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     Il bisogno di futuro

    nei drammi di A. Cechov

    Guido Gatti



    Esperienza morale, quotidianità e bisogno di futuro

    L'esperienza morale accompagna l'uomo in tutto il corso della sua esistenza. Essa conosce perciò momenti forti, contrassegnati dalla lucida consapevolezza della sua decisività per la felicità propria e altrui, dalla percezione immediata dei grandi valori che danno senso alla vita, trascendendola e aprendola alla speranza di un futuro «totalmente altro».
    Ma l'esperienza morale non ignora neppure il lento e monotono trascorrere del quotidiano modesto e rutinario.
    In questa sua dimensione «feriale», l'esperienza morale assume a volte l'aspetto di un lavoro. Come il lavoro quotidiano dei lavoratori più umili, anche l'impegno morale in questa sua dimensione feriale domanda rinunce, costa fatica, non lascia molto spazio alla creatività, non concede molto spazio alla sensazione appagante dell'autorealizzazione.
    Il bene che esso realizza non si offre al soggetto sotto forma di ricompensa immediata, già sperimentabile come bene per lui, mentre viene realizzato.
    Il bene attuato attraverso questo impegno morale quotidiano ha in sé soltanto una promessa di felicità; per questo richiede un affidamento rischioso, una specie di difficile atto di fede: ci è domandato di scommettere sulla sua capacità di premiare, ma questa capacità non può essere dimostrata.
    Nella sua dimensione feriale, l'esperienza morale, privata del suo premio immediato, ha bisogno di trovare un «vale la pena» credibile in una qualche rappresentazione del futuro, che renda accettabili le rinunce che impone nel presente e anticipi nella speranza la felicità che promette.
    La necessità di una simile rappresentazione del futuro, a sostegno delle umili fatiche dell'impegno morale quotidiano e della dilazione del premio che esso può soltanto promettere, ci pare essere l'elemento più caratteristico del messaggio morale dei drammi di A. Cechov. [1]

    A. LA TRAMA

    Una trama fatta di «quotidiano» e di eventi interiori

    Quello che colpisce di più, quando si cerca di identificare la trama nei drammi di A. Cechov, è l'esilità e nello stesso tempo il carattere ripetitivo e in fondo banale degli eventi di cui essa è costituita.
    La verità è che gli «eventi esteriori», nei drammi di Cechov, fanno solo da sfondo a un fascio di «eventi interiori» e di storie spirituali fittamente intrecciate.
    Una grande parte degli eventi esteriori di cui sono intessuti i drammi di Cechov appartengono alla quotidianità più banale della vita in una casa di campagna; i personaggi passano le loro giornate impegnati in un lavoro usuale e prosastico, oppure bevendo tè e wodka, perdendosi in conversazioni oziose e svagate, portando avanti interminabili conflitti verbali, apparentemente privi di ogni senso e di ogni sbocco.
    Gli stessi esiti più drammatici dell'azione scenica, come il suicidio del giovane Trepliòv o l'uccisione in duello del barone Tusenbach giungono impreparati e apparentemente inspiegabili, se si tiene conto solo degli eventi esterni che li precedono. La storia che li determina è tutta interiore.
    Proprio a causa di questa sproporzione esistente tra la trama vera e propria e l'itinerario spirituale delle persone, ci sembra necessario premettere al tentativo di individuazione del messaggio morale di questi drammi, che offriremo nelle pagine seguenti, l'esposizione di uno schema, sia pure brevissimo, della trama dei quattro drammi presi in esame.
    Questa esposizione ci servirà poi da quadro di riferimento per l'ermeneutica che presenteremo e che verrà organizzata per scenari, personaggi, situazioni e temi.

    «Il gabbiano»

    L'azione fa perno sulla figura di una attrice affermata (l'Arkàdina) e di suo figlio Trepliòv, un giovane carico di aspirazioni indefinite e di frustrazioni paralizzanti, velleitariamente orientato alla carriera dello scrittore, ma condannato, intanto, al grigiore e all'oscurità.
    L'Arkadina si trova con il suo amante (Trigòrin, uno scrittore affermato, dotato di un certo mestiere e di una certa fama) per una breve vacanza in una villa di proprietà del fratello Sorin, dove lo stesso Trepliov vive abitualmente come un relegato. Il giovane cerca inutilmente di organizzare la recita di un suo dramma, astruso e impossibile, tra l'indifferenza di tutti e l'aperta ostilità della madre.
    L'incomprensione tra i due, accresciuta dalla infatuazione della madre per Trigorin, che il figlio non riesce a sopportare, causa nel giovane un crescente e apparentemente sproporzionato disagio psichico, accresciuto dalla delusione per il fatto che il suo amore per Nina (la figlia di un proprietario dei dintorni) non è ricambiato; come non è peraltro l'amore di Nina e di Mascia (figlia di Sciamràiev, l'arrogante e tirannico fattore di Sorin) per Trigorin.
    Un altro amore impossibile lega Polina, moglie di Sciamraiev, al medico del posto, Dorn, cinico mestierante e incorreggibile bevitore.
    Il seguito degli eventi vede il fallimento di ogni sforzo di Trepliov e di Nina per evadere dal vicolo cieco in cui la sorte, l'indifferenza crudele degli altri e la loro stessa velleità e apatia li ha rinchiusi.
    Trepliov sprofonda sempre più nello sconforto e nell'accidia spirituale e, alla fine, in occasione di un nuovo ritorno dell'arrogante madre e di Trigorin alla villa di Sorin, senza che nessun evento particolare sembri giustificare il suo gesto, si uccide.

    «Lo zio Vania»

    Protagonisti del dramma sono le figure patetiche di Sònia, figlia di primo letto di Seriebriakòv, tronfio quanto mediocre professore universitario a riposo, e di Vània, fratello della defunta madre di Sonia.
    Anche qui tutta l'azione si svolge in una tenuta di campagna di proprietà della defunta moglie del professore, faticosamente accudita e mantenuta produttiva dall'umile lavoro di Sonia e dello zio Vania, per conto del professore che ne gode i frutti.
    Il professore, anziano e malaticcio, trascorre nella tenuta una ingombrante vecchiaia da parassita.
    Attorno a lui si muovono la sua nuova moglie, la giovane, bella, ma vuota Jelena; Mària Vassìlievna, madre della prima moglie del professore; Astrov, la solita figura del medico di campagna, abbrutito dal lavoro, ma non privo di idee grandi e di personalità; Tielghin, un proprietario caduto in miseria, e Marina, una vecchia nutrice.
    I soliti impossibili amori si intrecciano in un dedalo inestricabile: lo zio Vania e Astrov amano inutilmente Jelena, Sonia cerca invano di attirare l'attenzione di Astrov: tutti sognano di sfuggire dalla noia, dal grigiore, dalla fatica della campagna. E alla fine, mentre i soliti fortunati parassiti (il professore e la bella Jelena) ci riescono, Astrov, Sonia e soprattutto lo zio Vania si devono rassegnare a continuare la loro faticosa esistenza di «vinti».

    «Le tre sorelle»

    Al centro di questo dramma vi sono tre sorelle, Olga, Mascia e la giovanissima Irina che, alla morte del padre, comandante di una guarnigione militare in una anonima cittadina della campagna russa, si sono fermate in questa stessa cittadina solo perché impossibilitate di tornare a Mosca, dove sono nate, dove hanno trascorso l'infanzia e dove anelano ritornare.
    La loro casa è luogo abituale di ritrovo per alcuni ufficiali della guarnigione: patetici padri di famiglia, assillati dai loro problemi familiari come Vierscìnin, nobili probi e idealisti come il barone Tusenbach, un ufficiale medico, Cebutìkin, cinico come i suoi colleghi degli altri drammi, ma per di più incapace e sostanzialmente privo di ogni senso morale.
    Nella casa, insieme alle sorelle vive Andri, il loro fratello sposato. La moglie Natascia, intrigante e prepotente, si installa gradualmente al centro della casa (che tra l'altro Andrei ha dovuto pignorare, per pagare i suoi debiti da gioco) e si comporta da padrona.
    Anche qui non mancano matrimoni falliti (oltre a quello di Andrei, c'è quello di Mascia con Kulìghin, un insegnante di liceo, pedante ma povero di cultura e ancor più di spirito) e i soliti amori impossibili o non ricambiati: in particolare quello di Tusenbach per Irina.
    Quando Irina acconsente a sposarlo, con la speranza di fuggire al grigiore di quella vita e di tornare con lui a Mosca, egli viene ucciso in un duello da un altro ufficiale: Soliònii, il personaggio più stravagante e volgare del dramma.
    La guarnigione intanto si sposta altrove e le tre sorelle restano prigioniere del loro destino, in una città più che mai vuota e priva di futuro.

    «Il giardino dei ciliegi»

    I protagonisti del dramma appartengono a una famiglia di vecchia nobiltà terriera che la nuova situazione economica e lo sperpero incosciente dei suoi membri ha portato gradualmente alla rovina finanziaria.
    Il capofamiglia è una donna: Liubòv Andréievna. Col fratello Gàiev e la figlia giovanissima Ania sono appena tornati da Parigi, in tempo per vedere la loro vecchia dimora e il grande e splendido «giardino dei ciliegi», depositari di tante memorie, venduti all'incanto per pagare i loro debiti.
    L'avveduta e austera amministrazione di Vària, una figlia adottiva di Liubov, non è bastata a compensare i loro allegri sperperi.
    Tutta la famiglia, tra il dolore di Varia e dei più fedeli servitori, va incontro al disastro con rassegnazione incosciente e fatalistica.
    A comperare all'asta pubblica il «giardino dei ciliegi», per lottizzarlo e farne dei villini, sarà Lopàchin, un ex servo della gleba, appartenuto un tempo alla famiglia.
    Al termine del dramma, Liubov ritorna tristemente a Parigi, dove la attende il marito malato e scroccone. Ania e Varia si guadagneranno la vita lavorando.
    La poesia del passato, simboleggiata dal vecchio giardino, è irrimediabilmente finita. Mentre tutti se ne vanno per il loro destino e il vecchio servitore Firs, abbandonato solo nella vecchia casa, muore, «si sente un suono lontano che sembra venire dal cielo, come di una corda musicale che si spezzi, un suono che a poco a poco, tristemente svanisce. Poi tutto è silenzio: giunge soltanto di lontano l'eco dei colpi delle scuri che abbattono il giardino dei ciliegi» (Il giardino dei ciliegi, 286).

    B. GLI SCENARI

    La campagna russa

    Come si vede, lo scenario dei drammi di Cechov è situato nella campagna russa. L'azione si svolge quasi sempre in una villa o in una casa padronale di campagna.
    L'eco della pianura sconfinata, dei campi, dei boschi, dei viottoli fangosi, dei villaggi miserabili, delle povere isbe dove la gente si accalca tra il fumo e la sporcizia, penetra a tratti nelle sale e nei giardini delle ville e ne turba appena un poco l'atmosfera immobile e senza tempo.
    Alcuni dei protagonisti si trovano in questo ambiente solo per un breve intermezzo: la loro vita abituale e il campo della loro attività è in città: a Mosca o ancora più lontano.
    Così è dell'Arkadina e dello scrittore Trigorin; così è del professor Seriebriakov e della sua giovane moglie. La stessa Liubov viene da Parigi e a Parigi ritornerà alla fine, se pure sconfitta.
    Per questo i drammi di Cechov si chiudono di solito con un ritorno alla città o con una partenza per destinazioni lontane e sconosciute (come avviene per gli ufficiali della guarnigione della cittadina in cui si svolge il dramma «Le tre sorelle»). La partenza chiude un passato, detestato o rimpianto, e apre la promessa di una vita nuova, della vita vera.

    Il simbolo di una vita non-vissuta

    Tutti questi personaggi non nascondono il loro fastidio per il mondo immobile e gretto della campagna e il desiderio di sfuggire a questo mondo per tuffarsi nuovamente nella vita vorticosa della città. Per loro, la campagna diventa il simbolo di una vita non vissuta, di tutta la noia e il torpore del «quotidiano».
    L'espressione più rappresentativa di questo stato d'animo è costituita dal Seriebriakov: «Aver lavorato tutta la vita per la cultura - egli dice -, essersi abituato ad avere un proprio studio, un uditorio, dei colleghi onorati... e trovarsi all'improvviso, senza sapere come né perché, in questa tomba; vedersi attorno ogni giorno gente stupida, ascoltare discorsi idioti... Io voglio vivere, mi piacciono il successo, la celebrità, la fama; qui invece è come essere in esilio» (Lo zio Vania, 168).
    Gente come il professore ritiene di avere diritto a un altro genere di vita, quello per cui pensa di essere nato, è convinta di appartenere al genere di persone nate per vivere in città: «Continuare a vivere in campagna, per me è impossibile. Noi non siamo nati per stare in campagna» (Lo zio Vania, 213).
    Anche per l'Arkadina, la campagna è il luogo dell'inazione, a suo modo piacevole, ma profondamente noiosa: «Ah, cosa mai può essere più noioso di questa cara noia della campagna! Caldo, calma, non c'è nessuno che faccia qualcosa, tutti filosofeggiano» (Il gabbiano, 60).
    Sfuggire all'inazione della vita in campagna è addirittura un dovere, soprattutto se si hanno doti da far fruttare; lo stesso dovere che si ha di vivere e di mettere a frutto la vita. È la raccomandazione che la stessa Arkadina fa a Nina, dandole il consiglio, che si rivelerà poi fatale, di scappare di casa per tentare comunque l'avventura della vita di attrice nella città: «Con un fisico come il vostro, con una voce così bella, non si deve, è un peccato intristire in campagna... voi avete il dovere di fare l'attrice» (Il gabbiano, 42).

    I condannati alla vita di campagna

    Questi personaggi si considerano e sono in un certo senso privilegiati. Essi sfuggiranno alla fine alla grigia ripetitività di questo quotidiano e torneranno a quella città per cui si sentono nati.
    Ma per molti altri la possibilità di una fuga non esiste.
    Anche Sorin, il fratello dell'Arkadina, si sente annientato da questa vita piatta e priva di eventi; tuttavia sa che non esiste per lui modo di evadere da essa: «Io, fratello, non mi trovo bene in campagna, è ovvio; non mi ci abituerò mai. Ieri sera mi sono coricato alle dieci e stamattina mi sono svegliato alle nove, con la sensazione come se, per il troppo dormire, il cervello mi si fosse appiccicato al cranio (...). Sono sempre partito di qui con piacere... Bè adesso sono in pensione e non so dove cacciarmi, in fin dei conti: vuoi o non vuoi, bisogna starci» (Il gabbiano, 19-21).
    Ancora più penosa è la condizione di Astrov, il medico di Lo zio Vania, uomo dalle grandi idee, ma brutalizzato dalla fatica di un lavoro disumano e dall'ambiente miserabile e volgare in cui è costretto a lavorare: «Amo la vita in generale - dirà - ma la vita della nostra provincia russa, così limitata e meschina, io la odio» (Lo zio Vania, 183).
    Sorin e Astrov sono solo alcuni tra i forzati della vita in campagna. Molti sono i personaggi del teatro cechoviano che in campagna sono nati e in campagna moriranno: medici ubriaconi come Dorn, amministratori volgari e tirannici nei confronti dei loro stessi padroni, come Sciamraiev, affaristi di successo come Lopachin, una lunga schiera di servitori devoti oppure opportunisti, di contadini, di vecchie «tate», tutto un mondo di colorite figure che vivono dentro l'orizzonte angusto del loro lavoro e del loro ruolo e non sognano nulla di diverso da ciò che hanno e da ciò che sono.
    Ma tra i condannati alla campagna ci sono anche i grandi «vinti» che, come Astrov e Sorin, ma con intensità molto più grande, soffrono l'angustia di quella vita senza futuro. Essi hanno la sensazione continua di sciupare la loro vita; a volte si sentono perfino in colpa per questo e cercano disperatamente di sfuggire a quella che subiscono come una condanna a non vivere.
    «Conoscere tre lingue - dice Mascia, una delle "tre sorelle" -in questa città è un lusso inutile. Anzi non è nemmeno un lusso, ma una specie di appendice inutile, come un sesto dito... Sappiamo molte cose che non servono a nulla» (Le tre sorelle, 44).
    E la giovanissima Irina, con infinito rimpianto e disperazione: «Non ricordo neppure più come si dice in italiano "finestra", o che so io "soffitto": ogni giorno dimentico qualche cosa e intanto la vita passa per non ritornare mai più, e a Mosca non andremo mai, mai! Vedo che non andremo mai» (Le tre sorelle, 121).

    A Mosca! A Mosca!

    In una situazione di questo genere, Mosca (o Parigi, o qualsiasi «altrove») appare come simbolo del passaggio da una vita-non-vissuta a una vita nuova e diversa, a una vera possibilità di vita.
    Solo così si può capire la passione con cui «le tre sorelle» sognano e invocano Mosca. Per loro, oltretutto, Mosca si tinge dei colori della nostalgia di un'infanzia piena di promesse non mantenute, perduta per sempre.
    «Noi lasciammo Mosca - dice Olga - undici anni fa (...). Ricordo perfettamente che, all'inizio di maggio, proprio di questa stagione, a Mosca tutto era già in fiore (...). Stamattina mi sono svegliata, ho visto questa gran luce, ho visto la primavera e la gioia mi s'è destata dentro e ho appassionatamente desiderato di tornare nel posto dove siamo nate. (...) Soltanto un sogno cresce e si fa sempre più imperioso». E Irina, rubandole la parola: «Andare a Mosca. Vendere la casa qui, lasciare tutto e via, a Mosca» (Le tre sorelle, 20-21).
    E ancora Irina: «Dio mio, ogni notte vedo Mosca in sogno! Sono come impazzita» (ivi, 73).
    Inutilmente Vierscinin cerca paternamente di dissipare questa illusoria speranza di felicità legata a un posto particolare, di demitizzare Mosca: «Voi non farete più caso a Mosca quando ci abiterete. Non c'è felicità per noi, né ci può essere: non possiamo che desiderarla» (ivi, 82-83).
    Il grido di Irina: «A Mosca! A Mosca! A Mosca!» risuona per tutto il dramma, come una invocazione religiosa, sempre più straziante man mano che, avvicinandosi la fine del dramma, si fa sempre più evidente l'inanità di ogni tentativo di evasione e la caduta di ogni speranza.
    Irina acconsente a sposare il probo ma brutto barone Tusenbach (che essa stima ma non ama), solo per andare a Mosca: «Cara, tesoro, io stimo e apprezzo il barone (...), lo sposerò... d'accordo. Solo però... Andiamo a Mosca. Te ne supplico, andiamoci! Niente al mondo è più bello di Mosca! Andiamoci Olia, andiamoci» (ivi, 129).
    Ma la morte del barone ribadirà, una volta per tutte, le catene che la legano al quotidiano grigio e senza prospettive della vita in provincia.
    Per questi «vinti», vivere lontano da Mosca non ha solo il sapore di una successione senza storia di giorni vuoti, impegnati magari in un duro lavoro di pura sopravvivenza, privo di creatività e di soddisfazioni; è la prosecuzione obbligata di una vita senza senso, in un presente senza gioie, verso un futuro senza prospettive.
    Essi hanno sognato di approdare alla grande città, come al luogo ideale di una vita ricca di eventi, veramente vissuta. Ma non sono riusciti a evadere: sono i veri protagonisti delle «storie interiori» di Cechov.

    C. I PERSONAGGI

    «Fuchi» e «api operaie»

    Il fatto che alcuni di questi «vinti», come Sonia o lo zio Vania, debbano restare proprio per rendere possibile, col loro lavoro, l'evasione di altri, ci autorizza a tracciare tra i vari personaggi dei drammi cechoviani una prima divisione molto netta in base alla loro posizione nei confronti del lavoro: alcuni di questi personaggi possono essere considerati come «fuchi», cioè parassiti, che vivono del lavoro altrui; altri invece, le «api operaie», lavorano anche per loro e ne vengono più o meno pesantemente sfruttati.
    Dal punto di vista sociale, alla categoria dei «fuchi» appartengono i membri oziosi della decadente nobiltà terriera russa, come i Liubov, che il nascente mondo industriale sta spossessando di ogni ruolo e di ogni potere, ma anche gli adepti della nuova borghesia intellettuale cittadina, animati da una vivacità presuntuosa ma vuota e inconcludente, come l'Arkadina, Trigorin, Seriebriakov e Andrei: persone che si ritengono autorizzate a vivere alle spalle degli altri, sfruttando il loro lavoro. Alla categoria di quelle che potremmo chiamare le «api operaie» appartiene la lunga schiera dei personaggi minori: servitori, vecchie nutrici, cariche di anni e di saggezza, medici che percorrono la steppa fangosa per curare poveri contadini abbrutiti dalla miseria e dall'ignoranza.
    Ma tra le api operaie troviamo anche alcune di quelle figure di «vinti», come Sonia, Vania, le «tre sorelle», Varia, l'industriosa figlia adottiva della Liubov, figure centrali del teatro di Cechov, che non nasconde la sua simpatia e la sua pietà per questi vinti.
    I fuchi sono invece descritti con un malcelato disprezzo, che lascia intravedere una vera e propria condanna morale. Ognuno di questi personaggi è infatti caratterizzato, oltre che dal parassitismo sociale, da un qualche altro tratto morale negativo, che lo rende ancora più odioso e condannabile.
    Nel caso dell'Arkadina, ad esempio, si tratta dell'egoismo. L'ingombrante matrona è tutta concentrata nell'adorazione di sé. Vive accanto alla tragedia del figlio senza comprenderla e senza esserne sfiorata, pur avendo un ruolo non indifferente nel determinarla. Lo ferisce sistematicamente con la sua non dissimulata disistima, lo esclude positivamente dalla propria vita; gli nega perfino i soldi per acquistare vestiti decenti, pur riconoscendo di non avere problemi economici: «Veramente io i denari li ho, ma sono un'attrice. Le sole toilettes mi hanno rovinata» (Il gabbiano, 85).
    Negli stessi confronti dell'amante, essa sembra vantare una specie di diritto di proprietà. Quando egli vorrebbe lasciarla per Nina, essa gli rinfaccia: «Tu vuoi commettere una pazzia, ma io non voglio, non te lo lascerò fare... Sei mio, mio» (ivi, 95).
    Nel caso di Cebutikin, il medico infingardo di Le tre sorelle, a tutti gli altri tratti negativi della sua personalità morale si aggiunge il cinismo che lo spinge perfino a vantarsi della sua inettitudine e del suo parassitismo: «Ma io, è una cosa positiva, non ho mai fatto niente. Dopo che sono uscito dall'università, non ho mai mosso un dito, non ho più letto neanche un libro» (Le tre sorelle, 26).
    Anche Jelena, la giovane moglie di Seriebriakov, a Sonia che le propone di impegnare il suo tempo e le sue energie in qualche impegno di carattere sociale, non fosse altro che per vincere la noia, risponde senza remore: «Certe cose non le saprei fare. E non mi interessano. Soltanto nei romanzi a tesi, la gente istruisce e cura i contadini» (Lo zio Vania, 196).
    Nel caso di Liubov Andreievna e del fratello Gaiev, il tratto negativo specifico della loro personalità è costituito dall'incoscienza con cui buttano gli ultimi soldi e la stessa possibilità di salvare, con una decisione coraggiosa, il giardino dei ciliegi, tempio delle loro memorie e teatro della loro lontana fanciullezza.
    Lopachin, che fu già loro servo della gleba e che pure vorrebbe salvare la proprietà della famiglia dei suoi ex-padroni, propone loro la vendita e la lottizzazione del giardino dei ciliegi, ma i due fratelli non riescono neppure a prestare attenzione alle sue parole o ad abbozzare una risposta sensata: «Bisogna pur decidere - dice Lopachin - una volta per tutte. La questione è semplice: siete disposti a cedere il terreno per fabbricarci i villini? Rispondete con una sola parola: Sì o no».
    Ma Liubov risponde divagando: «Chi è che fuma sigari così pestiferi?». E il fratello, che vive con la fantasia sempre al tavolo da biliardo, immerso in una immaginaria partita: «La gialla in mezzo!... Mi piacerebbe andare a casa a fare una partita». Lopachin, supplichevole, insiste: «Dite una parola sola! Datemi una risposta». E Gaiev sbadigliando: «Cosa?». Lopachin non desiste: «(...) Prendete una volta per sempre la decisione di far costruire i villini. Vi daranno subito il denaro che vorrete e sarete salvi». Ma Liubov risponde disgustata: «Villini e villeggianti: tutto questo è così volgare, scusate» (Il giardino dei ciliegi, 212-216).
    L'incosciente spensieratezza di Liubov e Gaiev assume l'aspetto di una grave forma di irresponsabilità morale, se si guarda alle conseguenze che vanno a ricadere sugli altri membri della famiglia, su Varia, costretta a incredibili economie, e sui servitori, che di queste economie sono naturalmente le prime vittime.
    La Liubov si rende conto a tratti di queste sue responsabilità e se ne addolora, ma è troppo debole per imporsi una disciplina (in questo senso appartiene anch'essa al popolo dei «vinti»); essa guarda con accoratezza agli sforzi disperati di Varia: «Povera la mia Varia: per fare economia, ci nutre tutti con zuppa di latte, e ai vecchi in cucina non si danno che piselli: e io invece spendo e spando pazzamente il denaro» (Il giardino dei ciliegi, 212-214).
    E a Varia che la rimprovera dolcemente, perché ha dato una moneta d'oro a un mendicante («Oh mamma, le persone di servizio a casa non hanno da mangiare e voi regalate una moneta d'oro!»), essa risponde con disarmante sincerità: «Che vuoi farci? Sono una sciocca» (ivi, 231).
    Questa consapevolezza si fa sempre più lucida ma anche più impotente e sfocia soltanto in una disperata invocazione di perdono: «Oh, i miei peccati! Io ho sempre profuso il denaro sfrenatamente (...). Dio, Dio mio, abbi misericordia, perdonami i miei peccati! Non punirmi più» (ivi, 218).
    Nella loro incoscienza i fuchi arrivano spesso a giustificare a sestessi non soltanto il loro parassitismo ma anche le forme più ignobili di sfruttamento e di spogliazione.
    Così è di Cebutikin, che non paga alle tre sorelle la pigione della casa in cui abita. Così è di Andrei, che perde irresponsabilmente al gioco e si rifà ipotecando la casa, che appartiene anche alle sue sorelle.
    Qualcosa di ancora più disonesto vorrebbe compiere il professor Seriebriakov: ha deciso di vendere la tenuta della moglie defunta, che appartiene in realtà alla figlia Sonia e allo zio Vania, che l'hanno amministrata per anni a suo esclusivo favore, e ora vengono minacciati di venire espropriati di ciò che appartiene a loro, e di essere messi sulla strada.
    Di fronte alle indignate proteste dello zio Vania, Seriebriakov pare addirittura sinceramente meravigliato. E del resto, costretto ad abbandonare il suo disegno, continuerà a godere spudoratamente del reddito della proprietà non sua e del duro lavoro di Sonia e dello zio Vania.
    Va detto, a scanso di ogni equivoco, che la condanna dei fuchi non ha nella prospettiva cechoviana un significato primariamente politico o sociale; non è prima di tutto la condanna di una classe o di un sistema. È la descrizione di una condotta di vita, carica di significati etici negativi: è una condanna morale.
    L'evasione al compito di dare un proprio contributo positivo all'impresa civile è una parabola della fuga dalle proprie responsabilità etiche: è il simbolo di ogni altra forma di disimpegno.

    D. IL LAVORO: RETORICA E REALTÀ

    La retorica del lavoro

    La condanna morale pronunciata nei confronti di questa squallida galleria di personaggi in debito con l'umanità, perché assolutamente incapaci di qualsiasi contributo costruttivo all'impresa civile, anzi positivamente intenti a consumare e depauperare il comune patrimonio di risorse umane attraverso lo sfruttamento e perfino la depredazione, può dare l'apparenza di valere come implicita apologia del lavoro e della solidarietà fattiva degli uomini.
    Effettivamente, il messaggio morale di Cechov può a prima vista parere condensato nei lunghi ditirambi sulla nobiltà del lavoro a favore degli altri e sulle promesse di un mondo più giusto, in cui tutti finalmente lavoreranno e daranno il loro contributo al comune benessere umano.
    La nostalgia del lavoro, come forma concreta di comportamento pro-sociale, sembra prendere, nei loro momenti migliori, gli stessi «fuchi», o almeno la parte più viva di loro.
    Così è ad esempio di Vierscinin, che pur non avendo mai mosso un dito a favore di nessuno, si abbandona spesso a una certa retorica della solidarietà: «La felicità non esiste (...). Noi dobbiamo lavorare, lavorare soltanto, e la felicità sarà retaggio dei nostri lontani discendenti» (Le tre sorelle, 76).
    E così, con maggiore sincerità, il probo Tusenbach: «Fra molti anni, voi dite, la vita sulla terra sarà bella, meravigliosa. È vero. Ma per partecipare a questa vita fin da ora, per quanto da lontano, bisogna prepararvisi, bisogna lavorare...» (ivi, 45).
    In qualcuno di loro, l'aspirazione a sperimentare personalmente la dura soddisfazione di rendersi utile agli altri è più sincera; essi intuiscono quanta parte della loro insoddisfazione sia legata al sentimento della loro inutilità e si immaginano una vita di lavoro faticoso ma rasserenante, come rimedio ai loro mali. Così è di Irina, che pure dovrà scoprire presto la durezza e l'infelicità del lavoro di ogni giorno: «Lavorare, bisogna lavorare. È perché non conosciamo il lavoro che non siamo mai allegri e la vita è così tetra per noi. Siamo nati da gente che disprezzava il lavoro...» (ivi, 54).
    E così è anche per Tusenbach: «Almeno un giorno in vita mia, voglio lavorare, in modo da tornare a casa esausto la sera, buttarmi sul letto e addormentarmi sull'istante» (ivi, 79).
    Ma per molti di questi «fuchi», l'aspirazione al lavoro ha tutto l'aspetto di una concessione ai luoghi comuni della cultura illuminista del secolo, l'esaltazione sterile di un ideale, tanto più bello quanto meno li riguarda di persona.
    Così è di Trofimov: «Bisogna smettere di entusiasmarsi di se stessi. Bisogna soltanto lavorare. (...) L'umanità procede perfezionando le proprie forze: tutto ciò che per essa è ora inaccessibile, un giorno diventerà accessibile, semplice, chiaro. Solo però bisogna lavorare. Da noi, in Russia, per ora sono pochissimi quelli che lavorano...» (II giardino dei ciliegi, 225-226). Per chi ha fatto dei dogmi dell'illuminismo una specie di fede a buon mercato, il lavoro assume la funzione di uno strumento di redenzione nazionale: «Noi siamo arretrati di almeno duecento anni (...). Per ricominciare a vivere nel presente, dobbiamo innanzitutto riscattare il nostro passato, romperla col passato. Ma riscattarlo possiamo soltanto con la sofferenza, col lavoro indefesso e incessante» (ivi, 233).
    È indubbiamente possibile riconoscere in queste esaltazioni retoriche del lavoro il presentimento effettivo di qualcosa di nuovo che stava preparandosi e avrebbe di lì a non molto sconvolto il torpore atavico della vecchia Russia. Queste parole di Tusenbach suonano oggi come una profezia: «È venuto il momento - dice Tusenbach - in cui verso di noi avanza qualcosa di enorme: si sta preparando una forte e sana tempesta, che arriva, che è già vicina, e che ben presto spazzerà via dalla nostra società la pigrizia, l'indifferenza, le prevenzioni contro il lavoro» (Le tre sorelle, 26).
    Ma ordinariamente l'esaltazione del lavoro si riduce, sulla bocca dei fuchi, a una forma di retorica altisonante, fin troppo scoperta nella sua vuotezza e falsità.
    Così è ad esempio per Gaiev, che ha passato la sua vita al tavolo da biliardo, e pare commuoversi alla vista di un vecchio armadio della sua casa paterna, carico di ricordi e di storia non sempre esemplare: «Caro venerando armadio! Saluto la tua esistenza, che or sono cent'anni fu diretta verso i luminosi ideali del bene e della giustizia; il tuo tacito appello al fecondo lavoro non si è affievolito nel corso di un secolo (fra le lacrime), conservando vivi nelle generazioni della nostra stirpe il coraggio e la fede in un avvenire migliore, educandoci agli ideali del bene e a quelli della coscienza sociale» (Il giardino dei ciliegi, 190).
    Ma nel saluto rivolto da Seriebriakov al medico Astrov, abbrutito, come si è visto, dal lavoro, l'esaltazione del lavoro assume addirittura il tono dello scherno: «Apprezzo il vostro modo di pensare, il vostro entusiasmo e i vostri slanci, ma consentite a un vecchio di aggiungere al suo saluto di congedo un'osservazione soltanto: bisogna lavorare signori! Bisogna rendersi utili!» (Lo zio Vania, 239).
    Se il rifiuto di lavorare e di fare la propria parte per il benessere di tutti assume nei drammi di Cechov il simbolo di una fuga dalle proprie responsabilità etiche, la retorica del lavoro, così irrisa, assume il valore di una demistificazione di ogni colpevole ipocrisia.

    La dura realtà del lavoro

    A dare ancora più risalto al carattere fondamentalmente ipocrita della retorica del lavoro sta il realismo della descrizione della sua durezza e della sua brutalità.
    Quello descritto nei drammi è spesso il lavoro dipendente, non appagante, faticoso e monotono, asservito alle esigenze della produzione e condizionato dal bisogno.
    Nei drammi di Cechov troviamo anche persone che sono diventate schiave del lavoro per una specie di necessità interiore di natura psicologica. È il caso di Lopachin: «Quando io lavoro a lungo, senza posa, allora i miei pensieri diventano più lieti e anche a me pare di sapere perché esisto» (Il giardino dei ciliegi, 269). Ma è un po' anche il caso di Varia: «Io non posso stare senza lavorare - essa dice -, bisogna che faccia sempre qualcosa» (ivi, 244). È il lavoro-droga.
    Ma di solito il lavoro è una dura necessità, legato non per caso alla condanna a vivere in campagna, lontano dalle emozioni, dal fascino del successo, dallo sfavillio della vita mondana che solo la città può promettere.
    Vittima di una simile forma penosa e forzata di lavoro è Astrov: egli ci offre una visione realistica di quello che poteva essere il lavoro di un medico nella campagna russa del tempo: «Durante la seconda settimana di Quaresima, sono andato a Malitskoe per una epidemia... Tifo esantematico. Nelle isbe la gente stava a mucchi, uno sopra l'altro... Una sporcizia, una puzza, un fumo (...). Ho lavorato su e giù per tutto il giorno, senza sedermi un momento, senza prendere un boccone o un goccio d'acqua e, appena ritornato a casa, non mi hanno nemmeno lasciato tirare il fiato; mi hanno portato su un cantoniere. L'ho steso sulla tavola per operarlo, e quello mi muore sotto il cloroformio. Ed ecco allora, senza proprio alcun bisogno, che i miei sentimenti si sono ridestati e ho provato un gran rimorso, come se avessi ucciso con premeditazione quell'uomo» (Lo zio Vania, 143-144).
    Un simile genere di lavoro non comporta soltanto il rischio dell'assuefazione all'errore proprio e alle sofferenze altrui; esso produce alla lunga una specie di abbrutimento, di ottundimento dei sentimenti, un invecchiamento precoce e, magari come in Astrov, l'evasione nell'alcol.

    La stanchezza

    Questo tipo di lavoro, lungi da produrre quella benefica stanchezza che, nell'immaginazione dei fuchi, dovrebbe favorire il sonno e curare il tedio della vita, provoca la stanchezza reale, cioè quella vera e propria forma di malessere, fisico e spirituale insieme, che intristisce e toglie ogni gusto di vivere. Di questo genere di malessere si lamenta Olga: «Poiché vado ogni giorno a scuola e do lezioni fino a tarda sera, ho sempre mal di testa e certe idee, come se fossi già vecchia... E davvero, in questi quattro anni, da quando faccio scuola, ho sentito che ogni giorno, a stilla a stilla, ho perduto forze e giovinezza» (Le tre sorelle, 21).
    Anche Astrov si sente invecchiato precocemente dalla fatica, nel corpo ma soprattutto nello spirito: «Eh sì... in dieci anni sono divenuto un altro. E sai perché? Lavoro troppo, vecchia tata. Sempre in piedi dalla mattina alla sera, non so cosa sia riposo, e la notte sto sotto le coperte sempre con la paura che mi vengano a tirar fuori dal letto per trascinarmi da qualche malato. Da quando noi due ci conosciamo, non ho avuto un solo giorno libero. Come non invecchiare? (...) Il mio cervello è a posto; ma i sentimenti, non so... si sono fatti come ottusi: non amo nessuno...» (Lo zio Vania, 142-143).
    Ma più di tutti soffre questa profonda stanchezza la giovanissima Irina, costretta a un umile lavoro d'ufficio, lei che conosce tre lingue.
    «Quando tornate dal lavoro - le dice Tusenbach - sembrate una povera bambina infelice...». Ed essa conferma: «Sono stanca. Non non mi piace il telegrafo, proprio no» (Le tre sorelle, 72).
    Nessuno meglio di lei sente il contrasto insanabile tra il lavoro ideale della retorica illuminista dei fuchi e il lavoro reale della vita di ogni giorno. «Bisogna che mi cerchi un altro impiego. (...) A questo manca proprio quello che ho tanto desiderato, tanto sognato... È un lavoro privo di poesia, senza idee...» (ivi, 73).
    Dalla stanchezza di questo lavoro senza idee e senza poesia nasce un bisogno impellente e una invocazione accorata di riposo: «Sono tanto stanca - dirà Nina, distrutta dalle sue dure esperienze di attrice di secondo ordine -. Oh poter riposare, riposare!» (Il gabbiano, 132).
    Una sola giornata di riposo sembra risanare e ringiovanire: «Ecco - dice Olga - oggi, poiché sono a casa in vacanza, la testa non mi fa male e mi sento più giovane di ieri» (Le tre sorelle, 22).
    Le vittime del lavoro aspirano al riposo e alla pace: «Vorrei farti sposare un uomo ricco e perbene - dice Varia alla sorella Ania -allora sarei più tranquilla anch'io, mi ritirerei in un convento (...). Che pace! Che beatitudine!» (Il giardino dei ciliegi, 178).
    E la promessa: «riposeremo» scandisce come un ritornello, straziante ma insieme rassegnato, la finale del dramma Lo zio Vania: «Povero zio Vania - gli dice Sonia tra le lacrime - tu piangi... Tu non hai conosciuto gioie nella vita, zio Vania, ma aspetta zio Vania, aspetta ancora un poco... Riposeremo! (Abbracciandolo) Riposeremo! Riposeremo! ...» (Lo zio Vania, 246-247).

    Il lavoro e l'esperienza morale «feriale»: una analogia?

    Abbiamo già fin dall'inizio accennato all'esistenza di una certa analogia tra questo lavoro, duro, umile e logorante, e quella che abbiamo chiamato l'esperienza morale «feriale».
    Possiamo ora precisare meglio il senso e i limiti di questa analogia, rispondendo anzitutto ad alcune possibili obiezioni. Ci sono infatti alcuni elementi in questa descrizione del lavoro che sembrano contraddire un simile accostamento.
    Intanto, questo tipo di lavoro, condizionato dalla necessità, sembra abbrutire chi lo compie invece di nobilitarlo, e ci riesce difficile pensare che una qualsiasi forma di impegno morale, purché autentico, possa abbrutire l'uomo.
    Questo genere di lavoro, poi, dà l'impressione, a coloro che lo devono subire, che sia un buttar via la vita, uno sciuparla, non viverla. Essi arrivano perfino a provare, accanto allo spiegabile rammarico e magari al dispetto, una vera e propria forma di rimorso: «La notte non dormo per il dispetto - dice ad esempio lo zio Vania
    per la rabbia d'aver così stupidamente sciupato il tempo in cui avrei potuto avere tutto ciò che la mia età ora non mi consente più» (Lo zio Vania, 154). «Giorno e notte, come uno spirito maligno, mi ossessiona il pensiero che la mia vita è irrimediabilmente perduta. Sono senza passato, perché l'ho stupidamente sciupato in cose senza senso, e il presente è terribile nella sua assurdità» (ivi, 173).
    Le «cose senza senso» non sono, come si potrebbe pensare, gli stravizi o gli spiegabili errori di una giovinezza dissipata, ma le fatiche quotidiane sopportate lavorando una vita intera per il prestigio del professor Seriebriakov; una causa che non valeva proprio la pena della sua dedizione. Ci si sente colpevoli di avere servito una causa che non meritava la propria devozione.
    Lo stesso rammarico, lo stesso senso disperato di colpa prova Firs, anch'egli devoto fino alla fine della vita ai suoi vecchi e indegni padroni: «La vita è passata, come se non avessi vissuto» (Il giardino dei ciliegi, 286).
    Lo zio Vania può gettare la sua colpevolezza sul professore: «Per colpa tua - gli dirà - ho sciupato, ho perduto gli anni migliori della mia vita!» (Lo zio Vania, 219).
    La povera Irina invece non potrà rimproverare nessuno; ma anche lei sente sfuggire la vita, ha l'impressione di non viverla: «... Ho il cervello inaridito, sono diventata magra, brutta, vecchia, e mai niente di niente, nessuna soddisfazione mai, e intanto il tempo continua a passare e mi sembra di allontanarmi sempre più dalla vita vera (...), in direzione di un orrido abisso. Sono disperata e non capisco come io sia ancora viva» (Le tre sorelle, 150).
    Esiste naturalmente una differenza essenziale tra il lavoro umile ma sfruttato di queste «api operaie» e l'impegno morale vero e proprio: dei valori morali, almeno di quelli veri, non potrà mai dirsi che non meritino l'incondizionata dedizione dell'uomo o che le inevitabili rinunce che esso comporta si risolvano in una perdita secca per colui che le affronta.
    Ma l'analogia tra il lavoro e l'impresa morale mantiene, al di là forse della stessa intenzione riflessa dell'autore, una sua significatività, per lo meno in riferimento a quella forma di esperienza morale cui abbiamo dato il nome di «feriale»; un'esperienza contrassegnata dal sentimento penoso della costrizione, sia pure di quella imposta dal senso del dovere, da una fedeltà un po' forzata, capace magari di resistere allo scoraggiamento e al tedio, ma forse più per inerzia che per vero amore.
    Tutti provano una simile esperienza, almeno in certi momenti della vita; ed essa può occupare un largo spazio nell'esistenza quotidiana di molte persone. La gioia della realizzazione dei valori che danno senso alla vita, la sensazione appagante di star facendo qualcosa che merita tutto il nostro impegno, di star puntando la propria vita sul cavallo vincente illumina solo a tratti la vita morale, come i lampi una notte di tempesta.
    L'esperienza morale conosce anche la durezza del prodigarsi senza poesia, di restare fedeli senza visibile creatività, del realizzare i valori senza la sensazione di realizzare se stessi.
    Ci sono per tutti momenti della vita in cui ci si chiede se non si stiano per caso sprecando preziose possibilità di autorealizzazione personale nell'esecuzione di un compito morale ripetitivo, disgustoso e apparentemente insignificante.
    È uno dei tanti modi in cui l'esperienza morale sottostà alla legge della croce che segna tutta l'esistenza umana. Anche l'esperienza morale è attraversata dalla notte del Getsemani, dalla paura, dal tedio, dalla tristezza, dall'agonia che precede la passione.
    Del resto i «vinti» di Cechov non sono del tutto esenti dai pregiudizi del loro tempo e della loro società. Anch'essi identificano la vita vera cui aspirano con la città, simbolo di una vivacità esclusivamente esteriore e mondana, senza rendersi conto dei limiti e della indeterminatezza dei loro sogni. La «vita vissuta» che essi contrappongono alla loro, percepita come non-vissuta, non è altro che il sottoprodotto della loro stanchezza, della loro comprensibile delusione, della loro paura di invecchiare e di morire lavorando come bestie da soma, della loro inevitabile invidia nei confronti dei «fuchi».
    In realtà, gli stessi «fuchi» sperimentano a volte la percezione devastante del vuoto della loro vita: così è di Mascia, che chiede a Trigorin di mandarle i suoi libri e di scrivervi come dedica: «A Mara, sola al mondo, ove non sa perché viva» (Il gabbiano, 79).
    All'Arkadina che si illude di vivere solo perché indaffarata: «E io ho invece - dice ancora Mascia - la sensazione come se, nata già da moltissimo tempo, mi trascinassi dietro la vita come uno strascico senza fine» (ivi, 53).
    Il rammarico e il rimorso di non avere abbastanza vissuto la propria vita colpisce anche i più cinici e abietti tra di loro: «Oh se la vita che abbiamo vissuta - dice Vierscinin - potesse essere, per così dire, la brutta copia d'un'altra, che ne sarebbe la stesura definitiva! Allora ciascuno di noi, credo, prima di tutto cercherebbe di non ripetersi» (Le tre sorelle, 46).
    Più radicale ancora, il dubbio di Cebutikin sul carattere reale oillusorio della vita: «Forse non sono nemmeno un uomo, e faccio soltanto finta d'avere braccia e gambe e testa. Forse non esisto nemmeno e mi pare soltanto di camminare, mangiare e dormire. (Piange) Oh, se potessi non esistere!» (ivi, 100).
    Nessuno scandalo quindi per il fatto che l'esperienza morale non escluda la noia della ripetizione monotona e il tedio della difficile perseveranza, proprio come un lavoro imposto dalla necessità: la necessità di portare fino in fondo un incarico, di restare fedeli a una parola data, a un progetto abbracciato, anche quando il suo fascino sembra svanire.
    Ma una simile fedeltà suscita inevitabilmente l'interrogativo: «Ma ne vale proprio la pena?». E l'unica risposta a questo interrogativo sta nella prospettiva del futuro che da essa ci si attende.

    E. IL FUTURO

    L'ossessione del futuro

    Il difficile autorinnegamento e l'arida perseveranza, richieste dall'impegno morale soprattutto nella sua dimensione «feriale», non possono essere perseguiti per se stessi; come non lo possono la fatica e la pena del lavoro di ogni giorno. Si lavora in vista di un risultato o almeno di un salario. Ci si impegna nella faticosa fedeltà ai valori, solo se si spera che essa possa cambiare in meglio lo stato della cose, produrre un futuro migliore del presente.
    Questo problema cruciale del futuro, di una qualche plausibile rappresentazione del futuro come giustificazione del peso quotidiano del presente percorre da cima a fondo tutta l'opera teatrale di Cechov, quasi come un'ossessione.
    Il giovane Trepliov, nel suo dramma che non riuscirà mai a portare sulle scene, immagina come sarà la terra fra duecentomila anni.
    Anticipando i temi di molta fantascienza contemporanea, la sua rappresentazione del futuro è ispirata all'orrore: «Più non si destano - così recita l'immaginario dramma - gridando nei prati le gru, né si odono bruire i maggiolini nei teneri boschi di tiglio. Freddo, freddo.
    Deserto, deserto, deserto. Orrore, Orrore, Orrore» (Il gabbiano, 35).
    Ma l'orrore non chiude del tutto le porte alla speranza; è solo il momento dialettico negativo di una «tenace e crudele lotta», dopo la quale «materia e spirito si fonderanno in una splendida armonia e verrà il regno della volontà universale» (ivi, 36). È, come si vede, la palingenesi finale di una specie di epopea cosmica.
    Anche Tusenbach sente il bisogno di divinare il futuro, un futuro ancora segnato dalla fatica di vivere, ma alimentato dalla speranza della felicità: «Dopo di noi, la gente volerà in pallone, le giacche cambieranno fogge (...), ma la vita resterà sempre uguale, faticosa, piena di misteri, anche se felice» (Le tre sorelle, 75).
    Per Mascia invece il futuro si presenta sotto la forma di un incubo: la paura dell'oblio che ingoia il passato e ne sanziona la vacuità: ciò che non sarà ricordato sarà come non fosse mai stato: «Pensate: comincio a scordare il suo viso - dice Mascia della mamma morta -. Allo stesso modo anche noi non saremo più ricordati: ci dimenticheranno» (ivi, 38).
    Più ancora dell'oblio dei posteri, Vierscinin sembra temere la loro condanna, quella così facile liquidazione del passato che ogni generazione compie nei confronti di quelle che l'hanno preceduta: «Può anche darsi che la nostra vita attuale, a cui siamo tanto abituati, col tempo appaia strana, scomoda, stupida, non sufficientemente pura e, chissà, fors'anche carica di colpe» (ivi, 38).
    Anche Astrov si preoccupa di come apparirà il nostro presente dalla prospettiva del futuro. Anche lui è convinto che il futuro ci ignorerà o ci condannerà: «Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, e ai quali noi apriamo la via, ci ricorderanno con una buona parola? No vecchia tata, non lo faranno!» (Lo zio Vania, 144).
    Eppure egli è convinto di lavorare per il futuro, di contribuire a suo modo alla felicità di coloro che verranno dopo di lui. Come dice Jelena, «se pianta un alberello già prevede cosa deriverà fra mille anni. Sogna già un'umanità felice» (ivi, 191). E lui stesso sembra riconoscerlo: «Tu mi consideri con ironia - dice a Vania -, ma quando passo accanto alle foreste dei contadini che io ho salvato dalla scure, o quando odo stormire il mio giovane bosco, piantato da queste mie mani... so che, se fra mille anni gli uomini saranno felici, vi avrò avuto anch'io la mia parte» (ivi, 160).

    Il mito del progresso

    Con la sua vita Astrov smentisce il cinismo provocatorio del suo modo abituale di esprimersi e di teorizzare. E questo segna ancora una volta la differenza essenziale che c'è tra lui e i «fuchi», i quali proclamano continuamente, ma soltanto a parole, la loro ipocrita fiducia nell'ideale illuministico del Grande Progresso Illimitato.
    Vierscinin è uno di questi alati ma sterili profeti del futuro regno dell'uomo: «Fra due, trecento anni - anche fra mille, il tempo preciso non conta - sorgerà una nuova vita felice (...). È per essi che noi oggi viviamo, lavoriamo, soffriamo. Siamo noi a crearla e in ciò solo è lo scopo della nostra esistenza e insieme, se volete, la nostra felicità. (...) Noi dobbiamo lavorare, lavorare soltanto e la felicità sarà retaggio dei nostri discendenti» (Le tre sorelle, 76).
    È chiaramente riconoscibile in queste parole il linguaggio proprio di tante forme di messianismo terreno, che proiettano la redenzione della storia in un futuro più o meno lontano, in cui una fortunata generazione felice erediterà un mondo riconciliato, costruito sul sangue e sulle lacrime di tutte le generazioni che l'hanno preceduta.
    Ancora più vuoto e falsamente altisonante è il linguaggio con cui Trofimov celebra la sua fiducia nel futuro radioso dell'umanità: «Superare tutto quello che è meschino, illusorio, quello che impedisce all'uomo di essere libero, ecco la mèta, il senso della nostra vita. Avanti! Noi avanziamo irresistibilmente verso la stella luminosa che splende in lontananza» (Il giardino dei ciliegi, 232). «L'anima mia, in ogni istante, e di giorno e di notte, è sempre stata colma di inesprimibili presentimenti. Presento la felicità, Ania, io già la vedo» (ivi, 234).
    Anche Andrei trova, nella prospettiva di un futuro felice per l'umanità, una consolazione di fronte alla consapevolezza penosa della sua miseria morale e della sua viltà: «Il presente mi disgusta, ma quando penso all'avvenire... come tutto diventa bello! Provo un senso di sollievo, di immensità, vedo una luce risplendere in lontananza... vedo la libertà! Vedo me e i miei figli divenuti liberi dall'ozio (...), dal vile far nulla» (Le tre sorelle, 151).

    L'assenza di futuro e il nonsenso della vita

    Ma in altri momenti, lo stesso Andrei rivela quanto questa speranza di una futura umanità virtuosa e felice scorra soltanto alla superficie della sua vita, lasciando intatta la sorda disperazione che la corrode in profondità, per l'assenza di ogni prospettiva di una vita migliore che lo riguardi personalmente: «Dio mio! sono segretario dell'amministrazione di cui è presidente Protopo'v. Segretario! ... E il massimo che possa sperare è di diventare consigliere! Io, che sogno ogni notte di essere un professore dell'università di Mosca, un celebre studioso di cui la terra russa vada fiera!» (Le tre sorelle, 65).
    Questa assenza di ogni prevedibile sbocco, questa assoluta improbabilità di un futuro nuovo, diverso, trasforma la vita in un interrogativo senza risposte. «Sono sempre sola - dice Charlotta, la governante di casa Liubov - ... sola... non ho nessuno; e chi sono e perché vivo è un mistero» (Il giardino dei ciliegi, 210).
    Il passaggio dalla scoperta che i «perché» ultimi della vita non hanno risposta al dubbio se valga davvero la pena di continuare a vivere è fin troppo facile. Il suicidio, apparentemente imprevedibile, di Trepliov trova una sua spiegazione in questo vuoto di senso. L'apparente ottimismo di Epichodov nasconde una situazione interiore molto simile: «Io sono un uomo evoluto - egli dice -, leggo molti libri interessanti, e nondimeno non riesco in alcun modo a darmi un indirizzo: non so a cosa aspiro. Debbo, propriamente parlando, vivere o tirarmi un colpo di rivoltella?» (ivi, 209).

    Il bisogno di un futuro diverso

    Di fronte a questo nonsenso, tanto più insopportabile per coloro che sono costretti a trascinare una vita di duro lavoro, senza nessuna speranza di un riscatto, esplode il bisogno radicale di un futuro «totalmente diverso», che riguardi non tanto una ipotetica e lontana generazione futura, quanto le loro vite personali, e che sia capace di trasformarle e di dar loro senso.
    Ci sono situazioni meno gravi, che lasciano aperto uno spiraglio alla possibilità di un riscatto abbastanza vicino, dentro il corso stesso della vita: la forza del desiderio è allora tutta orientata a questofuturo prossimo, a questa novità possibile. A un futuro di questo genere si rivolgono le speranze e i progetti di Ania, nel momento in cui deve lasciare la casa del giardino dei ciliegi: «Mamma, tu tornerai presto (...). Io mi preparerò, farò gli esami al liceo, poi lavorerò, ti aiuterò, (...) leggeremo tanti libri, dinanzi a noi si schiuderà un mondo nuovo e raggiante» (Il giardino dei ciliegi, 273).
    Ma le lacrime cui è frammista questa esortazione consolatoria rivolta alla madre ci rivela che essa stessa intuisce tutta la prevedibile fragilità delle sue speranze. Anche lei dunque sembra sentire il bisogno di illudersi, di immaginare una riserva di futuro, che in realtà non esiste, per poter tirare avanti: «Non piangere mamma. Ti è rimasta la vita che hai davanti a te, ti è rimasta la tua anima buona e pura (...). Andiamocene lontano!... Noi pianteremo un nuovo giardino, più rigoglioso di questo, tu lo vedrai, comprenderai e una gioia quieta e profonda ti calerà nell'anima (...) e tu sorriderai, mamma» (ivi, 262).
    Si noti come il linguaggio che esprime questa speranza e questo proposito di vita nuova abbia assonanze con quello della speranza religiosa.

    Il futuro della fede

    Ma a questa speranza si rifaranno in modo più esplicito e aperto gli altri «vinti» dei drammi di Cechov.
    Nina, Sonia, lo zio Vania, le tre sorelle non hanno proprio nessun futuro prossimo a cui aggrapparsi. L'unico futuro, aperto al loro bisogno di speranza, è posto al di là dei confini di questa vita. La loro attesa può approdare alla fine soltanto al futuro di Dio.
    È di questo futuro che hanno bisogno per poter continuare a vivere. La loro speranza si appoggia solo sulla fede; non la fede retorica dei «fuchi», nel progresso futuro dell'umanità, ma la fede della tradizione russa, impersonata, nei drammi di Cechov, dalle vecchie nutrici, cariche di saggezza e di imperturbabilità.
    Nella vecchia Marina questa speranza assume il tono di una pacata ma indubitabile certezza; ad Astrov, che le chiede se gli uomini che verranno si ricorderanno di loro, essa risponde serena: «Gli uomini non ci ricorderanno, ma Dio non si dimenticherà di noi». E Astrov, superando per una volta il suo ostentato cinismo: «Grazie. Hai detto bene» (Lo zio Vania, 144).
    Marina ha imparato a credere attraverso l'esperienza di una intera vita. Nina invece ha riscoperto la sua fede attraverso le sofferenze e le delusioni che l'hanno invecchiata e rinsavita in breve tempo. A Trepliov, nell'ultimo breve incontro, di ritorno da Mosca e dalle sue amare delusioni, essa confessa che la fede è rimasta ormai il suo ultimo sostegno, la motivazione che trasforma il suo lavoro, tragicamente più umile di quanto avesse sognato, in una missione: «Adesso capisco. Kostia, nel nostro lavorare, quel che importa non è la gloria, non è il brillare, non quel che sognavo, ma la capacità di soffrire. Saper portare la propria croce ed avere fede. Io ho fede. Non soffro più tanto, e quando penso alla mia missione, la vita non mi spaventa più» (Il gabbiano, 133).
    Nelle tre sorelle la fede diventa abbandono a una volontà misteriosa, superiore ai progetti miopi dell'uomo, e a cui vale la pena di affidarsi quietamente e senza ribellioni: «Va tutto bene - dice Olga -, tutto secondo la volontà di Dio» (Le tre sorelle, 22). E Irina: «È la mia sorte e non ci si può far nulla... È proprio vero che tutti siamo nelle mani di Dio» (ivi, 139).
    Anche Mascia riconosce che, fuori dalla prospettiva della fede, la vita diventa incomprensibile, solo la fede può dirci perché viviamo, e sapere perché si vive diventa, in certe situazioni, condizione necessaria per poter continuare a vivere: «A me sembra che l'uomo debba avere una fede o debba cercarla, altrimenti la vita è vuota, vuota ...(...) Bisogna sapere perché si vive, altrimenti tutto non è che sciocchezza e confusione» (ivi, 78).
    La ricerca di un perché si viva e si soffra diventa, per Irina, una invocazione accorata e fiduciosa, quando con la morte di Tusenbach cadono tutte le sue ultime illusioni mondane: «Verrà un giorno, in cui tutti sapranno il perché, la ragione di tante sofferenze, non ci saranno più misteri; ma intanto dobbiamo vivere e lavorare, lavorare soltanto!» (ivi, 163).
    Ma più straziante di tutte è la professione di fede di Sonia. Quando tutti sono partiti per Mosca ed essa è rimasta sola con lo zio Vania, unita a lui dalla previsione di una lunga serie di giorni di lavoro umile e di solitudine affettiva, essa cerca di consolare se stessa e lo zio con la prospettiva di un riposo definitivo, al di là di questa vita, nelle braccia misericordiose di Dio: «Noi, zio Vania, continueremo a vivere. Vivremo una lunga serie di giorni, di serate interminabili; sopporteremo pazientemente le prove che la sorte ci manderà; lavoreremo per gli altri, adesso e quando saremo vecchi, senza stancarci mai... e quando verrà la nostra ora, morremo rassegnati e, di là, oltre la tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo sentito tanta amarezza, e Dio avrà compassione di noi... E noi due, io e te, zio, zio caro, vedremo una vita luminosa, bella, armoniosa... Noi allora ci rallegreremo, e alle nostre sventure d'oggi penseremo con tenerezza, con un sorriso... e riposeremo. Io lo credo zio, lo credo ardentemente, ardentemente. (Si mette in ginocchio davanti a lui e gli poggia la testa sulle mani; con voce stanca) Riposeremo!... Riposeremo! Sentiremo cantare gli angeli, vedremo tutto il cielo coperto di diamanti, vedremo tutto il male della terra, tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia di Dio, che riempirà di sé tutto il mondo... E la nostra esistenza diventerà calma, tenera, dolce come una carezza. Io lo credo, lo credo...» (Lo zio Vania, 246).
    C'è, come si vede, una differenza essenziale tra questa esplicita professione di fede («io lo credo, lo credo»!) e le tronfie proclamazioni dei fuchi sul progresso umano. Quella di Sonia è una confessione sofferta, sussurrata all'interno di una accettazione rassegnata ma serena del lavoro e della sofferenza; prima di esprimersi a parole è già inclusa in questa accettazione: è l'invocazione implicita nella rassegnazione di tutti coloro che con la propria sofferenza, il proprio umile lavoro, la fedeltà ai loro compiti modesti ma preziosi tengono in piedi il mondo.
    Può sembrare riduttivo paragonare questa rassegnazione sempre un po' forzata all'impegno morale, sia pure «feriale», cui sembrerebbe competere per definizione il carattere della libera scelta. In realtà se c'è alla base di ogni impegno morale una decisione liberissima per il bene in generale, le forme concrete con cui attuiamo questa decisione ci vengono, almeno in parte, imposte da circostanze su cui non abbiamo alcun potere. Accettare queste circostanze è la condizione necessaria per poter dare corpo e concretezza alla nostra volontà di bene. E sono proprio queste circostanze a imporre molto spesso al nostro impegno morale quella condizione di «ferlalità» che lo rende così difficile e tedioso, così bisognoso di una speranza di futuro diverso, per poter essere portato avanti fino al suo compimento.
    Non possiamo sapere fino a che punto Cechov, che pure, come tutti i veri drammaturghi, si è intensamente identificato con i suoi «vinti», ne condividesse veramente anche la fede, o se la considerasse invece alla stregua di un anestetico, di cui c'è indubbiamente bisogno in certe situazioni di grave sofferenza, ma solo per occultare tale sofferenza, oscurando la coscienza di sé e del mondo.
    E questo dubbio ne solleva un altro molto più serio: affermare il bisogno di una fede per poter sopportare il peso feriale della vita non è ancora provare la verità di questa fede. Il futuro che essa promette non potrebbe essere proprio il prodotto di questo bisogno, un prodotto immaginario, altrettanto illusorio di quello contenuto nei miti illuministi del Grande Progresso Illimitato?
    Possiamo dire (ma la nostra non vuole essere naturalmente una risposta esauriente) che la fede dei vinti di Cechov è la fede cristiana; una fede che, prima di essere vissuta come risposta a un proprio bisogno, è percepita come dono gratuito della sollecitudine preveniente di Dio.
    Dio non è la risposta a una domanda umana, all'invocazione di chi è impegnato nella dura fedeltà di ogni giorno ai valori morali, in un lavoro senza speranze terrene; colui che crede, ritiene che Dio abbia prevenuto ogni sua domanda, abbia già da sempre anticipato ogni suo bisogno.
    Dio è già da sempre presente alla faticosa quotidianità dell'impegno morale, ed è questa presenza che rende possibile e sensata la nostra invocazione di lui; questa invocazione prima ancora che l'espressione di un bisogno è la consapevolezza gioiosa e riconoscente di un dono di grazia.
    Prima ancora di essere cercato, Dio ci ha trovato al nostro posto di lavoro e ci ha garantito, proprio come crede Sonia, che non ci sarà proporzione tra le fatiche di questa vita e la futura gloria che sarà rivelata in noi.

    NOTE

    1 Ci riferiamo in particolare ai drammi che prenderemo in considerazione in questo capitolo: Il Gabbiano, Lo zio Vania, Le tre sorelle e Il giardino dei ciliegi. Le citazioni riportate nel testo si riferiscono alla traduzione italiana di questi drammi pubblicata in due volumetti nella Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1960.


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