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    Etty e la famiglia

    "I miei genitori, mio Dio, i miei genitori!"

     
    Dal Diario ricaviamo alcune riflessioni sulla famiglia (quella di Etty era davvero problematica, con un buon-normale rapporto col padre, un rapporto conflittuale-caratteriale con la madre, un rapporto da sorella maggiore verso i due geniali problematici – anche con problemi nervosi  fratelli). 


    So che più in là dovrò sopportare la sua solitudine e la sua desolazione, e la mia. E poi c'è Han, che sta invecchiando molto, sempre più, ogni giorno che passa. E i miei genitori, i miei piccoli genitori. Ma so che me la caverò, mio Dio. Ti ringrazio per avermi resa così “capace di resistere”. E adesso, buona notte.

    E mentre tornavo a casa, dopo, avrei voluto essere investita da una macchina, e pensavo: Ma certo, diventerò pazza anch'io, come tutta la mia famiglia, un pensiero che mi viene sempre, quando, chissà perché, mi sento disperata. Ma oggi so benissimo di non essere pazza, è solo che devo lavorare ancora molto con me stessa per diventare una persona adulta, una persona al cento per cento.

    Le cose che vorrei formulare stanno ancora al di là delle mie forze, nasce forse da ciò il mio mal di testa. Per giunta, questa famiglia conosce a meraviglia l'arte di risucchiare tutte le energie, ma oggi sono di nuovo me stessa, molto più che nei giorni scorsi.

    “C'è qui, in questa strana famiglia, un tale indescrivibile miscuglio di barbarie e alta cultura, da farti perdere per intero le forze. Mio fratello maggiore dice sempre: qui regna il disordine organizzato. Il capitale qui è in giro, sparso qua e là, un capitale di valori spirituali e umani, ma tutto alla rinfusa, male amministrato e privo di obiettivi. Stando così le cose, di tanto in tanto ti coglie un senso di oppressione e di tristezza. Un tempo la mia pittoresca famiglia mi costava, ogni notte, almeno un litro di lacrime disperate. Ancor oggi non so spiegarmi quelle lacrime; arrivavano da chissà dove, da un oscuro soggetto collettivo. Adesso non sono più così prodiga con questo prezioso liquido, ma comunque sia non è facile vivere qui.

    “Qualche giorno fa, all'alba, quando in famiglia dormivamo ancora tutti, mio fratello, il più piccolo, è scappato di casa. Ha scritto una lettera abbastanza patetica, ma in fondo molto sensata, nella quale diceva che non riusciva più a sopportare l'atmosfera di casa: non si sarebbe lasciato inaridire e, d'ora in poi, voleva essere lui l'artefice della propria vita. Dopo una giornata di ricerche (era mercoledì), abbiamo scoperto che era andato da certi nostri conoscenti fuori città, i quali lo hanno accolto affettuosamente. Come bagaglio aveva solo lo spazzolino da denti della mamma, nient'altro. Non vuole tornare in famiglia. Fa bene, il ragazzino. Speriamo si comporti come si deve, che non sia necessario rinchiuderlo di nuovo. Su questo piccolo episodio ci sarebbe da scrivere un intero volume, gliene parlerò in dettaglio a voce. Qui da noi succede davvero di tutto e di più, ogni ora un'infinità di stati d'animo diversi, devo rielaborare di continuo tutto quanto, e che alla fine non riesca a liberarmi dei miei mal di testa non è poi così strano. Ciò possiede naturalmente anche il suo lato umoristico, ma sempre con un retrogusto amaro oppure cinico. E adesso basta con la cronaca di famiglia”.

    Avrò però la “scrivania” e non la famiglia; era così già nel passato. Altre ragazze sognavano un marito e dei figli. Invece io avevo sempre una determinata idea: una mano che scriveva. Vedevo sempre una piccola mano e molta carta, e quella mano scriveva, continuava a scrivere. In questa mia idea c'era una camera, in realtà una cella, su una montagna, e a valle un fiume di persone; e io stavo lì nella mia alta cella e la mano intenta a scrivere era la mia. Io parlavo con le persone che scorrevano ai miei piedi.

    Di prima mattina le cose sono andate abbastanza bene con mamma. Ovviamente ho parlato subito in maniera troppo eccitata di tutto, ma sono stata anche ferma. Ho continuato a lavorare alle annotazioni di Mischa, con un moto di fierezza del tipo: bene, non lascerò che la mia famiglia mi distolga dal mio proposito.

    Non è ancora finita. Ho accolto di nuovo mio padre con amore e grazia. E così mi sono anche tornate le forze; sono pronta a tutto e mi sento nuovamente piena di vita. Di sera, Mischa. Inizialmente non avevo voglia di quella visita. So, per così dire, troppo di quanto c'è dietro, dietro la maschera che indossa quando siede al pianoforte, quindi non riesco più a godere della sua musica. Questa volta è andata diversamente. Sono rimasta profondamente colpita dalla sua esecuzione e mi sono anche chiesta se la mia idea della sua personalità sia dopo tutto corretta, o se invece non mi sia fatta un'immagine riduttiva di lui, a causa di un complesso di famiglia duro a morire, e se per questo l'abbia valutato in modo ingiusto. Ora dovrei scrivere di nuovo dell'amore, di un genere d'amore più elevato che è in me, e anche del mio desiderio di essere il più possibile onesta nel giudicare i miei simili, ma quella parola, “amore”, sta diventando molesta. D'un tratto la penso così. Ma anche questo ci sta: non avere il coraggio di essere se stessi, di rimanere in contatto con le sensazioni primigenie che albergano in noi. Trovarlo sentimentale e aver paura che anche gli altri lo ritengano sentimentale. Ma non è sentimentale per niente. Dentro di me ci sono due grandi sentimenti basilari: l'amore, un amore inspiegabile, forse non meglio identificabile, perché è un sentimento primigenio nei confronti delle creature e di Dio, o perlomeno di ciò che io chiamo Dio; e la compassione, una compassione infinita che a volte mi provoca pianti a dirotto.

    Bisognerebbe scriverci un racconto, ha detto Wiep ieri sera, quando le ho raccontato come Mischa trascini i due anziani genitori in lungo e in largo per l'intero paese ghiacciato in modo che assistano ai suoi concerti privati. Lui semplicemente si rifiuta di suonare se non ci sono anche mamma e papà. Molto commovente. In passato andavano a fargli visita in istituti per malati di nervi e presso dottori, adesso assistono ai suoi concerti. Non sono ancora abbastanza consapevole della grande fortuna che tutto questo cela in sé e di quante buone ragioni ci siano per provare gratitudine verso la propria famiglia. Non ho ancora raggiunto la piena consapevolezza di ciò perché ci sono ancora tracce di malessere associate alla mia complicata famiglia. C'è ancora la paura di dover d'un tratto fronteggiare sconvolgenti sorprese che farebbero barcollare la mia serenità mentale. Riguardo a ciò, dovrò ancora chiarire alcune cose con me stessa.

    Determiniamo il nostro destino dall'interno. L'ho scritto mercoledì, di buon mattino, e sono rimasta io stessa turbata da questa affermazione avventata, così ho cercato di verificarla dentro di me. E inaspettatamente tutto si è chiarito. Certo, ogni uomo determina il proprio destino. Le situazioni in cui possiamo trovarci su questa terra non sono molte: siamo mariti o padri, mogli o madri, siamo prigionieri o guardie carcerarie, non fa poi una grande differenza: le stesse mura ci circondano. E così via, da ripensarci in seguito. In realtà è l'orientamento interiore verso gli eventi a determinare il destino. In ciò consiste la vita. Non conosciamo la vita di una persona, se ne conosciamo solo i fatti esteriori. I fatti esteriori, ahimè, non sono poi così diversi in ogni esistenza. Per capire la vita di un uomo bisogna conoscerne i sogni, il rapporto con la famiglia, gli stati d'animo, le delusioni, la malattia e la morte.

    Nel frattempo io stavo facendo un complicato calcolo. La mia è una famiglia singolare, in passato avrei forse detto degenere. Ma perché usare parole grosse che non servono a nessuno? Jaap, Mischa e io insieme abbiamo un'età di 26 + 21 + 28 = 75 anni. E i nostri partner insieme raggiungono l'onorevole età di quasi un secolo e mezzo, avendo rispettivamente 42, 40 e 63 anni. Potrei anche andare avanti a contare. I miei 28 anni convivono con i 123 anni dei miei due compagni, ognuno dei quali ha più di mezzo secolo. 

    E ora qualche appunto di S. Li trascrivo perché penso che qui lui abbia detto tutto il necessario in maniera concisa e insuperabile:
    “Il figlio è legato a entrambi i genitori; il figlio deve fare ciò che i genitori non sono riusciti a portare a compimento. Bisogna liberarsi dall'influenza dei genitori e imparare a camminare con le proprie gambe. Le influenze dell'ambiente non equivalgono a una predisposizione: possiamo metterle da parte comprendendole e riconoscendole. Qui la nostra generazione incontra notevoli difficoltà perché quella precedente, cresciuta nel materialismo e in una convenzionale sicurezza di sé, non ha lavorato su questo punto.
    “Amando e onorando i nostri genitori corroboriamo la fiducia in noi stessi, perché all'inizio la fiducia in se stessi è fondata sui genitori. Il difficile è riuscire a emanciparsi dai genitori per diventare intellettualmente autonomi. Questa emancipazione può essere considerata alla stregua di una seconda nascita, che porta in sé molti conflitti e difficoltà. Bisogna superare i sensi di colpa che ne derivano. Non viene chiesto di amare i propri genitori, bensì di onorarli.
    “All'inizio i figli vedono i genitori solo come sono; ma in seguito dovranno capire come e perché i genitori sono diventati così.
    “I genitori non devono inibire psicologicamente i figli, perché altrimenti i figli si irritano. Con il loro giusto istinto si ribellano.
    “Il vero amore per i figli dev'essere a favore dei figli, svincolato da qualsiasi aspettativa nei loro confronti (ad esempio, non deve essere un tentativo di ritrovare se stessi, né l'attesa di venir ripagati di eguale amore). Questa è una debolezza dei genitori: la si potrebbe definire il loro destino”.

    Molte persone sono troppo ristrette, troppo chiuse nelle loro idee e così, educando i figli, li legano a loro volta. Da noi era proprio il contrario. Mi sembra che i miei genitori siano stati sempre più sopraffatti dall'infinita complicazione di questa vita, e che non siano mai stati in grado di fare una scelta. Hanno lasciato troppa libertà di movimento ai loro figli, non potevano offrirci nessun punto d'appoggio, dato che non ne avevano mai trovato uno per sé; e non potevano contribuire alla nostra formazione perché non si erano mai trovati una forma.

    Quando mi sono alzata martedì mattina, ho pensato: devo fare in modo di trattare mio padre con vero amore oggi. Ero di nuovo perseguitata dai complessi di inferiorità causati dai miei genitori, complessi che probabilmente ogni figlio ha: la gente non li troverà strani?

     

     


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