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    Religione e morale

    in un dramma

    di R. Alberti

    Guido Gatti


    Da una morale fondata sulla religione...

    Racconta M. Buber che a un Rabbi famoso chiesero una volta di pregare per la salute di un esimio malato. Gli dissero che era un uomo noto per la sua vita severa e che veniva chiamato «il pio».
    «Io non so - rispose il Rabbi - che cosa sia un "pio", e anche da mio padre non ho appreso nulla in proposito. Ma penso che sia una sorta d'abito; la stoffa di fuori è fatta di orgoglio e la fodera di rancore, ed è cucito col filo della malinconia».
    M. Buber dà a questo aneddoto un titolo espressivo: «Il bigotto», che evoca chiaramente un certo modo di vivere la religione che si risolve in una diminuzione di umanità, e quindi in qualcosa di fondamentalmente immorale.
    La stessa possibilità che una qualche forma di vissuto religioso venga accusata di immoralità può sembrare paradossale e perfino sacrilega al credente, abituato appunto a giudicare tutto ciò che è umano nella prospettiva della religione e quindi da quello che egli ritiene il punto di vista di Dio.
    Effettivamente, per molti secoli, all'interno della nostra cultura, nel solco della tradizione giudaico-cristiana, la religione ha costituito l'istanza suprema della vita.
    La stessa morale le era subordinata. L'ordine morale si fondava su Dio, che ne era considerato l'autore e il tutore. Le norme morali si definivano come comandamento divino, e il premio di una vita eterna, resa infinitamente felice dal possesso di Dio, o il castigo consistente nel tormento eterno di una sua perdita definitiva, costituivano rispettivamente l'incentivo e il deterrente che dovevano dare efficacia coattiva all'imperativo etico.
    L'impegno morale era vissuto come riconoscimento della signoria di Dio sull'uomo e come atto di culto a lui gradito. L'esperienza morale era soltanto la verifica e l'autenticazione di una esperienza più globale e più decisiva, quella religiosa.

    ... a una religione sottoposta al giudizio dell'istanza morale

    Con la Riforma prima, e con l'Illuminismo in seguito, questa situazione si è rovesciata: la necessità di comporre le divergenze e i conflitti religiosi, che dividevano in modo ormai insuperabile l'Europa, con le esigenze di una convivenza pacifica e del dialogo culturale richiesto dallo sviluppo della scienza, spinse i dotti di ogni paese a elaborare una forma di pensiero morale sempre meno dipendente dalle vedute religiose, una morale che fosse valida «etsi Deus non daretur», anche se Dio non esistesse, o non venisse comunque preso in considerazione.
    Poiché la religione sembrava dividere coloro che la morale avrebbe dovuto unire, era necessario elaborare un'etica indipendente dalla religione, e che non richiedesse, per essere accolta e vissuta, altra fede che quella, allora nascente, nell'Uomo e nella Ragione.
    Una volta costituita in valore autonomo e autosufficiente, la morale non poté non arrogarsi quel ruolo di istanza suprema che la religione aveva avuto in precedenza. E da allora è stata la religione a dover subire il giudizio della morale. Chiamata davanti al tribunale di una cultura libera da pregiudiziali opzioni religiose, le è stato sempre più insistentemente chiesto di provare la sua validità e positività etica, e la sua costruttività umana.
    Lo stesso rifiuto della religione, che veniva frattanto crescendo all'interno di questa cultura, era dovuto molto spesso, più ancora che a difficoltà di carattere veritativo, a difficoltà di carattere etico: la religione, o almeno certe forme concrete di religione, venivano respinte non tanto perché false, quanto perché immorali.
    L'accusa rivolta alla religione era quella di «lesa maestà» nei confronti dell'uomo. Le si rimproverava di favorire nel credente atteggiamenti di sottomissione passiva, di dimissione delle proprie responsabilità intellettuali e quindi di infantilismo morale. L'homo religiosus era considerato come colui che per colpevole pusillanimità delegava a Dio la gestione di quelle responsabilità morali che costituivano il segno della sua nobiltà e della sua dignità di «essere della ragione».

    Ma il vissuto religioso può davvero essere immorale?

    L'accusa prendeva inizialmente di mira le forme più povere e più immature di religiosità popolare, o quelle più fanatiche e «bigotte» di religiosità «clericale». Ma essa tendeva in ultima istanza a mettere in dubbio o negare la più generale compatibilità dell'esperienza religiosa, di ogni esperienza religiosa, con un umanesimo etico autentico, fondato sulla ragione e capace di favorire l'accesso dell'uomo alla sua piena maturità.
    Nasceva così la cultura secolare.
    Nella visione etica dominante all'interno di questa cultura, il primo e unico vero imperativo morale è quello di essere pienamente uomini. Questo esige che l'Uomo sia messo al centro di tutto l'universo dei valori. La religione, che pretende di mettere Dio al centro di questo universo, finisce per relegare l'uomo in una condizione di dipendenza alienante e si rivela perciò fondamentalmente immorale.
    A ben guardare, una accusa di questo genere si fonda su una concezione alternativa dei rapporti tra Dio e l'uomo e quindi del vissuto religioso. Concezione alternativa o concorrenziale significa un modo di pensare che pone Dio e l'uomo sullo stesso piano, come entità contrapposte ma dello stesso ordine, che si tolgono perciò spazio a vicenda: l'affermazione dell'uno non può avvenire che a spese dell'altro; fare dell'uno il centro e il fine, significa ridurre l'altro a una condizione servile e strumentale.
    È innegabile che sono esistiti di fatto (ed esistono tuttora) modi di pensare e di vivere la religione che hanno alla base una concezione alternativa di questo genere. Va detto anzi che la tentazione di pensare e vivere il proprio rapporto con Dio in questi termini si apre sempre davanti all'uomo religioso.
    Ma il credente ritiene che una simile concezione non sia necessariamente connessa con l'esperienza religiosa come tale. Si potrebbe anzi agevolmente dimostrare come una visione alternativa del rapporto tra Dio e l'uomo non sia soltanto qualcosa di inaccettabile per la cultura secolare, ma anche una eredità culturale fondamentalmente estranea al cristianesimo. Ne è prova il fatto che, all'interno della stessa visione di fede, l'atteggiamento religioso è stato sempre sottoposto al giudizio della morale e ritenuto autentico o falso anche in base a criteri di validità etica.
    La tradizionale riflessione morale cristiana ha sempre trattato il comportamento religioso come un settore particolare della vita morale, sottomesso a valutazioni etiche ispirate alla parola di Dio ma anche alla «retta ragione», e quindi alla specifica dignità e agli interessi supremi dell'uomo.
    La morale cristiana conosce non soltanto l'esistenza di religioni non vere, ma anche di forme di comportamento religioso spurie, immorali, indegne di Dio e dell'uomo.
    Chi avesse il coraggio di leggere, in qualche vecchio manuale di teologia morale, il capitolo dedicato alla virtù della religione e l'elenco non breve dei «peccati opposti alla religione», scoprirebbe che, prima ancora dei peccati, a prima vista classificabili come lesivi dell'onore di Dio (bestemmia e sacrilegio), vengano enumerati peccati che ledono anzitutto l'intelligenza e la maturità dell'uomo, come la superstizione, l'idolatria, la «divinazione» e le «vane osservanze». [1]
    L'elenco, ispirato a una situazione socio-culturale almeno in parte diversa dalla nostra, è ugualmente molto significativo: esso ci dice che lo stesso «homo religiosus» ha sempre ritenuto che una religione indegna dell'uomo non può essere degna neppure di Dio, essa è solo una contraffazione della religione, una forma di vissuto religioso chiaramente immorale anche dal punto di vista di Dio.
    Per chi vede in Dio, nella luce del messaggio di Cristo, un Padre che ama di un amore creativo, cioè di un amore che fa essere e che vuole la pienezza della vita, il rapporto con Dio non può ammettere antagonismo e concorrenzialità.
    L'amore vero esclude ogni strumentalizzazione e ogni forma di asservimento: si può amare in senso proprio solo una persona e non si può amarla che come persona, volendo il suo bene di persona, quindi la sua autonomia e libertà, facendo di essa un fine e non un mezzo. Non si può pensare che l'amore con cui Dio ama l'uomo sia meno autentico di quello che l'uomo stesso può nutrire per l'uomo.
    Dio crea per amore e, in forza di questo amore, può volere dall'uomo soltanto che egli sia, in pienezza di essere e di vita. In questa pienezza di vita per l'uomo consiste quello che nella letteratura religiosa è chiamata la «gloria di Dio». [2]
    Naturalmente la capacità di vivere in maniera costruttiva e umanamente matura il proprio rapporto con Dio, come significato e motivazione ultima della stessa vita morale, non è data in partenza al credente.
    Essa è il risultato di un lungo processo di educazione e di purificazione, parallelo alla crescita globale della sua personalità e in particolare al suo sviluppo morale.
    L'uomo resta aperto per tutta la vita a una simile crescita, che non può mai considerarsi conclusa: si è uomini e cristiani solo per diventarlo.

    «Lo spauracchio», dramma di una religione di cattiva qualità morale

    Una critica e una messa in guardia nei confronti della efficacia alienante e disumanizzante che una religione di cattiva qualità morale possiede, ci sembra contenuto, a livello di narrazione simbolica, nel dramma Lo spauracchio, di Rafael Alberti, grande drammaturgo e artista spagnolo del nostro secolo. [3]
    Lo spauracchio è ambientato in un immaginario villaggio andaluso, «uno di quei fanatici villaggi - come dice l'autore stesso - situati fra le montagne del Sud della Spagna, pieni di reminiscenze musulmane» (8). Vi viene descritto un ambiente umano segnato dall'abbrutimento e dall'ignoranza, agitato da passioni elementari e smisurate e circondato da un allucinante paesaggio solare.
    Protagonista del dramma è una vecchia zitella, Gorgo, dal nome forse simbolicamente evocativo della mitologia greca dell'orrore. Attorno a lei, come grottesche donne di compagnia, si muovono altre due vecchie zitelle: Uva e Aulaga.
    Uva si è assurdamente innamorata di Bión, un mendicante, ricco solo di vitalità elementare e di astuzia popolana, che si aggira per la ricca casa padronale di Gorgo, accudito con pietà morbosa e interessata dalle tre zitelle.
    Ad Aulaga è stato affidato, ancora bambino, Castore, un trovatello che essa ha allevato come un figlio: cresciuto nella casa padronale, Castore è ormai diventato un baldo giovane in età da fidanzamento.
    Sotto lo stesso tetto, insieme con la madre Animas, è cresciuta anche Altea, una figlia del defunto fratello di Gorgo.
    Nell'ultimo atto compaiono le figure picaresche di alcuni mendicanti, invitati da Gorgo a una assurda cena notturna «della santa elemosina», che si concluderà tragicamente.
    Accanto a Gorgo, protagonista invisibile ma ossessivamente dominante, come una specie di nume tutelare e di occulto ispiratore, tutta la vicenda, vi è Don Dino, il fratello defunto della padrona.
    La vecchia teme da tempo che la giovane Altea si possa innamorare di Castore. Essa solo sa che Castore è figlio naturale di Don Dino, e quindi consanguineo di Altea, ma ha promesso al fratello, che glielo ha chiesto sul letto di morte, di conservare per sempre quel segreto, che essa ritiene infamante per la memoria del fratello e per l'onorabilità della famiglia.
    Fin dall'inizio del dramma essa scopre che ciò che temeva si è effettivamente verificato. I due fratellastri si sono innamorati l'uno dell'altra e Gorgo, ossessionata dal terrore di un incesto, si vede costretta a troncare con la forza la relazione tra i due giovani, senza tradire il segreto promesso al fratello morente.
    In un mondo dove l'autorità appartiene esclusivamente all'uomo, Gorgo decide di assumere, come in una recita, la parte del fratello; si mette grottescamente al mento la sua barba, emblema dell'autorità maschile di lui e, per segregare anche materialmente i due giovani, relega Altea, insieme con Animas, in una torre isolata della casa, e imprigiona Castore in una località lontana sui monti.
    Essa resiste impavida e un po' cinica al dolore della giovane e alle suppliche di Animas: la sua assurda fedeltà al morto è più forte in lei di ogni pietà.
    Invano Altea e Castore, con l'aiuto di Animas, progettano una fuga: Bión, che porta il messaggio di Castore ad Altea, viene scoperto da Gorgo, cede facilmente alle minacce e al ricatto della padrona, e consegna a lei la lettera destinata alla giovane.
    La vecchia raddoppia allora la sua vigilanza, più sorda che mai alla disperazione di Altea.
    Alla fine, consapevole di non poter sequestrare indefinitamente i due giovani, progetta una messa in scena conclusiva che dovrebbe, nella sua intenzione, metter fine alla situazione ormai insostenibile.
    Durante la notturna «cena della santa elemosina», mentre essa serve a tavola, con affettata degnazione, i quattro sordidi mendicanti, giunge un falso messaggio, recato da un contadino a cavallo, che annuncia il suicidio di Castore.
    Essa pensa di scoraggiare così una volta per tutte l'amore inconsapevolmente incestuoso di Altea. Ma il progetto, elaborato da una mente malata e ormai priva di contatto con la realtà, fallisce e finisce in tragedia. La giovane, disperata, si getta dalla torre e si uccide.
    Gorgo, distrutta dall'esito luttuoso del suo contorto stratagemma, scopre e confessa finalmente la mostruosa assurdità del suo proposito e si riconosce vinta e colpevole: «Della notte del perdono, della cena dell'amore e dell'allegria, ho fatto stupidamente la notte della pazzia, il festino dell'orrore e della morte» (70).
    Quando Castore sopraggiunge per attuare la fuga complottata, trova soltanto un cadavere. Gorgo allora le confessa tutta la sua disperata impotenza: «Castore... Castore.. Qui, Animas soltanto è degna di guardarti... di raccontarti la tua storia... ed asciugare le tue lacrime... Io no, io no... io non sono che un mostro, una povera furia caduta, uno spauracchio» (76); e mentre cala il sipario, le donne e i mendicanti singhiozzano un canto:
    «Alba di morte senza luce
    notte triste di passione
    per le anime perdute
    il cielo mandi il suo perdono!» (76).

    Una cornice di orrore intorno a una religione disumana

    Dove si nasconde dunque quella religione disumana e immorale di cui si è parlato?
    Il mondo umano descritto dall'autore ci appare brutale e primitivo, caratterizzato da una profonda ipocrisia morale e non certamente ricco di segni di particolare religiosità.
    Tuttavia affiorano in questo mondo, quasi a costituire la cornice del dramma vero e proprio, i segni di una superstizione popolare, che affonda le sue radici nei secoli. Si tratta di segni di religiosità degradata non particolarmente minacciosi per la qualità umana delle persone, ma già capaci di creare una certa atmosfera.
    Caratteristica a questo proposito è, ad esempio, la rappresentazione, alla fine del secondo atto, di uno strano cerimoniale superstizioso, celebrato dalle zitelle al calare della sera. Gorgo fa portare sulla terrazza «cinque lunghe canne con un drappo nero sulla punta» (50). Le donne si mettono allora, rinnovando un rito evidentemente già compiuto altre volte, ad agitare ritmicamente le canne nell'aria, «mentre suona, ancora lontano e triste, il rintocco dell'Avemaria» (51).
    Il significato del rito è quello di una caccia ai pipistrelli, queste creature delle tenebre che «si annidano - al dire di Gorgo - nella testa del demonio.. E girano e rigirano come il rimorso... Il loro odore è quello della chiusa tristezza, quello della malinconia malata (...) e le loro ali stecchite e senza piume, come quelle degli angeli decaduti» (50).
    Accompagnata da scongiuri, la suggestiva caccia ha un significato deprecatorio: è una contraffazione di riti religiosi, una specie di simbolico esorcismo popolare.
    Questa superstizione tuttavia fa solo da cornice al dramma. La stessa incombenza ossessiva e opprimente del «monte delle Croci», desolato e spettrale simbolo dell'autorinnegamento e dell'angoscia religiosa, ha solo il senso di una «compositio loci», della evocazione di una atmosfera. Non sta in questa cornice la religione di cattiva qualità morale di cui ci vuole parlare l'autore.
    Questa cattiva religione è invece tutta quanta racchiusa nella disumana e morbosa devozione di Gorgo alla memoria del fratello morto. Questa assurda devozione presenta tutti i tratti caratteristici di una religione adulterata e immorale, e di questa religione è quindi il simbolo e la rappresentazione.

    Simbolismo pseudoreligioso

    A indirizzarci in questa interpretazione religiosa della devozione di Gorgo al defunto fratello è anzitutto il linguaggio e il simbolismoreligioso in cui essa inequivocabilmente si esprime. L'analogia, e spesso l'identità, di questo linguaggio con quello religioso suona così singolare da escludere positivamente la possibilità del casuale o dell'involontario.
    C'è innanzitutto il titolo stesso del dramma: leggendolo ci è tornato istintivamente alla mente un detto biblico: «Come infatti uno spauracchio che in un cocomeraio nulla protegge, tali infatti sono i loro idoli» (Bar 6,69). Si può forse credere che ci sia in questa assonanza una reminiscenza almeno inconsapevole, alla demistificazione biblica del carattere illusorio di quegli «dèi bugiardi» che «non possono né rendere giustizia né beneficare gli uomini» (Bar 6,59 e 63).
    Ma ci sono altri elementi più chiari e inequivocabili.
    Uno di questi è la «lavanda delle mani» prima della «cena della carità», compiuta da Gorgo nei confronti dei mendicanti e degli altri convitati; colpisce in particolare il fatto che Uva, come Pietro nel Vangelo di Giovanni (13,8), resista anch'essa al gesto di Gorgo, quasi con le stesse parole: «A me, tu? Mai, mai» (64).
    All'inizio della cena, la benedizione della mensa è recitata da Gorgo con una preghiera al fratello: «Prima di incominciare raccomandiamoci a colui che ci tramandò questa abitudine santa e familiare. Le mense della tua casa siano sempre aperte dal tuo amore. Benedicile da lontano, manda loro la tua benedizione» (66).
    E la preghiera terminerà con una espressione tipicamente liturgica: «E così sia, per lui e per il Signore Iddio» (66).

    Una contraffazione della preghiera

    Del resto, parafrasando un'espressione della letteratura religiosa tradizionale, potremmo dire che Gorgo vive alla presenza del fratello, conversa con lui, si rivolge a lui, intessendo la sua conversazione di vere e proprie preghiere, che rassomigliano in modo inconsueto alla vera preghiera religiosa. Essa invoca il suo aiuto nella battaglia che sta combattendo per lui e lo rimprovera dolcemente quando ha l'impressione di essere stata abbandonata: «Per pietà, compassione di me! Avresti potuto intercedere!» (38).
    «Tu dimentichi che sto agonizzando... che sono nel bel mezzo di un combattimento, coperta di ferite» (46).
    A volte la preghiera presenta il classico parallelismo ripetitivo tipico dei salmi:
    «Anima che vigili nell'alto
    Non lasciarmi la mano.
    Anima che soffri nell'alto
    Non darmi mai riposo.
    Anima che illumini nell'alto
    Non m'abbandoni il tuo raggio» (27-28).
    In particolaré essa invoca dal fratello luce per essere guidata nelle difficili decisioni che si vede costretta a prendere: «Luce, soltanto la tua luce, fratello mio» (28). «Luce... sempre la tua luce! Ne ho più bisogno che mai, fratello mio!» (39).
    Dalla figura così intensamente trasfigurata e divinizzata del fratello essa dice di attendersi la sua glorificazione e il suo riposo: «Aspetti il povero la tua tavola, come l'albero le sue fronde, il contadino la pioggia, ed io la tua gloria ed il riposo» (66).
    A questo grottesco fratello-dio essa chiede che la prenda con sé: «Anima che taci lontano, prendimi col tuo segreto» (39).

    La rivelazione dall'alto

    E dal fratello essa è convinta di ricevere davvero quella luce che invoca. Del fratello è convinta di ascoltare la voce; afferma di ricevere da lui la rivelazione di quello che deve fare, la consegna cui deve restare assolutamente fedele: «Mi parlò mio fratello. La terrazza si era riempita della sua voce (...). Non dormire, sorella. Il tuo sonno sarebbe un tradimento. Ti cadano gli occhi prima di chiuderli» (46).
    Con questa rivelazione, il morto le affida la sua autorità, le conferisce quella fermezza maschile di cui è simbolo la barba posticcia, grottesca insegna sacerdotale: «Oh tu che nella tua agonia mi concedesti tutta l'autorità, che desiderasti che io fossi te stesso, che mi lasciasti la tua voce, e perfino il nobile attributo che ornava il tuo viso...» (38). «Il giorno del giudizio un morto mi ha nominato giudice in questa triste causa. (Si mette la barba) Saprò disimpegnare bene la mia parte?» (20).
    E le zitelle che formano la sua piccola, interessata, bigotta chiesadomestica, le riconoscono davvero questa autorità delegata: «Comanda Gorgo. L'autorità è lei. Il maschio. L'uomo. Essa è illuminata da suo fratello» (48).
    Anche Uva venera in lei il mistero di questa volontà nascosta: «Gorgo ubbidisce a segreti comandamenti». E Gorgo le risponde più che mai risoluta: «Li compirò, tenetelo per certo» (48).

    L'identificazione col dio

    Investita dell'autorità del fratello-dio, essa si identifica del tutto con lui, in una specie di caricaturale possessione mistica: «Ho bisogno d'esser forte, d'aver parola e gesto d'uomo, di essere il mio povero fratello, zia e padre ad un tempo, in questo orribile frangente che mi aspetta» (19).
    Tutta presa da questa infatuazione, essa recita la parte di Don Dino davanti alle altre donne, nei suoi atteggiamenti più caratteristici, nel suo infuriarsi contro i contadini, nella recita del rosario, sul letto di morte; fin quando le astanti indovinano e riconoscono in lei il padrone morto; fin quando Animas esclama: «Don Dino, mio benefattore! il padre della mia bambina! Ah corro a prenderla: proverà una gran consolazione a baciarlo» (14).

    Una dedizione incondizionata ma deresponsabilizzante

    Questa caricatura di religione che lega Gorgo al fratello defunto è di qualità morale talmente cattiva, da distruggere in lei ogni senso di responsabilità e ogni capacità di valutazione razionale. Ciò che più rivela l'influsso negativo di questa pseudoreligione sulla sua personalità morale è il fatto che essa ispira tutta la sua vita a una specie di dedizione incondizionata al fratello defunto e alla difesa del segreto che egli le avrebbe affidato morendo.
    Questa dedizione incondizionata e questa fedeltà a suo modo eroica sono espresse nel dramma con un linguaggio inequivocabilmente religioso: «Eccomi qui tua, fratello; pronta a difendere l'immacolato nome che ci hai lasciato» (57). «Sì! Sì! Eccomi...Ti ubbidisco... Subito... Sì... Eccomi» (27). E ancora una volta questo «eccomi» richiama istintivamente alla mente un altro «eccomi», notissimo e fondamentale nell'ambito della religione ebraico-cristiana: quello non meno eroico e, da un certo punto di vista non meno incomprensibile, di Abramo a Dio che gli chiede il sacrificio dell'unico figlio.
    Il carattere assurdo e disumano di queste espressioni suona parodia di ogni forma di impegno morale vissuto come dedizione incondizionata a qualcuno o a qualcosa. L'autore pare volerci dire che in una dedizione del genere si annida sempre una qualche forma di idolatria folle e disumana.
    Il carattere alienante di una simile «devozione» è legato anzitutto al fatto che essa comporta una dimissione radicale delle proprie responsabilità morali. Ogni altro dovere viene a cadere appena entra in conflitto con questo dovere sovrano e indiscutibile.
    Gorgo non è un mostro di insensibilità; le sofferenze che essa ritiene di dovere infliggere alla giovane nipote le ripugnano profondamente; essa è certamente sincera quando lo proclama: «Conosco il tuo martirio, bimba» (49). «Soffro per questo figlia» (49). Ma è dominata da una volontà più forte della sua, che le impedisce ogni altra considerazione: e finisce per ubbidire, con la proterva e cieca passività degli aguzzini di un «lager»: «Non avrei voluto questo. Non sono padrona di me stessa. Qualcuno che mi si rivela per il tuo bene me lo ordina. Io gli ubbidisco» (49).
    La tragica conclusione del dramma la rende alla fine consapevole dell'effetto devastante che ha avuto su di lei e intorno a lei questa sua religione assurda e disumana; ed essa lo getta in faccia, con un rimprovero ormai vano, a quel suo dio impotente che essa stessa si è fabbricata: «Guarda fratello in che abisso mi hai sprofondata... A nulla mi servì la tua autorità, il simbolo della tua virilità. La luce che imploravo sempre da te è servita solo per spegnermi, per oscu- rarmi e per finire ad essere l'ombra delirante del tuo rimorso» (74).
    Essa stessa quindi è costretta a riconoscere il carattere assurdo e irrazionale di tutto l'impegno che ha messo al servizio della sua delirante idolatria: «Condanna... Disgrazia... Pazzia (...). Ho combattuto con delirio frenetico contro l'inevitabile... Ho mentito... Mi sono umiliata davanti ai poveri... Mi sono lasciata colpire da coloro che più amavo... Perfino da tua figlia, fratello, nella quale ti difendevo... Ed ho fatto tanto, tanto sono riuscita a cavare da me stessa
    per salvare il tuo segreto che mi sono lacerata le viscere e le ho esposte all'aria... Ed ora tutti lo sanno. (...) E perfino le pietre lo ripeteranno...» (73).

    Una voluttà di umiliazione e di sofferenza

    L'aspetto più impressionante di questa idolatria delirante e distruttiva è il masochismo psichico cui essa dà luogo, la morbosa voluttà di umiliazione e di sofferenza che sembra ispirare in Gorgo.
    Essa invoca dal fratello sofferenza e castigo: «E tu fratello feriscimi! Ritorna, apri subito i cieli [4] e mandami il castigo di una freccia che mi lasci impagliata, inchiodata, come un nero spaventapasseri, nel più alto di questi muri!» (38).
    L'onore del fratello è un valore tanto grande che essa è pronta a dare la sua stessa vita per difenderlo; essa invoca la morte, piuttosto del tradimento:
    «Anima che peni lontano
    salvati col tuo segreto.
    Anima che piangi lontano
    ammazzami col tuo segreto.
    Anima che taci lontano

    prendimi col tuo segreto» (39).
    Spinta da questa furia di umiliazione e di morte, essa sopporta con gioia malsana i colpi di canna che le sue stesse comari le infliggono in una specie di furore momentaneo, cercando invano di strapparle il messaggio di Castore ad Altea, che essa difende con tutte le sue forze: «Picchiatemi, feritemi, fatemi sprizzare sangue a fiotti. Cosa sapete? Guardami fratello mio (...). Ma io ti difenderò, io ti ubbidirò, io salverò il tuo onore, serbando il tuo segreto fino al martirio» (54).
    E nella notte della tragedia finale, ai mendicanti che la deridono quando compare camuffata ancora una volta con la barba del fratello: «Ridete. Schiamazzate. Burlatevi. La mia anima vi è preparata.
    Non lo vedete? Non è quella di Gorgo ora. I vostri gridi e le vostre risa la illuminano, inondandola di gioia e di letizia senza limiti (...). Cosa sono questi umili sassolini per le graffiature e le ferite che la mia carne reclama! Rovi e pietre aguzze essa vuole, tremante di speranze» (63).
    Anche in questo caso il linguaggio assume l'aspetto di una sacrilega contraffazione di certe forme di linguaggio, tipiche della letteratura mistica cristiana, che domandano la sofferenza come purificazione e partecipazione alla croce di Cristo.
    Anch'essa desidera prendere su di sé la sofferenza, vedendo in essa il prezzo da pagare, per stornare in qualche modo il disonore dalla memoria pubblica del fratello, che deve rimanere intatta e venerata, a dispetto del suo reale passato.
    Quando, dopo averla picchiata, le comari la lasciano sola sulla scena (e l'autore precisa: «inginocchiata sulla terra, illuminata da un raggio, come in estasi»), ancora una volta essa si rivolge al fratello: «Guardami qui battuta per te, fratello; il seno disfatto, indolenzito il costato (...). Ma le spine mi sembrano rose per te fratello, i colpi dolci violette, e garofani tiepidi i chiodi» (56).
    Il suo bisogno di abiezione sembra crescere con l'acuirsi della drammaticità della situazione e con l'incombenza di un esito infausto. Ai mendicanti che, forse per scherno, le rimproverano le prevedibili mezze misure della sua carità («ma i piatti li laveremo dopo fra tutti noi (...) li netteremo col muso») essa risponde, con la sincerità dei grandi momenti: «Così io laverei sempre i vostri Bión, se me ne ritenessi degna», e servirà di fatto i poveri, scalza (59).
    La sua dedizione e il suo bisogno di sofferenza non la sottraggono peraltro al senso di colpa più tormentoso, alla paura di non aver vigilato abbastanza, di non aver fatto tutto quanto doveva per impedire il nascere di quell'amore temuto e aborrito: «Non avvicinatevi a me. Fuggitemi - dice alle comari -. Sono macchiata, involta nel nero fango. Calpestata. Ferita. Affondata. Morta» (40).
    L'estasi è quindi fragile; non esclude il timore dell'abbandono e della maledizione: «Da ora sono maledetta. Abbandonata dalla sua mano» (41).

    Una religione di falsità e di ipocrisia

    Tutta la negatività morale di questa allucinante religione è legata al fatto che essa è fondata sulla menzogna ed è in se stessa, al di là della possibile buona fede dei suoi adepti, tutta quanta una menzogna.
    Il fatto è che il dio di questa religione non è un vero dio, semplicemente non è Dio; non ha assolutamente nulla di divino. Solo in una trasfigurazione delirante della realtà può venire divinizzato.
    Da questa menzogna essenziale, la falsità e l'ipocrisia si diffondono in tutta la vita di Gorgo e contaminano tutto il suo mondo, già così ristretto e bigotto. D'altronde il fatto che l'azione principale del culto di questa religione consista nell'occultamento di un segreto, disonorevole per la stessa divinità, non può sfociare che nella moltiplicazione della menzogna.
    Nessuno meglio di Altea, che ne è la vittima, è in grado di comprenderlo e di smascherarlo: «Siete delle assassine - dirà prima di morire -. Che questi poveri lo sappiano (...). Impiccato ad un ulivo dalle vostre mani. Mostratele, che questi le vedano bene. Sono le stesse mani che servono per dare un'elemosina e strangolare un collo» (68).
    Uva stessa, di fronte alle untuose opere di carità cui si dedicavano insieme le tre comari, è costretta ad ammettere che «elemosine come queste macchiano il cielo» (36).

    L'impotenza degli idoli

    La fondamentale falsità degli idoli è lo stesso motivo della loro impotenza e, alla fine, del fallimento di questa avventura religiosa fondata sulla adorazione del nulla.
    Il fallimento finale dell'intrapresa di Gorgo smaschera la menzogna di questa religione e rivela la assoluta non-divinità del suo dio. Lo scacco di Gorgo è una dichiarazione di fallimento di questo dio. E Gorgo glielo grida in un'ultima invocazione disperata: «Dio! Dio d'Iddio! Contempla, guarda bene ciò che ho fatto! Che odioso delitto per salvarti!... Sì, sono stata io che ti ha buttata dalla torre, io che sono andata spingendoti giorno per giorno a questa lamentevole fine. Piangi Gorgo, piangi; cada anche il tuo pianto, fratello mio, su questo sasso crudele che ci piega e ci schiaccia per sempre!» (71).
    Il fallimento di questa religione fatta di menzogna e di abiezione incatena definitivamente i suoi devoti al senso di colpa e all'odio di sé stessi, in un processo di autopunizione distruttiva, senza speranze di riscatto. Gorgo grida tutto il suo disperato rimorso alle degne compagne: «Mi vedi Aulaga? Mi riconosci Uva? Sono io, sono io... Compatitemi, odiatemi». E Uva, accomunandosi a lei: «Odiamoci tutte e tre... Compatiamoci tutte e tre... Incolpiamoci...» (72).

    Forme moderne di sacro inautentico

    A questo punto ci potremmo anche domandare quale sia l'oggetto reale dell'intenzione dissacrante e demistificatrice dell'autore: questa descrizione, troppo evidentemente simbolica, di feticismo distruttivo e disumano vuole colpire soltanto le deviazioni, sempre possibili e magari perfino facili e diffuse, della esperienza religiosa umana, oppure la stessa esperienza religiosa come tale, e magari in particolare l'esperienza cristiana, cui corre inevitabilmente il pensiero di chi parla di religione in un contesto europeo?
    La risposta a questo interrogativo non è data in modo esplicito dal dramma e forse resterà per sempre sepolta nel mistero delle intenzioni segrete dell'autore.
    Noi crediamo comunque necessario, per esigenze di completezza e di verità, estendere il discorso dissacratorio dell'autore a certe forme di sacralità inautentica, che non hanno a prima vista nessuna relazione con l'esperienza religiosa vera e propria.
    L'efficacia distruttiva che il dramma attribuisce a un certo tipo di esperienza religiosa, che viene perciò presentata come fondamentalmente immorale, non tocca solo le contraffazioni della religione direttamente riconoscibili come tali, e dunque tutte le diverse forme di idolatria, di feticismo, di superstizione e di fanatismo religioso, non raramente frammiste alle stesse forme di religiosità più tipiche e autentiche, ma riguarda tutte le forme pervertite di sacralità: ci sono surrogati laici della religione, non meno distruttivi e immorali di qualsiasi deviazione o degenerazione dell'esperienza religiosa tipica.
    L'affidamento cieco e irrazionale di tanti contemporanei a miti che non hanno assolutamente nulla di veritiero e tanto meno di divino, come i miti dello «Stato etico», del «partito-guida», della «razza eletta», della «ragione», del denaro o dell'efficienza ha riempito il mondo di orrori non meno spaventosi di quelli prodotti nel passato dalle forme deviate delle religioni classiche.
    Le une come le altre hanno in comune il fatto che alla radice di tutta la loro devastante efficacia di morte c'è la pretesa dell'uomo di scegliersi i propri dèi, conferendo carattere di assolutezza e di fondamento a valori relativi, parziali e subordinati, con una decisione totalizzante ma illusoria, perché impotente e menzognera rispetto alla vera gerarchia dell'essere cui non è possibile sfuggire.
    Questi valori non sono abbastanza trascendenti da meritare l'adorazione dell'uomo, né abbastanza potenti da poterlo salvare, né abbastanza santi da poterlo giustificare. L'erezione a valore assoluto di ciò che tale non è introduce la menzogna nell'ordine dell'essere; ordine di cui l'uomo è parte viva. Lo sconvolgimento di quest'ordine lo travolge e lo perde: soltanto ristabilendo la verità dei valori morali può salvarsi.

    Il valore umano del sacrificio

    C'è poi un aspetto della critica di R. Alberti alla religiosità inautentica che merita una considerazione a parte, ed è la denuncia del carattere masochistico e autopunitivo che tanto spesso accompagna certe forme di vissuto religioso deviante, ma che sembra in qualche modo accompagnare anche le forme più autentiche di religiosità, e in particolare di quella cristiana. Il credente che, come san Paolo, completa in sé «quello che manca alla passione di Cristo» (Col 1,24) e lo stesso esempio di Cristo «fatto ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8) sembrano giustificare l'estensione di questa denuncia all'essenza stessa del mistero cristiano.
    Va detto chiaramente che, anche nella luce della fede, ogni ricerca della sofferenza per la sofferenza e dell'umiliazione per l'umiliazione è qualcosa di moralmente negativo. Ma la croce di Cristo non significa assolutamente nulla di simile.
    L'affidamento di Cristo al Padre, modello normativo di ogni esperienza religiosa che ambisca a chiamarsi cristiana, si è congiunta con un altissimo livello di perfezione morale, e quindi e col più grande rispetto della dignità umana in sé e negli altri. La sua coraggiosa testimonianza della verità e la sua sollecitudine amorosa per tutti gli uomini e per tutto ciò che fosse degno dell'uomo è stato il motivo della sua condanna.
    La sua morte non è stata il frutto di una morbosa voluttà di sofferenza e di umiliazione, ma il prezzo pagato all'affermazione più coerente e fiduciosa nella dignità dell'uomo.
    Lo scandalo della croce non cessa per questo di essere un mistero che sfida il senso comune e provoca la vertigine nella mente del credente. Ma si tratta di un mistero che non ha bisogno, per essere spiegato, di attribuire al Dio che si è rivelato in Cristo come Padre l'antropomorfismo sacrilego di una qualsiasi positiva compiacenza per la sofferenza o l'umiliazione dell'uomo.
    Nel Vangelo la croce è sempre il versante negativo dell'amore, in un mondo segnato dal limite e dal peccato. Ma proprio la sofferenza e la morte, affrontate come supremo atto di fedeltà all'amore, portano al trionfo della vita.
    L'amore si prova nel dono di sé; e il dono di sé può comportare la perdita di sé nel sacrificio e perfino nella morte, ma con la certezza che in Dio, pienezza dell'amore e della vita, questo perdersi è in realtà ritrovarsi e salvarsi.
    Il sacrificio che dà gloria a Dio è solo quello che realizza nella sua verità quell'uomo che Dio ama e che è in se stesso, nella piena espansione del suo essere e della sua vita, la vera gloria di Dio.assunzione, nella luce della fede, di tutte le responsabilità legate alla sua grandezza e dignità di uomo.
    La vera difesa della positività morale della religione può consistere solo in quella critica creativa del proprio vissuto religioso che porti a una sua graduale purificazione e a una sua crescente maturità umana. Come diceva G. Girardi, «la critica della religione diventa un imperativo religioso: essa condiziona l'autenticità della conversione personale e collettiva». [5]
    E se è vero che ogni colpevole dimissione di queste responsabilità rende meno autentico il nostro vissuto religioso, resta anche vero che la prova suprema della verità di una religione (cioè del suo essere adorazione del vero Dio) è la sua capacità di fare quella verità dell'uomo in cui consiste tutta la volontà di Dio nei suoi confronti, e che è in ultima istanza una verità di natura morale.

    L'apologetica della vita

    Ma non serve a nulla ricordare queste cose, con intento apologetico, a chi critica il vissuto religioso concreto di tanti credenti in nome di una morale fondata sulla dignità e la grandezza dell'uomo.
    L'unica apologetica convincente sarà lo stesso vissuto religioso dei credenti se, fedeli a questa definizione ideale della loro religione, cercheranno di purificare il loro stesso vissuto religioso nella direzione di una sempre più rigorosa fedeltà a Dio e all'uomo.
    È anzitutto a se stesso che il credente deve dire che l'affidamento al vero Dio è autenticamente religioso solo se lo rende anche più autenticamente uomo, più impegnato nella realizzazione della verità del suo essere, attraverso il dono di sé nell'amore ai fratelli e la piena

    NOTE

    1 Cf ad esempio: A. PISCETTA - A. GENNARO, Sommario di teologia morale, SEI, Torino 1954, 176ss.
    2 «Gloria Dei vivens homo»: gloria di Dio è l'uomo che vive (S. IRENEO, Adversus haereses, IV, 20,7, PG 7,1037).
    3 R. ALBERTI, Lo spauracchio. Il trifoglio fiorito. La Losana andalusa, Mondadori, Milano 1967. Le citazioni nel testo sono tratte da questa traduzione: tra parentesi è indicata la pagina.
    4 Ancora una volta, l'espressione richiama, per assonanza, espressioni analoghe della Bibbia (ad esempio: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» di Isaia 63,19) e della liturgia dell'Avvento.
    5 G. GIRARDI, Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe, Cittadella, Assisi 1972, 34.


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