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    "Se mi accorgo che qualcun altro è triste,

    dimentico la mia stessa tristezza

    e voglio capire e aiutare l'altro"


    Presentiamo un semplice “florilegio” di citazioni di Etty sul tema della tristezza, un “fondamentale” esistenziale certamente.

    In tale presentazione si constata facilmente come il campo di tristezza (o di situazioni che la causano) si allarga sempre di più, dalle cose personali o che immediatamente la toccano, all’attenzione per ciò che causa tristezza negli altri, fino alla “grande tristezza” che è la situazione di morte a cui Etty sente che lei e tanti sono condannati.
    Il suo atteggiamento è sempre più “accogliente”: dal cercare di combattere e allontanare all’assunzione di essa perché fa parte della vita e comunque la vita nel suo insieme è grande e bella: “nessuna parte della propria vita va abbandonata: è possibile darle ricetto e anche comprensione”.
    Non mettiamo nessun titolo che raggruppi le citazioni per non dare l’idea di una costruzione sistematica o progressione dall’esterno. È un cammino interiore sollecitato dall’esperienza (propria e storica) e da una piena accoglienza della “vita”, così come si offre.


    È una così triste orda, l'umanità oggi: tanto poco felice di vivere, nel vero senso della parola, e tanto poco radiosa. Un cumulo di piccoli complessi e preoccupazioni triviali, basse invidie, matrimoni infelici e figli malriusciti, ecc. Eppure, anche se abiti in un sottotetto e mangi solo pane secco, vale comunque la pena di vivere. E sebbene questi tempi rendano difficile l'esistenza, impedendoci di vivere appieno, non dovremmo comunque farne una tragedia o lasciare che tutto vada tristemente.

    Di tanto in tanto ti coglie un senso di oppressione e di tristezza. Un tempo la mia pittoresca famiglia mi costava, ogni notte, almeno un litro di lacrime disperate. Ancor oggi non so spiegarmi quelle lacrime; arrivavano da chissà dove, da un oscuro soggetto collettivo. Adesso non sono più così prodiga con questo prezioso liquido, ma comunque sia non è facile vivere qui.

    Sono così triste, così terribilmente triste in questi ultimi giorni. Perché, poi? Non sono triste proprio sempre, a momenti riesco a tirarmene fuori, ma poi ci ricasco.

    Sarà così, sarà che gli ingorghi interiori fanno parte di questi processi: ma devono pur essere ridotti a un minimo, altrimenti la mia vita diventa impossibile. Ieri, mentre tornavo a casa in bicicletta così indicibilmente triste e col cuore di piombo e mi sentivo passare gli aeroplani sulla testa, ho provato quasi un senso di liberazione al pensiero che una bomba avrebbe potuto metter fine alla mia vita. Ultimamente mi capita spesso di pensare che sia più facile non vivere che vivere.

    Non dovresti mai dire: “domani farò questo e quest'altro”. Se poi non ci riesci, ti rattristi e ne ricavi solo una sensazione di scontentezza e oppressione. Nei momenti in cui ti senti capace di fare molto, ti carichi troppo di entusiasmo, mentre nei momenti in cui ti senti meno capace, te ne stai ferma con tutto il daffare e ti senti disperatamente inadeguata. È molto difficile vedere di quanta forza disponi davvero, ed è altrettanto difficile capire che le forze sono sempre limitate, senza alcun dubbio, specie se messe a confronto con tutto quello che vorresti fare.

    In questo momento ti senti tanto misera. Non è poi così grave. Adesso pensi che resterai triste per sempre, e non capisci come gli altri possano essere allegri. E tra un'ora sarai di nuovo allegra e non capirai perché gli altri sono tristi. Il modo in cui esprimo tutto ciò non ha alcun senso, ovviamente.

    Non puoi neanche perdere troppo tempo tra tristezze e rimuginii, quando invece c'è ancora tanto da studiare e da elaborare. È vero, corro sempre il rischio di perdermi di nuovo nel caos, in una sconfinata tristezza, ma c'è anche qualcosa di forte e di inesorabile in me, di niente affatto sentimentale e molto concreto, lo sento con grande chiarezza. È qualcosa che mi aiuterà a dare forma e ordine alle mie idee, per cui un giorno riuscirò a maturare un giudizio obiettivo sulle cose.

    Questo mi accade spesso: se vedo che altri sono tristi, allora io mi riprendo e vorrei gridare agli altri: Di sicuro non è così grave, passerà presto, la stai prendendo in modo molto più negativo di quanto sia necessario.

    La tristezza che provo non ha niente a che vedere con le cose esteriori. Penso che tutto quello che faccio sia sbagliato, che mi sono sforzata oltre le mie capacità, che ho scelto il lavoro sbagliato. Questo però non dipende dal lavoro, è un punto dolente nella mia attitudine nei confronti della vita, per cui cresce in me la paura di non riuscire a fare le cose e insieme a essa anche l'avversione. Non so cosa siano tutti questi cambiamenti nei miei stati d'animo. Li porto con me, sono una mia parte, eppure è così difficile analizzare i miei stessi stati d'animo, vederne le cause e le connessioni. Non so perché. Ieri ero tentata di dire ai miei amici: Sentite, se oggi o domani dovesse cadere una bomba su di me, non fate sciocchezze, ma consolatevi con il pensiero che io sono felice di essere libera. E stamattina, nel bagno (in quello stretto bagno con la stuoia di cocco marrone, la mattina presto accade sempre qualcosa di singolare) , d'un tratto sono stata colta dall'immagine di pazienti in un istituto. E di colpo ho pensato che deve essere una sorta di liberazione lasciarsi andare alla tristezza e affondarvi completamente, scuotersi di dosso ogni responsabilità, con le mura dell'istituto e l'assistenza regolamentata del personale infermieristico che provvede a creare una nicchia sicura in cui uno può lasciarsi andare. Dico solo che posso immaginarmelo, non che voglio essere rinchiusa in un istituto. Perché mai ogni piccolezza diventa così pesante per me? Di certo non dipende dal lavoro, perché è sempre lo stesso e non di rado penso che nessuno abbia una vita tanto coinvolgente e varia come la mia. Non si tratta nemmeno di una tristezza che si possa lasciar smorzare: presenta troppi angoli vivi. A volte riesco a venirne fuori. Ma è come se qualcuno che ha un forte mal di denti ci mettesse sopra una mano tentando ogni sorta di piccoli trucchi per liberarsi un po' del dolore. Ogni tanto funziona. Anch'io le provo tutte e parlo con me stessa e ci metto sopra, per così dire, la mano dell'intelletto portandola poi anche sul punto ferito della mia psiche, ma il dolore di fondo rimane; a volte va via per un po' ma poi torna a farsi sentire. Può anche darsi che io soffra di qualche malessere fisico che mi fa sentire un po' stanca e mi dà i reumatismi, ma il rapporto di causa-effetto, a mio avviso, va nell'altra direzione. Non farei neanche tante storie per un po' di attacchi reumatici, se nella mia anima fosse tutto a posto. Non dipende neanche dal fatto che io non abbia avuto il permesso di continuare a studiare.

    Lascia che la vita, allegra o triste, o qual sia, con tutte le sue contraddizioni, ti lambisca, piccola cara. Non essere così assoluta.

    Eppure qualcosa non va in me: non voglio un uomo, non voglio figli, perché non oserei mai prendermi la responsabilità di un'altra vita - la responsabilità di me stessa mi costa già tutte le energie - e perché temo la sofferenza, la tristezza e la solitudine che scaturiscono da un così piccolo consorzio umano.

    E in questo modo continui ad andare avanti. Una notte d'amore, buon umore, umore cattivo, tanta tristezza e anche un po' di coraggio e un senso di malessere, tanto forte che corri il rischio di proiettarlo sugli altri che altrimenti ti sono cari. E con questo di nuovo quella sensazione di non poter nutrire alcuna fiducia in te stessa, di non poter fare affidamento sui tuoi sentimenti.

    Questo è ciò che ogni giorno mi insegna daccapo: che bisogna rimanere aperti, che non ci si deve chiudere in se stessi nei momenti più bui, né affondare in essi pensando che sia un giorno perso, triste. Nella mia vita quasi troppo ricca, mi rendo conto che ci sono centinaia di svolte in una giornata, centinaia di sorprese, una veduta improvvisa, un senso di inclusione, ecc. Penso di essermi spesso fissata, nel passato, su un simile momento di malessere, per cui rimanevo chiusa in me per lungo tempo.
    Martedì sera. Di nuovo quella tristezza pesante, profonda. E non volevo andare da Imre Ungár, bensì raggomitolarmi in un angolo della mia camera, non volevo nient'altro che essere triste. Credo di cominciare via via a capire da dove viene la tristezza: dall'incapacità di trovare la mia forma; dai momenti in cui i miei sentimenti e la mente non riescono a cristallizzare in figure e parole ciò che accade in me. E la sera di sabato la tristezza è venuta da tutto questo, credo.

    E poi c'era Leo Polak, un altro gentile filosofo, morto in un campo di concentramento: volevo sapere in che modo fosse morto per capire come piangere la sua morte. E c'era molto altro ancora, per cui quella tristezza è cresciuta fino ad assumere proporzioni che da tempo non aveva più avuto. E poi, alle otto, sono andata in bicicletta da S. fino a casa di Ungár, lungo le aree buie, ampie della Stadion. E quella tristezza mi pesava dentro come piombo, ma l'ho accolta in me amorevolmente, aprendomi, e poi mi sono resa conto che anche la tristezza fa parte del mio essere, anzi ne è una parte preziosa, e che non ci si può sottrarre a quel sentimento quando esso vuole impossessarsi di noi per un momento.

    Ho notato che non dico più: è terribile, quant'è triste, com'è noioso, che bello, e invece dico: quant'è interessante!

    E si fa sempre più evidente in me che ogni cosa fa parte della vita e nulla deve essere negato: la tristezza, la stanchezza, ma anche l'eccessivo coraggio, gli errori e i momenti superficiali, la gelosia contro la quale combatto, e la disonestà interiore che devo riconoscere. Lo sconforto e la sfrontatezza. Si porta tutto con sé, nessuna parte della propria vita va abbandonata: è possibile darle ricetto e anche comprensione.

    Ora porto con me la mia tristezza e la mia gioia, e ogni altra cosa: l'una non esclude più l'altra e così è anche nelle mie relazioni con gli altri.

    Sono contenta che domattina mi aspettino tutti quei piatti da lavare nella cucina in disordine: è una specie di penitenza. Credo di poter capire i monaci, che nelle loro ruvide vesti s'inginocchiano su freddi pavimenti di pietra. Bisogna che rifletta seriamente su queste cose. Stasera sono proprio un po' triste: ma sono stata io a volere quegli abbracci. Lui, quel tesoro, si era appena proposto di vivere in castità per parecchie settimane, pensando alla Gestapo dove dovrà presentarsi tra non molto: quasi per poter irradiare nient'altro che bontà e purezza, per attirare su di sé i buoni spiriti del cosmo. Perché poi uno non dovrebbe crederci? Ed ecco che una sfrenata “ragazza chirghisa” viene a confondergli quei sogni. Gli ho chiesto se stasera, ripensandoci dal suo letto, ne avrebbe provato dispiacere. No, ha risposto, io non rimpiango mai nulla, era bello, e mi sono reso conto che esiste ancora un “luogo terrestre” dentro di me. Invece per me un improvviso ravvicinamento fisico nasce sempre da una “vicinanza spirituale”, ed è buono proprio per questo. E che cosa ne cavo, poi? Soltanto tristezza e la coscienza che con gli abbracci non riesco a esprimere quel che provo per un altro; e la sensazione che un uomo mi sfugge proprio quando è fra le mie braccia. Io provo più piacere e desiderio nel guardare la sua bocca che nel sentirla sulla mia. In rarissimi momenti questo mi procura persino una sorta di felicità, per dirla con un parolone. E stanotte mi addormenterò accanto a Han, per pura tristezza. Com'è tutto caotico.

    Eppure la mia tristezza è diversa da quella di un tempo.
    Non cado più così in basso, e nella mia tristezza è già insita una possibilità di ripresa. Una volta, quando ero triste, pensavo che avrei continuato a esserlo per tutta la vita: ora so che anche quei momenti fanno parte del mio ritmo vitale, e che è un bene che sia così. Ho di nuovo fiducia, una grandissima fiducia, anche in me stessa. Credo nella serietà del mio impegno, e so che col tempo riuscirò ad amministrare bene la mia vita.

    Comunque è proprio vero che il più pieno godimento e la più profonda tristezza spesso si trovano l'uno a fianco dell'altra. E su quella profonda tristezza: dev'essere senz'altro “l'anima del mondo” che si rende visibile...

    Il mio amico era di nuovo di vedetta, e si è preso un'altra volta cura di me in tutti i modi. Ieri sera, nella neve, ecco tornare, senza preavviso, quella disperata tristezza, sicché ho dovuto placare il mio cuore dicendo: “Di tanto in tanto bisogna pur offrire un modesto ricovero alla tristezza del mondo”, ma non si trattava di tristezza cosmica, era la mia personale, la più intima tristezza. Ora comunque essa si ridimensiona già in una mezz'ora, mentre in passato ci volevano dei giorni. Già adesso sono state smaltite molte piccole cose, ogni volta seguendo lo stesso procedimento. Gli ho detto che avrebbe prostituito la sua professione a vantaggio dei nazisti, se avesse provato a usarla per salvarsi la vita. Al che lui, pieno di franchezza, ha risposto: Sì, è proprio così. Ma il tutto è molto meno pesante e grave di quanto io non abbia almanaccato nella mia fervida immaginazione. Eppure quei berretti da soldato tedeschi, appesi all'attaccapanni a casa della Stahl, mi rendevano inquieta e triste. Lo volevo portare a casa e andar via immediatamente, ma avevo un groppo in gola e ho detto: Ti rendi conto che centinaia di olandesi sono in prigione perché si rifiutano di scambiare una sola parola con quei tedeschi?

    È un bene poter di nuovo passare questi momenti di tristezza e doverli sopportare fino a una positiva conclusione. Nel frattempo mi pesano moltissimo dentro e fanno male. Non si devono mai far scontare agli altri, sarebbe irresponsabile: gli altri non devono ricevere sofferenza da parte nostra quando noi dobbiamo soffrire la nostra tristezza. Eppure c'è sempre quella tentazione infantile di sentirsi affranti e di pensare che nessun altro abbia una vita dura come la nostra.
    E ora cito me stessa:
    “Quanto alle mie tristezze, esse rientrano fra le componenti preziose del mio essere e celano ancora una volta in sé il nuovo momento creativo”. Queste parole, adesso, non sono neanche credibili. C'è un equilibrio rotto che fa tanto male e che deve essere prima ricostituito.

    E infine: alla tristezza del mondo non bisognerebbe offrire, di tanto in tanto, un piccolo rifugio? E un bel giorno dirò forse a Ilse Blumenthal: “Sì, la vita è bella, la lodo alla fine di ogni giorno, eppure so che figli di madri, e lei è una madre, sono trucidati nei campi di concentramento. E il dolore di tutto ciò bisogna saperlo sopportare; anche se te ne lasci devastare, dovrai rialzarti un giorno, perché un essere umano è tanto forte, perché il dolore deve diventare una parte di te, una parte del tuo corpo e della tua anima, non devi fuggirlo ma sopportarlo come una persona adulta. Non sfogare i tuoi rancori in un odio che vuole vendetta su tutte le madri tedesche, che adesso, in questo istante, hanno lo stesso tuo dolore da sopportare per i loro figli caduti e massacrati. Devi lasciare a questo dolore tutto lo spazio possibile in te stessa e concedere a esso l'asilo che gli è destinato, e forse, così facendo, il dolore nel mondo diminuirà, se tutti sopportiamo, onestamente e lealmente e in maniera responsabile, ciò che ci viene assegnato. Se invece non dai un opportuno ricovero al dolore, ma concedi maggior spazio all'odio e ai piani di vendetta - da cui nascerà ulteriore dolore per altri -, be', allora il dolore non finirà mai in questo mondo ma crescerà soltanto. Quando avrai concesso al dolore il posto e lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora sì che potrai dire: la vita è tanto bella e ricca. Lo è al punto che potresti credere in Dio.

    E le sue parole mi hanno anche fatto capire che non dovrei davvero pensare cose stupide come: sono già vecchia, ho ventotto anni e non sono ancora stata in grado di esprimere le cose che giacciono in me e che vogliono essere espresse. Bisognerebbe solo crescere e maturare e non pensare all'età. Forse non sarà così finché non avrò sessant'anni, quando potrò dire quello che voglio dire. Nella vita non bisogna sottrarsi a nulla, ma “confrontarsi” con tutte le futilità e le difficoltà e le tristezze, cercare sempre un contatto pieno con la vita, con tutto quello che ne fa parte, pur riuscendo a farselo scivolare addosso, e a sfuggire alla presa delle piccole cose.

    E io mi sto sentendo di nuovo misera e priva di centro. Vai a dormire, ragazza mia. Devi cercare di uscirne ogni volta che succede, in realtà non succede più tanto spesso, ma questa volta è tornata la sensazione di non stare dietro a se stessi, di non riuscire a seguire senza riserve le cose che contano, le cose serie, di cui capita di essere parte ma che ti fanno di colpo sentire vecchia e greve, priva di fiducia in te stessa. E in certi momenti non amo me stessa per niente, e le parole che uso sono fragili e svigorite come quelle di una timida scolaretta. E la vita in me è diventata una specie di strofinaccio spiegazzato. Non è neanche tristezza la mia, perché la tristezza appartiene a me e mi è familiare; è probabilmente anche la mia parte più fruttuosa e vera. Ma ora si tratta di qualcos'altro. Ogni cosa sembra essermi scivolata via. Sul serio, meglio se vai a dormire, forse dipende solo dal fatto che stai andando a letto troppo tardi negli ultimi giorni.

    Si dovrebbero tener strette le redini, ogni tanto, e non solo della propria ansia, in modo che non si impenni e non dia inizio, come un cavallo imbizzarrito, a una corsa distruttiva attraverso tutto il nostro essere; ma bisogna contenere anche la tristezza, non facendola crescere a ogni istante, come un fiume in piena che inondi i campi coltivati con tanta fatica. Bisogna cercare di mettere un freno al proprio egocentrismo, di non lasciare libero sfogo a ogni stato d'animo. Non è necessario eliminare la propria ansia e la tristezza, bisogna imparare a tenersele e a sopportarle; non arrendersi ad esse senza riserve, come se non ci fosse nient'altro sulla terra. Non si possono sacrificare di continuo le proprie forze migliori alla tristezza; le forze vanno conservate - a lungo andare, bisogna aspirare perlomeno a questo - per la società, per usare una volta una parola grossa. E con società intendo un allievo che viene da te per imparare il russo, un tuo simile che si rivolge a te con le sue difficoltà, una poesia che richiede la tua attenzione per essere capita.
    In passato ritenevo che fosse un mio diritto cedere completamente alla tristezza, ogni altra cosa doveva lasciarle spazio e non c'era nient'altro di importante paragonato alla grande, enorme desolazione che attraversava tutto il mio essere. Adesso non è più così, anche se a volte si sfiorano i limiti. In un giorno come questo, in cui mi sento fisicamente davvero uno straccio, in cui la depressione mi affligge e mi cresce dentro una tristezza sempre più greve, sono subito tentata di perdonare troppo a me stessa e di liberarmi un po' del lavoro. Al momento non capisco dove devo prendere l'energia per preparare due lezioni e stasera andare anche alla prima della rappresentazione di Veterman. E forse ho tanta compassione per me stessa di fronte a un simile “fitto” programma. Figuriamoci: due allievi e una serata a teatro. E in mezzo tutto il tempo per me stessa.
    No, non si deve proprio permettere alla tristezza di aver un simile potere su di noi. Adesso non più, adesso che stiamo diventando adulti. Si è conosciuto tutto e si è fatta esperienza di tutto, ma non può andare avanti così, perché alla lunga questo non è altro che egocentrismo e le forze migliori vanno perdute.
    “Eppure continuiamo a lasciarle cadere, sia l'una sia l'altra: quella letizia, quella tristezza. Non le possediamo ancora, né l'una né l'altra. E che cosa siamo mentre ci alziamo, e fuori un vento, un luccichio, un suono che cogliamo dalle voci degli uccelli nell'aria, può catturarci e fare di noi ciò che vuole? È bene udire, vedere, afferrare tutto ciò, non esserne insensibili, al contrario: sentirlo sempre in migliaia di forme in tutte le sue variazioni, ma senza smarrirsi in esso”.
    Quando ci si arrende in maniera tanto completa a ogni possibile tristezza, si vuole ancora troppo sperimentare se stessi nella tristezza, far esperienza di sé troppo intensamente, e non è questo che conta a lungo andare.
    Batterò a macchina quel pezzo sul mio “lato notturno”. Una tenera creaturina come me che poi, di notte, va accoltellando uomini dalla barba arruffata con un singolo colpo di pugnale sul viso. Durante una conversazione telefonica, nelle prime ore del giorno, gli ho raccontato tutto di questo sanguinario omicidio notturno e lui ha detto: Smettila, per favore, ti ritrovi la polizia in casa in un minuto.
    Ieri ho parlato con qualcuno che ha incontrato spesso Rilke nel sanatorio di Valmont. Le parole del suo racconto che più mi hanno impressionata sono state: un uomo cupo, ma molto amichevole.
    E perché mai non dovrebbe essere così? Anziché sfogare la propria tetraggine, tristezza o chissà cosa sugli altri, essendo scortese con loro? Quando noi soffriamo, non dobbiamo per forza far soffrire anche gli altri, no? Se solo l'educazione dell'uomo intervenisse su questo punto. È un processo di presa di coscienza, che ciascuno deve portare avanti da solo. Ma coloro che hanno già iniziato quel processo, devono dare il primo impulso agli altri, che sono ancora “non nati”. Sarà questo alla lunga il mio modo di “lavorare socialmente”, sono inadatta a qualunque altro metodo.

    E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi. Una persona dev'essere semplice anche nella sua tristezza, altrimenti la sua è soltanto isteria.

    Ognuno deve saper sopportare la propria tristezza con una certa dignità e in prima persona - totalmente da solo. E nella sua forma più pura e semplice. Solo così essa ha un valore duraturo e può avere effetti benefici. Non si può camuffarla in mille modi. C'è tanto, davvero tanto da fare in questa vita; ciò che è in gioco è grande e serio, e le vie per accedervi non possono essere ostacolate dai detriti della tua struttura vacillante che continua a sgretolarsi. Vado prima a dormire per un'ora. E senza dubbio ritroverò me stessa e ritornerò a essere semplice, persino nella tristezza, e non mi comporterò mai più in modo così folle.

    Certo che ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma ciò non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto allora verrà da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d'individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso - se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. È l'unica soluzione possibile.

    In passato rimanevo stanca così a lungo anche perché mi trascinavo dietro materiale non rielaborato e tristezze incomprese, ma adesso comincio a comprendere qualcosa della mia tristezza; è costituita da un insieme di elementi e l'ho già in parte rielaborata. Stasera sono state dette molte cose buone. Mi sento così inadeguata, perché non riesco a esprimerne nessuna. Ogni cosa in me sta ancora aspettando di essere “trasformata”.

    Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più. Probabilmente questa serenità, questa pace interiore mi vengono dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s'inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.

    Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più. Probabilmente questa serenità, questa pace interiore mi vengono dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s'inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.


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