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    A Etty Hillesum

    Alexandre Jollien

    Cara Etty,
    dopo che ho letto il tuo diario, la mia esistenza si è dilatata. Tu offri un affresco dell'essere umano senza concessioni né giudizi là dove io mi aspettavo tristezza, rivolta, pathos. Sbalordito, ho desiderato di seguirti nel tuo viaggio interiore che si è concluso ad Auschwitz il 30 novembre 1943.
    All'inizio il tuo diario mi è caduto di mano, mi aveva deluso. Diffidavo soprattutto di quello psicochirologo che tu chiami S., e ti ho biasimata per aver subito la sua influenza. Per tre volte ho rinunciato a leggerti. Ma quando di lì a qualche settimana ho ricevuto nella casella postale il tuo Diario registrato dalla Bibliothèque Sonore Romande, ho deciso di rinnovare il tentativo, e di nuovo mi sono scontrato nella stessa constatazione: le prime sessanta pagine erano scoraggianti. Per entrare nel tuo mondo, ho dovuto scalare una montagna. Ma la gioia che ne è seguita è ben valsa questo sforzo. Dopo l'ascensione non ti lascio più, perché lassù mi sono scoperto. Tu hai avviato una conversione.

    Gli altri, incostanti tanto quanto me

    Sì, oso parlare di conversione. Barricate, muri, ecco che cosa avevo cercato negli scaffali di filosofia. Ora, invece, mi rivolgo ad essa per accogliere la vita e smetto di schivare ad ogni costo gli inevitabili rovesci della fortuna. In modo febbrile mi sono precipitato anche verso gli altri, perché mi rassicurassero e mi confortassero. Ma tu hai mostrato che i miei simili sono sempre incostanti quanto me.
    La sfida a me stesso e la pigrizia mi costringono a cercare risposte pacificanti nei libri, o presso gli altri. Ti osservo nell'ora della prova quando, invece di fuggire, ti genufletti in te stessa e resti silenziosa affinché l'agitazione che è in te muoia poco a poco. Io tento invece di smorzare il grido della sofferenza nel tumulto della folla o imitando i miei filosofi.
    La tua disarmante lucidità mi rallegra. È umile, conferma che nulla è mai acquisito una volta per sempre. Talvolta crediamo di aver superato una tappa, e un piccolo dettaglio compare subito per smascherare la nostra fragilità. La filosofia vi si radica, elegge a suo domicilio l'incostanza del quotidiano, nel cuore stesso della nostra singolarità. Da qui il pericolo e l'impossibilità di ricavarne ricette o risposte. È per questo che aborro un certo tipo di sviluppo personale, che pretende di insegnare a vivere in poche lezioni. Come possiamo pensare che basti applicare alcuni schemi per giungere a germogliare? Lungi da ogni facile e comodo pensiero, tu risvegli ad una arditezza ben più profonda.
    Le cose dello spirito diventano una fuga quando l'aspirazione alla saggezza allontana il momento della felicità. Spesso ho creduto che seguendo alla lettera il comportamento di qualche saggio avrei raggiunto un giorno la felicità. Accumulando strumenti filosofici ho sperato invano di alleggerire il peso dell'esistenza. Abbandono ora questa esigenza impossibile: non potrei mai annullare tutta la sofferenza. Per fortuna noi possiamo gustare la gioia già da adesso, anche se l'immaginazione, per nostra sfortuna, reclama una stabilità e un equilibrio inaccessibili.
    Tu hai rimosso dai miei pensieri l'immagine sacrosanta del saggio vergine e impeccabile. Non ti chiudi mai in questa menzogna, non neghi mai i combattimenti interiori. Ho ammirato la tua sincerità quando, con semplicità, confessi di fare fatica a conciliare la spiritualità con il basso ventre. Sì, abbiamo bisogno di coabitare con i fantasmi che popolano il nostro essere, accogliere la folla di personaggi che gridano dentro di noi. Rientrare in se stessi significa senza dubbio affrontare un rischio, e forse fare incontri spiacevoli.
    Quando la mia impazienza vuole finirla con i grattacapi quotidiani, osservo te. Un giorno, ti senti libera dalla paura della morte; il giorno dopo, uno sguardo un po' arcigno ti getta nelle profondità dell'abisso. Così è la vita. Ci crediamo giunti alla vetta, ci apprestiamo a contemplare la veduta del paesaggio, ed ecco che ruzzoliamo giù. Perché aspirare a fermarci in uno stato? L'uomo cambia, è libero; da qui deriva la sua grandezza, e da qui, talvolta, la sua infelicità.

    Nessun problema?

    Ciò che resta senza soluzione non costituisce necessariamente un problema! Talvolta una voglia tenace di sbarazzarmi delle difficoltà mi costringe a una lotta spossante. Vorrei posare i piedi su un terreno stabile, trovare dei punti di riferimento, ma si tratta invece e innanzitutto di accogliere le domande e i dubbi. Se, prima di scoprire te, ho odiato la pazienza, ora sto incominciando ad amarla. Essa non dovrebbe derivare dallo sforzo, ma dalla fiducia. Non dobbiamo imporcela, ma sceglierla. Con pazienza attendo che sgorghi una risposta, perché da sotto le paure, la schiavitù, gli ostacoli, possa comparire una persona libera.
    Si tratta forse di aprire le braccia al malessere e, senza irrigidirsi, accogliere le ore tormentate. Mi piace il modo in cui tu ti abbandoni concedendoti dei momenti di depressione. [1] Tu, appunto, mi mostri che possiamo conoscere la disperazione, la gelosia, e restare liberi. Ricordi il parco pubblico in cui amavi stare in compagnia dei tuoi amici? Sulla rete metallica, leggesti: «Parco proibito agli ebrei».[2] Il tuo spirito, lontano mille miglia dalla rivolta e dal risentimento, ha osato una risposta, una risposta di vita: «Restano sempre parecchi posti in cui vivere nella gioia!».

    «Amor fati»

    Tuttavia la tua semplicità mi sconcerta.. Nutri l'instancabile convinzione che la vita sia bella. Una mente superficiale potrebbe ridurre il tuo atteggiamento a una sorta di ingenuità. Eppure, con una lucidità incredibile, conservi questa fiducia perfino nel convoglio che ti porta ad Auschwitz. A Westerbork, in quel miserabile campo di lavoro in cui già si sente la morte, nel mezzo delle atrocità, tu resisti e preferisci celebrare la vita piuttosto che condannare i tedeschi. Leggendoti, ho pensato alle parole di Nietzsche, che apre il quarto libro della Gaia scienza con il Sanctus Januarius. In quell'inverno del 1882 il pensatore dello Zarathustra, nell'abisso della solitudine, si rivolge un augurio: «Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che v'è di bello in loro: così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d'ora innanzi il mio amore! Non voglio muover guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori. Guardare altrove sia la mia unica negazione! E, insomma: quando che sia, voglio soltanto essere, d'ora in poi, uno che dice sì!». [3] Il tuo abbandono, proprio là dove meno me lo sarei aspettato, ti avvicina a Nietzsche.
    Abbandonarsi non significa arrendersi. Senza mai cedere, tu scegli di rifiutare l'odio, che sembrerebbe così naturale di fronte ai tuoi seviziatori. Quando i nazisti ti ingiungono di fasciare dei neonati prima che vengano diretti ai campi di sterminio, potresti giudicare l'esistenza spietata, cercare un capro espiatorio. Ma te ne guardi bene. Quando vedi i tedeschi commettere gli orrori, ti indigni delle grida che biasimano un'intera nazione e resisti all"odio collettivo'. Suprema garanzia della tua libertà, non dai ragione ai tuoi carnefici, affondando nella loro barbarie. Lontanissima dal fatalismo, resti dignitosa di fronte a coloro che vogliono trasformare l'uomo in bestia. «So che in un campo di lavoro morirò in tre giorni, mi addormenterò per morire, tuttavia non considererò la vita ingiusta». [4] Capisco, grazie a te, che quando disprezziamo l'altro finiamo sempre per odiare la vita stessa.
    Disgustato da ogni minima traccia di autoritarismo, ho cercato di comprendere da dove ti venisse questa libertà affascinante. Certo, tu coltivi una fede assoluta in Dio. Il tuo Dio non vive tra le nuvole, ma abita il cuore degli uomini e senza opprimere nessuno accresce chi lo accoglie. Ma prima di essere divina, la tua saggezza è propriamente umana. Hai stabilito in te stessa il centro di gravità della tua esistenza. Il mio centro si è troppo spesso fissato sull'handicap o sulle avversità, circostanze che, lungi dal banalizzarle, vorrei ormai occupassero soltanto il posto che spetta loro. A forza di lottare contro un problema finiamo per diventare noi stessi il nostro problema. La paura e la lotta possono invalidare le risorse interiori.

    Distogliersi dall'infelicità

    Osservare le peripezie di mia figlia dà nuova linfa a questa intuizione. La piccola cade, sbatte la testa, scivola, ruzzola... Per calmare i suoi pianti, cerco di orientare la sua attenzione su un'immagine, sul paesaggio, o cerco di farla ridere. In poche parole, provo a tirarla fuori dal suo male. Ogni tanto un sorriso fa seguito ai singhiozzi. Capisci bene, non si tratta certo di fuggire la sofferenza. Anche se spesso, per non essere messi alla prova, relativizziamo subito il dolore dicendo: «Non è grave!», «Passerà!». Distogliere per un po' il pensiero dall'infelicità significa riprendere le forze per riconsiderare i propri dolori in modo più calmo.
    Per non impuntarmi su un problema, cerco di usare meglio il mio tempo aspettando che si mostri una soluzione. Ma confesso che perdo in fretta la pazienza, per mancanza di fiducia. Accumulo strategie ed elaboro piani come se dovessi prepararmi al peggio. Ho paura di subire una nuova prova. In tua compagnia cerco invece di distogliermi da una simile tensione e mi arrischio ad avanzare con le forze disponibili. Ogni giorno ricevo il necessario, né di più, né di meno. Non posso fare scorte.
    Ho paura e mi interrogo, proprio come te: «Sarò in grado di mantenere la rotta nei momenti di dolore?». Ne dubito. Non mi è sufficiente constatare che sono sopravvissuto alle prove per inferire che sarà lo stesso anche in futuro. Tremo al pensiero che una pena mi annichilisca definitivamente, svuotando le mie forze già messe a dura prova. È forse per il fatto che ho accettato la vita soltanto in modo superficiale? Mi hai forse liberato dall'illusione di avere assunto davvero il peso dell'esistenza?
    Sì, volendo controllare tutto, mi aggrappo a un'illusione. Ma abbandonarsi significa prendere dei rischi, pensare e vivere altrimenti. Lungi dal privarcene, si tratta di allargare il nostro mondo: riducendolo alle nostre attese, infatti, cercando una felicità su misura, rendiamo più povera l'esistenza. Per te la vita non ha un lato buono e uno cattivo: si dà tutta intera. Perciò io rifiuto la vita quando pronuncio i miei giudizi categorici: «Voglio essere in pace», « Mai più questo », «Sarò infelice se perderò un amico», «La salute è una conditio sine qua non della felicità»... Tutto sommato, cavillando sulla felicità senza viverla davvero, dimostro un dogmatismo increscioso. Ma tu, Etty, riesci ad attenuare la rigidità delle mie affermazioni.
    Vorremmo isolare, scoprire le cause della felicità per ricavarne un metodo efficace da applicare con zelo. È questa la via reclamata dalla nostra paura. Davanti a questo vuoto, tu apri un nuovo percorso. Ancor meglio: insegnandomi che siamo in grado di accettare la nostra condizione, mi doni la forza per aprirlo.
    La lettura di Seneca mi aveva già insegnato a non collocare la felicità fuori di me. Come molti altri, anche lui sostiene che i rovesci della fortuna non toccano affatto la pace del filosofo. Malattie, offese, insuccessi, perdite non turbano il saggio, poiché la sua felicità risiede all'interno, nell'attività stessa della sua anima, in una condizione dello spirito, la famosa eudaimonia. Dopo aver letto le Lettere a Lucilio, esaltato, ho subito chiamato mia moglie per dichiarare solennemente che la mia felicità non dipendeva da lei. Mi sbagliavo. L'ho capito quando, in partenza per un viaggio, sulla soglia, le ho ricordato quanto mi sarebbe mancata e lei mi ha ribattuto: «Tu invece non mi mancherai, visto che la mia felicità non dipende da te...». Anche se la mia interpretazione dello stoicismo era piuttosto una sua caricatura, penso che davvero si possa smettere di far dipendere la nostra gioia da qualche condizione. E tu me ne indichi il modo.

    «Avrò la forza»

    Tu risvegli in me la convinzione che avremo la forza per accettare tutto quanto. Piuttosto di sforzarsi per evitare i pericoli o per costruire artificiali e inutili condizioni di felicità, dobbiamo rientrare in noi stessi. Agli antipodi del pensiero positivo per cui tutto va bene, tu assumi il tragico dell'esistenza. E davanti alla barbarie nazista una voce si leva in te. È la voce che hai educato nel corso degli anni: «Avrò la forza». È vero, possiamo costruire questa fiducia con le nostre stesse mani, per radicarla in noi. Ma perché attendere l'infelicità per imparare l'arte del distacco?
    L'esistenza è senza dubbio aspra e ci può indurire. Insieme a te sento che possiamo temprarci senza spegnerci. È proprio ciò che vuol dire abbandonarsi. Ti affidi alla vita, conscia del fatto che essa si esprime ovunque, anche nel tedesco che ti tortura. Non offrendo alcuna presa al risentimento, rifiutando ogni possibile compromesso con la crudeltà, il tuo coraggio chiede di fare di tutto per alleggerire il peso del male, per non lasciarsi ineluttabilmente inasprire dalle lacerazioni inevitabili. Non credo che l'abbandono dipenda da un atto definitivo. Dire di sì alla realtà dipende da una fragile fiducia che può accrescersi in noi.
    Per quanto tu mi sappia riconciliare con l'accettazione, continuerò a biasimare gli spiriti vili che ammantano deliberatamente le cose peggiori con le loro teorie. «Che cosa mai posso fare?»: ecco l'interrogativo che sorge quando subisco un duro colpo. Ho già rievocato Nietzsche: in Così parlò Zarathustra [5] denuncia i maestri di rassegnazione e ci ingiunge di sbarazzarcene allegramente. L'ho letto per scongiurare una possibile perdita di coraggio. È la lotta, infatti, e quindi il rifiuto, che mi hanno liberato da certi limiti. Per consolidare la perseveranza e attraversare la prova, bisogna trascendere.anche il dato.

    Acconsentire al reale, ma non troppo precipitosamente

    L'accettazione – mi insegni – non è una capitolazione. È per questo che mi piace tanto il pensiero dell'eterno ritorno, perché mi ha suggerito l'audacia di lasciare i modelli per inventare me stesso. E non mi troverei qui, verosimilmente, senza la sana contestazione che ha portato alla luce. Esortandomi a restare fedele a me stesso mi ha fatto avanzare, al tempo stesso, verso l'oltrepassamento che rompe i determinismi e ci strappa alle predizioni più cupe. «Io sono Zarathustra, il senza Dio: riesco a cuocere ogni caso nella mia pentola. E solo quando esso è cotto a puntino, gli do il benvenuto come mio cibo. E in verità, più di un caso venne a me imperioso: ma più imperiosa ancora parlò ad esso la mia volontà, ed ecco che quello si inginocchiò implorando...». [6]
    «Bisogna accettare», «È così», «La pazienza è la madre delle virtù», «Non si può avere tutto subito», «Chi vivrà vedrà»... Queste massime banali, esortandomi ad assumere il mio male in modo paziente, hanno ferito le mie giovani orecchie. Ma questo atteggiamento privo di bontà non mi ha reso amaro. Ho odiato quell'ingiunzione quando, all'età di sette anni, mi sbucciai le ginocchia e un'educatrice esclamò: «Devi accettarlo!». Allora più che mai ho invidiato i bambini che si consolavano delle loro ferite tra le braccia di una madre che li accoglieva con un tenero silenzio. L'accettazione degenera spesso in una sorta di ideologia che giustifica passività, resa e indifferenza.
    Cara Etty, ho diffidato anche degli stoici quando, dopo una lettura impropria, non ho saputo ritenere altro che un beato invito ad accettare le leggi del cosmo. Dopotutto, se credono che l'universo sia retto dal logos divino, è normale piegarsi ai colpi della sorte. Nella mia fretta ho dimenticato che molti stoici hanno denunciato la schiavitù e si sono battuti per la fraternità degli uomini. Poi Seneca mi ha fornito nuove armi mostrandomi che, se la Fortuna mi sfuggiva, potevo tentare di controllare attivamente le opinioni relative alle mie disavventure. Ho finito per ammirare questi pensatori che, nell'epoca in cui le città greche incominciavano a decadere, usavano il loro intelletto come uno strumento liberatorio per mantenere a distanza la paura e l'inquietudine.
    Ma sei tu che mi hai spinto a cercare un equilibrio delicato. Un paziente abbandono, infatti, non sempre si apparenta alla virtù. E se nel vocabolario comune il filosofo designa l'individuo che sopporta serenamente le prove, non penso affatto che si debba accettare ogni cosa. Mi rattristano i maestri del fatalismo che celebrano la sottomissione: dimenticano che possiamo crescere soltanto opponendoci al male. È bene acconsentire alla realtà, certo, ma senza troppa precipitazione. Accettare non significa rinchiudersi nella miseria, né rinunciare a sperare di vivere un po' meglio. Dobbiamo rifiutare di bloccarci nella debolezza, pur assumendone pienamente il peso.
    Al contrario, quando talvolta credo di scorgere nell'accettazione un mezzo sottile per fuggire la sofferenza, mi vengono subito in mente le parole di Nietzsche, e mi chiedo se non sia per me «la perdita peggiore tra tutte, rimetterci la (mia) delicata sensibilità e avere in regalo la dura pelle degli stoici con gli aculei del riccio». [7]

    Per uno stoicismo impaziente

    In tua compagnia mi piace avanzare su un cammino nuovo, e tento di conciliare gli estremi. Avrò l'ardire di elaborare uno stoicismo impaziente? Lo stoico dei miei sogni costruisce il futuro considerando le sue reali disposizioni e si astiene dal gettare sul mondo un velo di diffidenza. Non aspira a una fiducia assoluta e liberandosi da una simile esigenza dischiude ogni giorno il proprio amore per la vita. In modo virtuoso, quest'uomo non si blocca in una posizione scelta una volta per tutte, ma si adatta con destrezza alle necessità del quotidiano. Per quanto si riconosca fragile, rinuncia a prendere rifugio in una tranquillità acquisita a poco prezzo. L'abbandono, invece di allontanarlo dalla vita e di corazzarlo contro di essa, lo eleva.
    Lo stoicismo impaziente esige una virtù che trae profitto dalle risorse donate dall'istante. Non cerca di diventare più tranquillo, ma più vivo. E se riduce le nostre attese, è per farci gioire maggiormente dell'esistenza. Nella sofferenza, senza indurirsi, ascolta il comandamento della vita: «Fare ogni cosa per salvaguardare la gioia e condividerla».
    Se fuggire ad ogni costo il dolore ci può sfiancare, il combattimento contro il male eleva l'uomo. Cara Etty, mi ero ripromesso di non attardarmi sulla sofferenza. Più di ogni altra cosa voglio far crescere la mia gratitudine per questa tremenda felicità di vivere. Dopo aver letto le tue pagine, il tuo nome risuona in me con dolcezza e mi ricorda la ricerca che tu hai inaugurato. Non sono in grado di esprimere tutta la ricchezza del tuo Diario, che concludi confidando il tuo desiderio di essere come un balsamo versato su molte ferite. Mi sveli un modo per pensare le mie ferite; e io scorgo la presenza di questo balsamo nell'intimo del mio animo. Saprò correre il rischio di affrettarmi, con leggerezza, lungo questo generoso periplo che eleva e apre infinite possibilità?
    Tuo
    A. J.

    NOTE

    1. Cfr. Etty Hillesum, Diario, trad. it. Milano 2007, p. 72.
    2. Ivi, p. 107.
    3. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. Milano 1979, p. 159.
    4. Hillesum, Diario, trad. cit., p. 146.
    5. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. Milano 1997, Della virtù che rimpicciolisce, 3, p. 195.
    6. Ivi, pp. 195-196.
    7. Nietzsche, La gaia scienza, trad. cit., par. 306, p. 179.

    (da: Cara Filosofia. Lettere di un giovane filosofo ai grandi Maestri, Angelo Colla Editore 2008, pp.147-156)


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