Educare alla preghiera /9
In difesa
dell'«esteriorità»
Alessandro Maggiolini
Pensate un poco, amici, ad esempio, se dovessimo inventare noi il Padre nostro, così, di getto e unicamente sotto la spinta di una istintività incontrollata e di una spontaneità irrefrenabile, ma dicendo veramente quel che pensiamo, senza pudori: reciteremmo pressappoco così: Padre nostro che sei nei cieli - e stacci -, sia santificato il mio nome, venga il mio regno, sia fatta la mia volontà ecc. Il seguito è intuibile... E invece la formula di Gesù recita come sappiamo.
C'è da pensare che, quando diciamo questa preghiera, nessuno di noi vi si trovi molto comodo: è come un abito fuori misura, ci sta maledettamente largo. Include anche quelle tremende - e affascinanti - parole: sia fatta la tua volontà... rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori... Chi può pronunciare queste frasi senza batter ciglio?
Il fatto è che sbagliato non è il Pater: siamo sbagliati noi che ancora non lo abbiamo fatto nostro. Come se - appunto - ci nascesse dentro da una istintività incontrollata, da una spontaneità irrefrenabile.
Sto difendendo le formule di preghiera, sissignori, e una qualche esteriorità. Quando, prima della comunione ci vien dato di scambiarci il segno di pace, se stessimo al nostro estro, ci serreremmo nelle spalle sperando che l'ignota cinquantenne che ci è a destra e il bambino irrequieto che disturba a sinistra ci lascino in pace - nella nostra pace -; o al marito o alla moglie o alla zia vicina ci verrebbe da morsicare il naso o da dire: «Va al diavolo», invece che: «La pace sia con te»... Anche qui, sbagliato non è il gesto; siamo noi che vorremmo rinchiuderci nel nostro egoismo o dar sfogo alle nostre rivalità.
Certo, una soluzione potrebbe essere quella di eliminare lo scambio della pace o di rifiutarci di dire il Pater. È un poco il ragionamento che si fa quando si afferma con qualche solennità: piuttosto che partecipare male alla Messa, non ci vado. Come se fosse un grande atto di coraggio il non andare a Messa in un tempo in cui quasi più nessuno ci va. Ma soprattutto: come se fosse una soluzione il non andare a Messa invece che parteciparvi male. Non si potrebbe andare a Messa e parteciparvi bene?
Stiamo scoprendo l'ombrello.
Tanto vale ammettere che queste formule di preghiera e questi riti esteriori, quando son cose serie o addirittura son parole stesse di Gesù, ci inquietano. E allora, lasciamoci inquietare, se ne abbiamo il coraggio. Poiché di coraggio si tratta.
So bene che c'è il pericolo dell'abitudine: dell'abitudine di biascicar tiritere senza pensare il senso, o di ripetere dei riti senz'anima. Ma pure non bisognerà dimenticare che c'è il pericolo di un'altra abitudine forse ancor più comoda: quella di non pregare più.
Io, vescovo, posso ben cedere alla «routine» di distribuire la comunione come se dessi le carte a briscola: ma non credo che il problema sia risolto nella decisione di rifiutarmi di distribuire la comunione...
Troppo facile. Il problema sta semmai nel vivificare dall'interno ciò che si fa e si dice, così che diventi davvero un atto di lealtà o il tentativo di lealtà, almeno. Si badi: non difendo pratiche e formule come se fossero degli assoluti; servono perché esprimono un'intenzione e perché la suscitano. Si può pregare nell'intimo più fondo di noi stessi: senza parole, senza gesti, senza immaginazioni, unicamente sospendendoci alla presenza di Dio...
Ma non facciamo i gradassi: ci diam talvolta l'aria di aquile e poi ci scopriamo oche dal volo radente; parlo di me - s'intende - e di qualche ascoltatore che conosco. Sì, perché, dopo il sussiego di grandi santi, finiamo per non fare neppure il minimo richiesto in fatto di preghiera. Chi è quel balordo che ha detto che non è l'abito che fa il monaco? Non è soltanto l'abito... O se si vuole: è il monaco che fa l'abito.
L'intimo, se c'è, si manifesta e ha bisogno di disciplina. Se c'è...