Signore, chi potrà resistere?
    4 ma presso di te è il perdono
    che infonde il tuo timore.

    5 Spero nel Signore,
    spera l’anima mia
    desidero la sua parola,
    6 l’anima mia è rivolta al Signore
    più che le sentinelle all’aurora
    molto più che le sentinelle l’aurora
    7 Israele attenda il Signore.

    Sì, presso il Signore è la misericordia
    decisiva la redenzione
    8 è lui che redimerà Israele
    da tutte le sue colpe.


    Il salmo 130, il penultimo della serie dei penitenziali, è una richiesta di perdono, perché anche il pellegrino che canta i canti delle salite al tempio (salmi 120-134) deve disfarsi di qualche peso. Qui però, piuttosto che insistere sulla confessione delle proprie colpe – come nel salmo 50 (51) –, l’orante esprime fiducia nelle inesauribili risorse di misericordia del Signore, ponendo l’accento sul perdono preveniente da lui accordato: è il Signore, nominato per ben otto volte, il vero protagonista del salmo 130. La speranza e l’attesa del suo perdono-amore-redenzione dominano sulla coscienza del peccato, che pure è l’ineludibile punto di partenza per rivolgersi al Signore: si guarda a lui, non a se stessi! È su questa dinamica spirituale che si innesta il timore del Signore (cf. v. 4), sentimento ben diverso dalla paura: il salmo 130 ce lo indica come la consapevolezza che la sua misericordia precede la nostra conversione, è la fonte del nostro possibile ritorno al Signore e dunque dell’accesso a una vita rinnovata.
    Questa una possibile struttura del salmo, tenendo conto che nei primi 4 vv. ci si rivolge al Signore, negli ultimi 4 alla comunità:
    vv. 1-2: solenne supplica introduttiva;
    vv. 3-4: confessione delle colpe e richiesta di perdono;
    vv. 5-6: confessione di fiducia nel Signore, che è l’attesa e la speranza del salmista;
    vv. 7-8: esortazione alla comunità affinché condivida la stessa attesa della redenzione.
    È questo però un caso evidente in cui ogni possibile schematizzazione si rivela incapace di rendere il calore e la forza di un testo di straordinaria potenza immaginifica, umana e teologica. Cerchiamo dunque di lasciarci illuminare da questo piccolo gioiello.
    “Dal profondo, dalle profondità grido a te, Signore”. La prima parola, nota dall’incipit latino De profundis, fornisce la cifra simbolica all’intero salmo. Il salmista ha già gridato: “Salvami, o Dio, l’acqua mi arriva alla gola! Affondo in un abisso di fango, nulla mi trattiene. Discendo nelle profondità delle acque, il vortice mi inghiotte” (Sal 68,3). La particolarità del nostro salmo è che in esso si parla di profondità, di abissi, senza specificarli in altro modo: è un simbolo aperto, sicché ogni lettore e lettrice può pensare ai propri abissi di non senso, di disperazione, prima ancora che di peccato. È dai tentativi sbagliati di uscire da tali abissi, infatti, che nasce ogni pensiero, parola, azione peccaminosa… Commenta Lutero:
    “Dal profondo grido a te, Signore”. Sono parole ben scelte, veementi e molto intime, parole d’un cuore sincero e penitente, che nel modo più profondo è volto alla propria miseria: uno stato d’animo che non può essere compreso, se non da quelli che lo provano e ne fanno esperienza. Noi versiamo tutti in una profonda e grave miseria, ma non tutti avvertiamo dove ci troviamo.
    Solo quando si va a fondo si scoprono le fondamenta e si può davvero cominciare a risalire. Quest’uomo sembra capirlo, sembra sapere dov’è, dove si trova, perciò insiste due volte nel chiedere al Signore di ascoltarlo. Ma non basta gridare, parlare, nemmeno a Dio. Prima occorre, appunto, capire dove si è: occorre capire che si è in radice peccatori. Se il giusto pecca sette volte al giorno (cf. Pr 24,16)… E più ci si avvicina al Signore, più ci si sente peccatori e miseri, come ricordano Isaia (cf. Is 6,5) e Pietro (cf. Lc 5,8). Ecco allora una lucida presa di coscienza, in forma di domanda: “Se tu ricordi le colpe, Signore, Signore, chi potrà resistere?”. È come se dicesse: “Non entrare in giudizio con il tuo servo. Nessun vivente può giustificarsi davanti a te” (Sal 142,2). Tale consapevolezza non è però fonte di paura, bensì sfocia in una convinta confessione: “… ma presso di te è il perdono”. Il miglior commento sono forse le parole del profeta Michea:
    Quale Dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato?
    Non serbi per sempre la tua ira, ma trovi gioia nel manifestare il tuo amore.
    Torni sempre ad avere misericordia di noi, calpestando le nostre colpe.
    Tu getti in fondo al mare tutti i nostri peccati (Mi 7,18-19).
    Si va al Signore nell’abisso della colpa, e si vede il proprio peccato gettato in un altro abisso: abisso del mare sì, ma più in profondità abisso del suo amore misericordioso, che neanche le grandi acque possono spegnere (cf. Ct 8,6). Davvero il perdono viene da Dio, è divino! Ecco perché Gesù, quando con il suo agire narrava questo tratto di Dio, incarnandolo e donandolo come possibilità agli umani, scandalizzava alcuni uomini religiosi: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?” (Mc 2,7). Ma Gesù non si cura di tale rimprovero, anzi comanda il perdono ai suoi discepoli come compito fondamentale: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15).
    A questo punto l’orante inizia a rivolgersi al Signore alla terza persona, senza però perdere nulla del suo pathos. Il pellegrino del salmo 130 spera nel Signore e lo attende. Anzi, spera e attende la sua parola, “annunciatrice di perdono: è nel dialogo che si realizza l’incontro d’amore” (André Chouraqui). Chi si comporta in questo modo è una sentinella che precede l’aurora: ecco perché l’orante confessa che tutto il suo essere è rivolto al Signore, addirittura “più che le sentinelle all’aurora”. Dagli abissi acquatici o da una “terra riarsa, arida, senza acqua” (Sal 62,2) i cercatori di Dio sono sempre sentinelle dell’aurora, “che precedono il mattino per meditare sulla promessa del Signore” (cf. Sal 118,148). E così possono cantare: “Le misericordie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue compassioni. Esse sono rinnovate ogni mattino, grande è la sua fedeltà” (Lam 3,22-23). È solo questo, in radice, che ci rimette in piedi e ci fa rialzare ogni mattino…
    Dopo la notte, l’aurora tanto attesa verrà certamente, le misericordie del Signore saranno rinnovate. Il tutto è espresso in ebraico con un sottile gioco di parole, dato che “sentinella” e “ricordare/osservare (le colpe)” contengono la medesima radice verbale: il credente “veglia” per il Signore, il quale però non “veglia” sulle sue colpe… Commenta Rashi, un maestro ebreo dell’XI secolo: “‘L’anima mia è rivolta al Signore…’: vale a dire, io spio l’arrivo della redenzione. ‘… più che le sentinelle all’aurora’, le quali aspettano e ancora aspettano: di fine in fine”. Una lezione che la vita può insegnarci: forse può imparare ad andare di inizio in inizio solo chi si esercita anche ad andare di fine in fine, arte difficilissima…
    Prima di concludere, il salmista sente il dovere di rivolgersi a tutta la comunità, esortandola alla stessa attesa del Signore. E questo perché? Ancora una volta, perché l’amore del Signore precede e guida ogni vivente, dunque dovrebbe ispirare quanti dicono di aderire a lui: “presso il Signore è la misericordia, decisiva la redenzione”, il riscatto, il perdono dei peccati. Ecco l’esperienza salvifica per Israele, per la chiesa e per ogni credente: sulla terra “la conoscenza della salvezza” si ha “nella remissione dei peccati” (Lc 1,77) – come i cristiani cantano nel Benedictus –, fino a quando il Signore riscatterà tutta l’umanità “dalla mano degli inferi” (Os 13,14), dalla morte.
    E così, ecco aprirsi l’ampio terreno dell’esegesi cristiana del salmo 130. “Cristo, non guardando alle nostre colpe, ci dona il perdono dei peccati”. Questo antico titolo coglie bene l’attitudine con cui Gesù si è sempre avvicinato ai peccatori pubblici, ai derelitti, che potevano gridare a lui con fiducia la loro richiesta di compassione e ricevere da lui il perdono dei peccati. Mai Gesù si è negato ai peccatori, sempre ha offerto loro consolazione, vicinanza, perdono. Per questo ha potuto dire di sé: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc 10,45). Questo lo stile dell’incarnazione, alla luce del quale si proclama il salmo 130 a Natale, confessando che con la sua venuta nella carne Gesù “ha salvato il suo popolo dai suoi peccati” (cf. Mt 1,21) ed è venuto per “togliere il peccato del mondo” (cf. Gv 1,29), compiendo la missione contenuta nel suo Nome: Jeshu‘a, “il Signore salva”. La riflessione del Nuovo Testamento e dei padri svilupperà ampiamente i concetti chiave del nostro salmo, applicandoli a Cristo: egli è il perdono, l’espiazione (cf. 1Gv 2,1-2; 4,10); è la manifestazione vivente dell’amore del Padre (cf. 1Gv 3,16); è la redenzione, il riscatto (cf. 1Cor 1,30; Tt 2,13-14).
    Letto in Cristo, il salmo 130 è anche un salmo di resurrezione, perché la notte del peccato e della morte è illuminata dalla luce dell’alba pasquale. Di conseguenza, è anche uno dei salmi classici della liturgia dei defunti: la redenzione definitiva, infatti, di cui Cristo è la primizia, sarà la liberazione dal potere della morte. Al cristiano che prega questo salmo è dunque chiesto di non guardare troppo a se stesso, ma di volgere il proprio sguardo al Signore Gesù Cristo, accogliendo con fiducia la sua offerta di vita, fino alla fine dei suoi giorni, e anche al suo ingresso nell’abisso della morte: “Coraggio, figlio, ti sono rimessi i peccati” (Mt 9,2).
    Leggiamo, rileggiamo e meditiamo con cura il De profundis, che è tutto un abisso di profondità, dall’inizio alla fine; e facciamolo con il coraggio di guardare in faccia i nostri personali abissi, senza evitarli, senza fuggirli, senza gettarne il peso addosso agli altri. Come chiede anche Agostino:
    Dobbiamo cantare con intelligenza: “Dal profondo grido a te, Signore, Signore, ascolta la mia voce” … Ciascuno di noi comprenda quale sia l’abisso in cui si trova e da cui grida al Signore. Se nell’abisso riesce a gridare, già si sta sollevando dall’abisso e lo stesso suo gridare gli impedisce di rimanere proprio sul fondo. Sono invece nelle profondità estreme dell’abisso coloro che nell’abisso non provano nemmeno a gridare. Il Signore Gesù Cristo non ha disdegnato di guardare i nostri abissi, ma ha assunto la nostra vita e ci ha promesso la remissione di tutti i peccati. Remissione che avviene grazie alla legge della misericordia, del perdono di Dio: la legge dell’amore ottiene il perdono dei peccati, cancella le colpe del passato e ammonisce per il futuro …“Sì, presso il Signore è la misericordia, decisiva la redenzione”. Splendido! Per quanto l’essere umano si senta gravato di colpe, c’è sempre la misericordia di Dio.
    Ecco la legge dell’amore, quella di cui ci parla anche uno scritto minore del Nuovo Testamento, la Lettera di Giuda, che contiene un’autentica perla, degna sintesi del salmo 130: “Conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore” (Gd 21).

    Gli orecchi del tuo amore, Signore,
    siano attenti alla profondità della preghiera di chi ti supplica,
    poiché presso di te è la remissione dei peccati,
    sicché non ricordi le nostre colpe,
    ma ci doni le tue misericordie.
    (Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)


    SETTIMA TAPPA: DALLA MORTE ALLA GIOIA DELLA RESURREZIONE
    Salmo 143

    1 Salmo. Di David.

    Signore, ascolta la mia supplica
    alle mie preghiere tendi l’orecchio
    nella tua fedeltà, nella tua giustizia rispondimi,

    2 non entrare in giudizio con il tuo servo
    nessun vivente può giustificarsi davanti a te.

    3 Sì, il mio nemico mi perseguita
    calpesta la mia vita fino a terra
    mi confina in luoghi tenebrosi
    come i morti, morti per sempre,
    4 si spegne in me il mio respiro
    dentro di me si raggela il mio cuore.

    5 Mi ricordo dei giorni di un tempo
    rimedito su tutte le tue azioni,
    ripenso alle opere delle tue mani
    6 protendo le mie mani verso di te
    come terra arida assetata di te.

    7 Presto, rispondimi, Signore
    mi viene a mancare il respiro
    non nascondere a me il tuo volto
    sarei tra quelli che scendono nella tomba.

    8 Fammi sentire al mattino il tuo amore
    perché ho fede in te, o Signore
    fammi conoscere la via da seguire
    perché a te io offro la mia vita.

    9 Dai miei nemici liberami, Signore
    presso di te io trovo rifugio
    10 insegnami a fare la tua volontà
    perché sei tu il mio Dio,
    con bontà mi guidi il tuo Spirito
    su terre che non conoscono inciampi.

    11 A causa del tuo Nome fammi vivere, Signore
    per la tua giustizia fammi uscire dall’angoscia,
    12 nel tuo amore annienta i miei nemici
    fa’ perire tutti i miei avversari
    perché io sono il tuo servo.


    “I salmi penitenziali cominciano nel pianto e terminano nella gioia, in modo che nessuno disperi del perdono”. Queste parole di Cassiodoro, simili a quelle dello stesso autore con cui abbiamo aperto il nostro itinerario, sono particolarmente adatte per introdurre la settima e ultima tappa del nostro percorso: dopo il pianto, la coscienza del proprio peccato, il desiderio, il canto della miseria e misericordia, la sofferenza personale e comunitaria, il passaggio attraverso le nostre abissali profondità, eccoci alla gioia della resurrezione.
    Ma è una gioia a caro prezzo: gioia in mezzo alle lacrime che segnano questo venerdì santo, passaggio duro ma necessario attraverso la morte, per giungere all’alba di Pasqua. È questo il clima del salmo 143, estrema supplica del Salterio, che menziona per l’ultima volta l’estremo limite temporale, l’enigma della vita umana: la morte. La morte prende il centro della scena nel nostro salmo: basta rileggere i vv. 3-4 e 7, segnati in particolare dal riferimento allo spegnersi del respiro umano… Con la conseguente, elementare ma più che mai vitale, richiesta da parte del salmista: “A causa del tuo Nome, fammi vivere, Signore, per la tua giustizia fammi uscire dall’angoscia”. È anche l’ultima volta in cui nei salmi si parla di angoscia: a dire che l’angoscia estrema di ogni umano è la morte, e la speranza estrema è la vita, una vita che assuma i tratti dell’eternità.
    Questo, dunque, il quadro di fondo di una supplica abilmente costruita, con parallelismi e inclusioni testuali, che disegnano la seguente struttura, individuata da Gianfranco Ravasi:
    a appello alla giustizia di Dio da parte del servo (vv. 1-2)
    b incubo della morte, vissuto in una terra assetata (vv. 3-6)
    b’ incubo della fossa, ma speranza di camminare su terra pianeggiante (vv. 7-10)
    a’ appello alla giustizia di Dio da parte del servo (vv. 11-12)
    L’esordio è all’insegna della richiesta pressante: “Signore, ascolta, … tendi l’orecchio, … rispondimi!”. L’orante non ha però alcun sacrificio, nemmeno delle labbra, da offrire (cf. Sal 140,2); non si dichiara innocente, in cammino su una via giusta sbarratagli dai nemici (cf. Sal 141,4). Si riconosce peccatore, incapace di giustizia, dunque pronto all’ammissione che ha reso celebre questo salmo, al punto da suggerire di classificarlo come ultimo dei penitenziali: “Signore, non entrare in giudizio con il tuo servo, nessun vivente può giustificarsi davanti a te”. Insomma, quest’uomo può contare solo sulle qualità di Dio: fedeltà all’alleanza, giustizia e amore. Qualità che a prima vista possono sembrare in contrasto tra loro (soprattutto giustizia e amore), ma che in realtà concorrono insieme a tratteggiare il volto misericordioso del Signore. “Questo salmo viene recitato nella persona di tutto il popolo di Cristo e di ciascuno in particolare. Di questo popolo sono quotidianamente nemici i sapienti di questo mondo e quelli che si giustificano da sé, i quali non vogliono saperne della grazia misericordiosa di Dio … Le parole’il tuo amore’ e ‘la tua giustizia’ significano la grazia e la giustizia mediante cui Dio ci rende credenti e giusti per mezzo di Gesù Cristo” (Lutero).
    Parole, queste, inserite nell’ampio fiume della tradizione interpretativa del salmo 143, che le precede e le segue:
    In base alle opere della Leggenessun vivente sarà giustificato davanti a Dio (Rm 3,20).
    L’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, … poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno (Gal 2,16).
    “Nella tua giustizia rispondimi”. Chi si gloria in sé non riceve risposta, non è esaudito. Non sono esauditi quanti ignorano la giustizia di Dio e, volendo affermare la propria, non si sottomettono a quella di Dio. Come il fariseo che nel tempio volle affermare la propria giustizia e perciò fu rimproverato dal Signore (cf. Lc 18,9-14). Gloriamoci dunque nella giustizia di Dio, se chiediamo di essere esauditi, per poter dire con il salmista: “Nella tua giustizia rispondimi” (Gregorio Magno).
    L’orante di questo salmo si sente alle soglie della morte, e l’unica consolazione che gli resta è quella di meditare sulle meraviglie compiute da Dio nella storia: “Mi ricordo dei giorni di un tempo, rimedito su tutte le tue azioni” (cf. Sal 76,6.12-13)… Potrà forse il Signore dimenticarsi di mostrare ancora il suo amore fedele (cf. Sal 76,8-10)? No di certo, perciò quest’uomo si protende verso il Signore con tutto il suo essere assetato di vita, di salvezza (cf. Sal 42,2; 62,2), invoca la sua risposta, facendo leva sulla richiesta – così frequente nei salmi – che il Signore non “nasconda il suo volto”, altrimenti finirebbe nella fossa. Egli spera ancora in un nuovo mattino, l’ora dell’esaudimento, perché confida nel Signore. E mentre chiede di essere liberato dai nemici – il classico terzo lato del “triangolo” dei salmi di supplica –, rinnova la promessa di impegnarsi a vivere nell’alleanza con il suo Dio. Questa è la via da seguire, la volontà da compiere: in una parola, la vita (“fammi vivere”)!
    Tutto ciò all’insegna di una grande fiducia nel Signore, il vero filo rosso del nostro testo, fiducia espressa con insistenza nell’ultima parte, ma che rischiara anche la parte più buia del salmo (è al Signore che si esprime la propria angoscia!):
    “‘In te mi rifugio, mi nascondo’: nascondo le mie tribolazioni a ogni persona per raccontarle a te solo, Signore” (Rashi, maestro ebreo dell’XI secolo).
    “Con bontà mi guidi il tuo Spirito su terre che non conoscono inciampi”. Se anche il respiro dell’uomo viene meno, il Respiro del Signore, identificato da gran parte della tradizione cristiana con lo Spirito santo, continuerà a guidare chi si affida lui sulla terra pianeggiante, “la terra dei viventi” (Sal 141,6). Sarà questo il cammino che il solo Signore conosce, anche oltre la morte, quando verrà meno il nostro respiro (cf. Sal 141,4), quando avremo paura dell’enigma che ci attende?
    L’intero salmo è come riassunto nelle due affermazioni conclusive, ispirate alla teologia dell’alleanza: “Sei tu il mio Dio … io sono il tuo servo”, cioè un credente che vive una profonda comunione con il suo Signore, nonostante tutto e tutti.
    Già si sono anticipate le linee di fondo della lettura cristiana del salmo 143. Innanzitutto quella cristologica, così sintetizzata da Girolamo: “Questo salmo contiene la voce di colui che, per salvare l’essere umano, si svuotò, assumendo forma di schiavo, per liberare dalla schiavitù tutta l’umanità”. Si legge addirittura in un antico titolo: “Cristo, dall’alto della croce stese le braccia sia verso il popolo non credente (!) sia verso il Padre”. Non dimentichiamolo…
    Fino alla fine Gesù ha pregato il Padre perché gli insegnasse a compiere la sua volontà: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39); “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). Ed è stato esaudito in modo straordinario: il suo Spirito lo ha condotto alla resurrezione, alla vita eterna, a quell’amore pieno che Gesù ha sperimentato su di sé, nel mattino ultimo e definitivo, l’alba di Pasqua.
    Ogni credente in Gesù Cristo, di conseguenza, può pregare il salmo 143 attraverso di lui: nessuno si salva da solo, ma nulla è impossibile “in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1,30). Come egli ha accolto i peccatori pubblici nel corso della sua vita terrena, così accoglie nella sua misericordia questa preghiera di confessione del peccato, chiedendo a chi va a lui solo di riconoscere la propria fallibilità, le proprie tenebre, la propria morte: così Cristo potrà diventare “la via, la verità” – cioè la volontà di vivere nella fedeltà – “e la vita” (Gv 14,6) di chi aderisce a lui. Al punto da donare a ogni suo discepolo il Respiro ricevuto dal Padre, quale dono fondamentale dopo la resurrezione (“Venne Gesù, stette in mezzo … soffiò e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito santo’”: Gv 20,19.22), Spirito che è la forza in cui donare a nostra volta la remissione dei peccati (cf. Gv 20,23). È questa la verità ultima e definitiva cui ci vuole guidare lo Spirito di verità (cf. Gv 16,13).
    Ecco dove può condurre, nel quotidiano, la “vita in Cristo”: a fare di lui il respiro del nostro respiro, ad attraversare con lui ogni angoscia e battaglia, ad accogliere il volto di Dio da lui narrato, in tutta la nostra vita. Lo aveva ben compreso ancora Lutero, a chiusura del suo commento:
    “Perché io sono il tuo servo”. Ciò significa: “Io vivo nella grazia, perciò tutta la mia vita serve te, non me; infatti io non cerco me stesso, ma te e ciò che è tuo. Cerco solo e unicamente Gesù Cristo”. Confesso che tutte le volte che ho trovato nella Scrittura qualcosa meno di Cristo non mi sono mai saziato: Cristo è la grazia di Dio, la sua misericordia, la sua giustizia, la sua verità, sapienza, forza, consolazione e beatitudine che Dio ci ha donate senza alcun nostro merito.
    Ecco dove ci ha condotti l’itinerario attraverso i sette salmi penitenziali: alla gioia della resurrezione in Cristo. Gioia che ci sarà data in pienezza nel Regno, ma che possiamo incominciare a sperimentare, almeno un po’, già qui e ora, lottando contro le tante forme di morte che ci assalgono, la prima delle quali è il non riconoscere i propri peccati. Strumento di tale lotta è anche il pregare con amore e intelligenza i salmi giorno dopo giorno, meditandoli alla luce del Vangelo di Gesù Cristo, il Signore risorto, vivente e sempre veniente.

    O Dio, tu hai fatto risuonare di gioia
    l’alba della resurrezione di Cristo,
    quando, facendolo risalire dagli inferi,
    hai riempito di gioia la terra coperta di tenebre.
    Noi ti preghiamo:
    come allora hai fatto esultare la comunità degli apostoli,
    accorda ancora oggi alla tua chiesa
    di essere illuminata dallo splendore
    della stella del mattino, il Signore nostro Gesù Cristo.
    (Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)

    (Fonte: Sito di Bose)


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