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    Diritto e morale in:

    «Corruzione al

    palazzo di giustizia»

    di U. Betti

    Guido Gatti

     

    A. LA TRAMA

    Il «Palazzo» e la sua corruzione

    Non sarebbe giusto escludere del tutto, da questi saggi di ermeneutica sapienziale di alcuni grandi drammi contemporanei, la drammaturgia italiana. Per quanto abitualmente alieno dall'approfondimento severo di tematiche morali e dal dibattito sulle ragioni che danno senso alla vita, il teatro italiano ha un suo contributo positivo da offrire alla chiarificazione del problema etico.
    Corruzione al palazzo di giustizia di Ugo Betti, [1] ad esempio, si ispira indubbiamente a una preoccupazione morale rigorosa e profonda e rappresenta una voce significativa nel dibattito etico di cui si è fatta portatrice l'arte drammatica contemporanea.
    Il dramma riflette la conoscenza diretta che l'autore, alto magistrato egli stesso, si era potuto fare del «palazzo di giustizia», cioè di quel mondo separato ed esoterico che è costituito, in una società civile moderna, dall'amministrazione giudiziaria, ma assurge nello stesso tempo a rappresentazione universale dei limiti e delle contraddizioni della giustizia umana, quando essa si separa dalla sua legittimazione etica.
    L'episodio di corruzione, su cui è impostata tutta la trama, ha come protagonista uno dei più abili, ambiziosi e spregiudicati funzionari del «Palazzo», il giudice Cust, giunto al culmine della sua carriera e candidato alla successione del «grande Vanan», nella carica di Presidente della Corte.
    Ma l'episodio di corruzione che lo vede protagonista finisce per rivelare ben presto tutta la fragilità e la vacuità morale che si cela nei corridoi del grande Palazzo. Assediato dalla spietata lotta di interessi che si combatte nella società, il palazzo mostra crepe insospettate e lascia intravedere cedimenti e compromessi che sfigurano il volto della Giustizia.
    Così, quando all'interno del palazzo viene trovato cadavere, in circostanze misteriose, un certo Ludvi-Pol, l'avventuriero che è stato all'origine della corruzione, e viene inviato dal Ministero un Consigliere Inquisitore a fare luce sull'episodio, i giudici si sentono tutti minacciati e, presi dal panico, lasciano trasparire senza pudori tutte le miserabili rivalità, le lotte di potere, la disistima reciproca di cui è pieno il Palazzo: «Se mai ci fossero davvero dei colleghi - dice uno di loro - ... che hanno perso l'appetito e passano brutte notti, ciò non mi riguarderebbe affatto. Questi sono momenti in cui ognuno pensa ai casi suoi e si arrangia» (28).
    «Pare che vari colleghi si siano dati un gran da fare - aggiunge un altro - per mettere in moto molle e rotelle, pare che si sia tentato di vibrare colpi selvaggi, vere pugnalate» (29).
    «Brutto avere un nemico in questi momenti (...). Si è traditi da chi meno si crede» (31).

    Le accuse al presidente Vanan

    E alla fine si ritrovano tutti d'accordo nel cercare di salvarsi gettando i sospetti sull'anziano presidente Vanan, che l'età cadente, la solitudine sdegnosa, l'assenza di amici e di alleati e, alla fine, una specie di mortale stanchezza e di rassegnazione, espongono disarmato alle loro diaboliche insinuazioni.
    A lanciare la prima pietra, nascondendo accortamente il braccio, è proprio Cust: «La mia non vuole assolutamente essere un'insinuazione, intendiamoci. Nessuno meglio di me, che sono stato giudice referendario e perciò stretto collaboratore del presidente Vanan, nessuno meglio di me conosce la sua assoluta insospettabilità. Lo dico solo perché sia rispettato un certo rigore di metodo: alla decisione partecipò anche il presidente Vanan che ora non è qui» (40).
    Lo segue a ruota il giudice Bata che attribuisce a Vanan «almeno in parte la responsabilità del disordine, del disagio» che regna a Pa-lazzo. E via via le insinuazioni si fanno più pesanti e riguardano la sua vita sentimentale, la sua età avanzata e la presumibile fragilità che l'accompagna, la sua lucidità mentale (41-42).
    La paura fa perdere ai giudici ogni ritegno: «La città intera è in attesa, vuole la testa di qualcuno. (...) Qua è questione di vita. Vogliamo farci sbranare noi per i begli occhi di Vanan?» (42).
    Quando Vanan sopraggiunge, la sorpresa e lo sdegno paralizzano le sue residue capacità di difesa: egli si rivela più debole di quanto i suoi stessi nemici pensassero. Dopo le prime battute, è già nelle mani dei suoi carnefici, che hanno tutto l'agio di finirlo. Cedendo ai consigli interessati del corrotto Cust e del cinico Croz, muove lui stesso quei passi falsi che convoglieranno ulteriormente i sospetti dell'Inquisitore su di lui.
    Mentre l'inchiesta continua e il Consigliere Inquisitore fruga inutilmente l'immenso archivio del Palazzo, alla ricerca delle carte compromettenti che dovrebbero tradire il colpevole, ma che costui ha già avuto tutto il tempo di occultare, Vanan, sorretto dalla figlia Elena, riesce comunque a scrivere un memoriale capace di smascherare il vero colpevole.
    Quando però egli si presenta all'Inquisitore, è troppo amareggiato dal tradimento dei colleghi e troppo stanco della vita per continuare la lotta; così rinuncia a ogni difesa e si limita a invocare la clemenza dell'Inquisitore: «Signore... voi dovete effettivamente intercedere... per questo sventurato magistrato... io non merito che si sia... severi... Io voglio solo un po' di tranquillità. Non altro» (77).
    «L'uomo ha bisogno di pace, non può stare contro tutto» (82).
    E a Cust, che inquieto gli domanda ansiosamente conto del memoriale: «No... No... Non ho potuto - risponde -. Io voglio solo... che non mi facciano del male. (...) Ti dirò la verità. Mi sono stancato (...), mi sono scoraggiato, Cust. Delle volte parlavo forte da solo, dicevo che ero innocente, ma anche la voce mia non aveva più fiducia. Sai che cos'era? Che quasi quasi non ci credevo più» (79-80).

    La morte della figlia di Vanan

    Vanan esce quasi fuggendo dal Palazzo. Ma vi rimane la figlia, che assume coraggiosamente le difese del padre, della cui innocenza è assolutamente convinta. Ella ha conservato il memoriale e lo vuole consegnare all'Inquisitore. Purtroppo incappa proprio nel giudice Cust.
    Dapprima egli è quasi incantato e soggiogato dalla coraggiosa innocenza della ragazza: «Quando vi ho visto, ho detto: ecco veramente entrare l'innocenza e la bella giustizia in questo triste luogo» (88). «Voi splendete alla lettera in questo inferno» (88).
    Ma ben presto, l'istinto di sopravvivenza prende in lui il sopravvento. Facendosi passare per lo stesso Inquisitore, convince la ragazza a consegnargli il memoriale. Poi, diabolicamente, cerca di smontare la stessa coraggiosa convinzione della ragazza sull'innocenza del padre, quasi intuendo che sta in questa convinzione la migliore difesa di Vanan, ma anche l'unica accusa nei suoi confronti, capace di scuoterlo interiormente.
    Comincia con l'insinuare che Vanan non sia poi così diverso, così superiore agli altri, come la ragazza crede con la certezza che le viene dal suo ingenuo affetto filiale. Probabilmente Cust, prigioniero come è della sua fragilità morale, non mente del tutto quando le dice: «Il consolante è che siamo tutti della stessa pasta, mia cara» (89).
    Cercando nello stesso tempo di smontare l'ardore combattivo della ragazza e di tacitare la sua coscienza, egli teorizza una specie di uguaglianza universale nel male, descrivendo con impietoso cinismo tutti i possibili abissi del cuore umano: «... Cattive azioni, ipocrisie, tradimenti. Dovunque! Persino qui, nel nostro pensiero, che noi falsifichiamo - anche lui! - formulando dentro di noi, non come esso tremò nella coscienza, ma come ci suggeriscono certi velenosi tornaconti...» (90).
    Quasi a voler cancellare dalla sua stessa mente quel «volto dell'innocenza» che si frappone, ormai come ultimo schermo, tra sé e la sua vittoria, egli cerca di demistificare (prima ancora a se stesso che a lei) la splendida integrità della ragazza: «Guardate! Guardatelo vostro padre perdio, finalmente; e guardatevi anche voi stessa, carina! Ma che cosa credete, che questo bel fiore di corpicino non si macchierà, non si empirà anche lui di succhi e di furori, credete che non lo guasterete, non lo contaminerete, il vostro bel corpicino, e poi la vostra voce, il vostro respiro d'angelo, la vostra anima?» (93).
    E alla fine, come per costruire una barriera tra la ragazza e suo padre, non esita di fronte alla insinuazione più infame: «Non sapete nemmeno che vostro padre vi odia! Vi odia, sì, lo ha detto qui! E nemmeno sapevate i viscidi imbrogli amorosi in cui si è messo» (94).
    E alla fine la sua diabolica astuzia ha veramente la meglio sulla integrità disarmata della ragazza. Sgomenta e sconcertata per l'improvviso infrangersi in lei dell'immagine del padre, priva dell'affettuosa fiducia in lui che l'aveva sorretta fino allora, anch'essa rinuncia a difenderlo: «Sono imbarazzata perché ora incontrando mio padre... non saprò che dirgli... ho paura che lui, guardandomi capisca.
    Povero papà. Non vorrei incontrarlo. Non vorrei incontrarlo» (95).
    Ma essa non regge alla perdita di tutto ciò per cui viveva. Uscita dall'ufficio di Cust, si getta nella tromba dell'ascensore e si uccide.

    L'emergenza del rimorso

    Cust sente, dal suo ufficio, il grido disperato della ragazza. Egli non riuscirà mai più a dimenticare quel grido.
    Uscito vincitore dalla lotta esteriore contro il pericolo di essere smascherato, egli comincia a cedere «dentro», sconvolto dalla consapevolezza di avere stroncato quella vita nel suo primo fiorire.
    Il volto fresco e fiducioso di Elena ha rappresentato per un momento il simbolo dell'innocenza disarmata che reclama giustizia. Stampato per sempre nella sua mente, è ora diventato la prova della sua colpa, un peso sempre meno sopportabile per le sue fragili spalle di uomo: «Ma questa ragazza... poco fa era qui... per un nulla diventava rossa... era così giovane... io vorrei dirle. (...) Malgai, ho il suo sangue qui sulla mano! Io non l'ho toccata, Malgai! Non l'ho toccata» (100).
    Quello che gli riesce più insopportabile è la certezza della irreversibilità di ciò che ha fatto: nessuno potrà restituire quella vita piena di promesse che egli ha stroncato: «I miei pensieri seguitano a girare intorno a fatti ormai fuori della possibilità di essere cambiati» (104).
    «Dunque nessuno più incontrerà la giovane ragazza che vidi su quella porta, col respiro leggermente ansante, come dopo una corsa.
    (...) Io ho conversato con lei lunghe notti, dissuadendola dal morire; ma lei a me non credeva più» (119). «Bisognava persuaderla che invece vi era in lei (...) qualcosa che non esiste e non esisterà più in nessun altro punto dell'eternità... qualche cosa di più immenso della più immensa stella (...). Il suo grido tagliò in due il cristallo del cielo, arrivò lontano» (120).

    La beffa di Croz e l'espiazione finale

    Così tradito da questo crollo interiore, Cust finisce per scoprirsi proprio di fronte al suo nemico capitale, Croz.
    Croz, fingendosi in fin di vita, riesce a strappargli una piena confessione. Ma per un amaro scherzo del destino, viene improvvisamente colpito da un vero attacco mortale della sua malattia. In perfetta coerenza col cinismo che ha contraddistinto tutta la sua vita, gioca un'ultima paradossale beffa ai colleghi che disprezza e alla giustizia in cui non ha mai creduto: davanti al Consigliere Inquisitore si dichiara colpevole della corruzione, scagionando, sul punto di morire, sia Vanan che Cust.
    L'inquisitore Erzi, fin troppo ansioso di chiudere il «caso» senza ulteriori sconvolgimenti, pronuncia la sua sentenza liberatoria nei confronti di tutti i sospettati.
    Vanan, ormai psicologicamente distrutto, trova conforto in una forma di dubbia religiosità senile.
    Cust invece è nominato presidente e vede così coronata quell'ambizione che è stata all'origine di tutto il suo dramma personale. Il gesto assurdo di Croz gli pone sulle spalle l'ermellino; come lo stesso Croz aveva preannunciato, «quell'immondo guscio» trova «la sua degna lumaca» (114).
    Ma la sentenza di Erzi non può liberarlo dal pensiero sempre più lucidamente ossessivo della giovane vita stroncata di Elena: «Vanan, si tratta del viso insanguinato di vostra figlia! Io non riesco a vedere un ragionamento sulla terra che spieghi ciò» (125). Invano Erzi cerca di tranquillizzarlo, ricordandogli che da quel momento in poi, per la giustizia umana «ciò che fu fatto e ciò che non fu fatto saranno uguali» (126). Quando su tutta la vicenda potrebbe ormai calare il sipario dell'oblio e tutto tornare alla tranquillità quotidiana, Cust, definitivamente vinto dal rimorso, si avvia a confessare i suoi crimini all'Alto Inquisitore e a iniziare così una espiazione che nessuna giustizia umana poteva più chiedergli ma che una giustizia non scritta gli imponeva dal di dentro con forza non più resistibile: «Perchénessun ragionamento al mondo potrebbe permettermi stanotte di chiudere gli occhi tranquillamente. Dovrò svegliare l'Alto Revisore. Devo confessargli la verità. (...) Ho un po' di paura. Ma so che non può aiutarmi nessuno» (127-128).

    B. DEBOLEZZA E INVINCIBILITÀ DELL'ISTANZA MORALE

    Il carattere convenzionale del diritto nella società moderna

    Come si vede, Corruzione al palazzo di giustizia può esser letto come una parabola dei rapporti complessi che intercorrono tra il diritto (simboleggiato in quella forma istituzionalizzata di tutela del diritto che è costituita dal potere giudiziario) e la morale.
    Da un punto di vista puramente formale, l'ordine giuridico e quello morale presentano così evidenti somiglianze da trarre facilmente in inganno circa la loro vera natura e la specificità che li contraddistingue.
    L'ordinamento giuridico costituisce, nelle società civili moderne, con la sua struttura normativa e il suo carattere prescrittivo, una specie di reduplicazione o di parallelo dell'ordine morale. E l'uno e l'altro si esprimono in un insieme armonico e articolato di imperativi e di proibizioni generali, aventi come scopo la tutela di una certa concezione della giustizia.
    L'intreccio tra i due ordini è così fitto e inestricabile che presso molti popoli e all'interno di molte culture, essi finiscono davvero per sovrapporsi e identificarsi. In una situazione culturale di questo genere, sia il diritto che la morale traggono la loro forza vincolante dalle stesse consapevolezze: non soltanto quella delle esigenze contingenti e relative della convivenza umana, ma anche quella di una certa visione unanimemente condivisa delle esigenze assolute della natura dell'uomo: sia il diritto che la morale si presentano come radicati nella verità immutabile dell'uomo: possiedono, sia pure in grado e con modalità diverse, le caratteristiche di una «legge naturale».
    Ma con l'emergere di una cultura complessa e diversificata, contrassegnata, come è la nostra, da un irreversibile pluralismo religioso e ideologico, i due ordini divergono sempre più nettamente, in modo tale che i reciproci confini si fanno sempre più marcati e invalicabili.
    Ma l'ordinamento giuridico perde in questa divaricazione la sua legittimazione originaria, che era ultimamente di natura morale e comportava una certa convinzione circa ciò che era ritenuto giusto o ingiusto in se stesso, al di là di ogni relativismo etico. In una società che, non possedendo più una visione unanimemente condivisa della verità ultima dell'uomo, non crede più nella possibilità di identificare il giusto e l'ingiusto in sé, il diritto diventa una «convenzione» nel senso più letterale della parola, cioè il risultato di un fragile accordo tra le parti sociali e di un discutibile e provvisorio compromesso tra i loro interessi contrapposti: il diritto non è più qualcosa di naturale, ma qualcosa di positivo, posto in essere non dalla natura dell'uomo, ma dalla sua contingente volontà «positiva»: è appunto ciò che in filosofia del diritto si chiama «positivismo giuridico».
    Il positivismo giuridico è evidentemente la filosofia cui ci si ispira all'interno del palazzo, nel dramma di U. Betti.
    Nessuno esprime meglio del cinico Croz il collasso di legittimazione che nasce, per l'ordinamento giuridico, da questa perdita di «fondamento etico»: staccate da ogni certezza morale, le leggi restano appese al nulla, alla «convenzione», cioè a qualcosa di arbitrario; esse non hanno più la forza di costringere in coscienza i «sacerdoti del diritto», saldamente insediati nel palazzo e padroni assoluti di tutti i suoi complicati meccanismi. Questa è la vera causa della corruzione che corrode il palazzo: i giudici, come dice Croz, «fanno giustizia. Cioè essi esprimono il parere che certe azioni siano giuste ed altre no. Come una salsiccia è appesa a un'altra salsiccia, così questo parere è appeso a dei codici... ben rilegati... e questi codici... via via, ad altri codici e leggi e tavole... sempre più antiche (...). L'inconveniente è che manca il gancio principale, l'uncino originale... Mancando il quale... ecco tutta la fila di salsicce per terra! Ma dove, ma come, ma quando? Chi è stato a stabilire che una cosa è giusta e l'altra no? Noi sappiamo benissimo che le cose... sono quelle che sono, tutte uguali. Ecco perché noi giudici siamo tutti ipocriti, tutti pieni di salsicce irrancidite! Ecco qual è la vera corruzione di questo palazzo» (115).
    Naturalmente questo relativismo finisce per annientare la stessa morale: il giudice non potrebbe essere padrone assoluto del diritto fino che restasse sottomesso alla coscienza; così alle stesse leggi morali non viene riconosciuta altra assolutezza che quella di una convenzione arbitraria, anche se questo comporta la fine del valore assoluto dell'uomo e della sua dignità: «Credo che se noi... ci mettessimo a considerare vergognoso il portare dei calzini (ride) di colore grigio... noi, dopo aver portato dei calzini di colore grigio proveremmo rimorso e vergogna. Non c'è altro. Non credo che qualche cosa resti di noi» (114).
    Ma se la legge non ha altro fondamento che la volontà del legislatore che si limita a sancire un compromesso provvisorio tra i formidabili interessi delle forze che lottano nella società, la legge stessa potrà imporre a questa lotta solo una tregua instabile e di facciata. Le forze sociali premeranno continuamente contro l'ordinamento giuridico per piegarlo a proprio favore.
    Sottoposto a queste pressioni non sarà soltanto il legislatore, ma anche quel corpo separato che nello Stato moderno (caratterizzato appunto dalla «separazione dei poteri») costituisce il potere giudiziario, simboleggiato nel dramma dal palazzo di giustizia.

    Forza e debolezza dell'ordinamento giuridico

    L'autonomia di cui esso gode rispetto agli altri corpi dello Stato, il fatto che solo dal suo interno può essere pronunciata l'ultima parola nel campo dell'amministrazione della giustizia, ne fanno un mondo a sé, una centrale di potere insindacabile. Ne è simbolo la sua architettura interna complicata e labirintica, che lo rende incomprensibile e inaccessibile agli estranei: nel dramma è descritto come «un palazzo immenso, vero labirinto» (24).
    Ma proprio per questo, esso è esposto a tutte le pressioni e i ricatti degli interessi particolari che si contrappongono nella società: «Sapete caro Erzi - dice ancora Croz - cosa siamo noi poveretti, noi infelici giudici di questa sezione, sicuro, la sezione delle grandi cause? Un piccolo, solitario e malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, blocchi ferrei, manovrati da uomini tremendi...» (38).
    Di fatto quella stessa società che dà un potere così insindacabile ai giudici, non fornisce loro quella forza morale di cui essa stessa ha perso il segreto.
    Divisi da miserabili gelosie di mestiere, da insanabili conflitti di carriera, i giudici non trovano nella loro coscienza la forza per resistere a queste pressioni: «Il guaio è che fra codesti ferrei blocchi, circolano invece dei gusci piuttosto fragili, che vanno in frantumi per nulla...» (38).
    Il giudice che ha avuto anche una sola prima debolezza resta esposto al ricatto, diventa schiavo dei potentati economici e politici; a essere falsata allora non è più soltanto la giustizia formale delle leggi, ma anche quella sostanziale che esse dovrebbero tutelare: tutta l'atmosfera del palazzo ne è corrotta: «Fu così - come intuisce Erzi -che quel giudice pose a servizio di un padrone e dell'ingiustizia una mente acuta e dominatrice. Falsò decisioni, tradì segreti, alterò destini umani; sparse qui un turbamento che presto inquinò l'intiero palazzo; condusse la ferrea ruota della giustizia su molti innocenti. Persino l'omicida può immaginare di essere un giustiziere. Ma il nostro uomo sapeva bene di falsare la sacra bilancia della giustizia» (66).
    Il potere e l'abilità di questi padroni della giustizia è tale da renderli pressoché impunibili; il Palazzo, di cui essi conoscono tutti i meandri segreti, è la loro difesa: «Sono stanze molto quiete. Vi siedono uomini dal viso malaticcio, proprio di chi vede raramente il sole. Per lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, essi hanno esaminato azioni umane di straordinaria sottigliezza e perfidia. La loro esperienza è immensa. La gente vede oltre il tavolo dei signori un po' logorati e cerimoniosi. Ma in realtà (...) sono dei lottatori. (...) Generalmente hanno il sonno difficile (...) e così covano le loro idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi. (...) Difficile coglierli in fallo» (64).

    La «memoria corta» del Palazzo

    Essi possono oltretutto contare sulla labilità della memoria ufficiale del Palazzo.
    L'archivio-cimitero è lo strumento e il simbolo di questa memoria corta: «Io sarei il becchino - dice in proposito l'archivista -. Questo (battendo sulla cassa a rotelle) è il carro funebre, questi (mostra i fascicoli) sono i cadaveri». «E il cimitero?» chiede uno Sconosciuto. «È l'archivio, signore. Un posto piuttosto oscuro e tranquillo, dove io porto questa roba e le do sepoltura» (24-25).
    «Quando penso alla quantità di sudori, soldi e sospiri che stanno racchiusi nella più stupida delle carte che formano il più piccolo di questi fascicoli! Ma! Io ci incollo su un bel numero, li registro in un bel librone, così la gente fa finta di credere che tutto ciò resti importante per saecula saeculorum, e si possa sempre ritrovare il filo di tutto» (25).
    Lo stesso Cust non avrà bisogno di trafugare o distruggere le carte che lo compromettono. Gli basterà averle seppellite «in fondo a montagne e montagne di altri fascicoli e carte» (97).
    Del resto, al di là dell'archivio-cimitero c'è un altro cimitero ancora più definitivo: il macero: «Se da quella porta là entrassero sempre carte, per quanto sottili, e non ne uscissero mai; (...) a quest'ora sopra la crosta della terra non ci sarebbero altro che fogli; e il mare dei fogli seguiterebbe a crescere verso la luna. Per fortuna tanto entra di lì e tanto ne esce. Come tutto il resto. Il cimitero più cimitero di quello lì si chiama macero» (107-108).
    Del resto la giustizia dello Stato non si propone di colpire a ogni costo l'ingiustizia o di realizzare una perfetta restaurazione della giustizia offesa, che sarebbe di fatto impossibile.
    Quello che essa cerca è la tutela o la restaurazione dell'ordine esteriore, del compromesso che rende vivibile la società: «L'amministrazione - come dice Erzi - è un fatto umano; il suo compito è di appianare e non di scavare e mettere sossopra. (...) Ciò che fu fatto e ciò che non fu fatto saranno uguali» (126).
    L'istituto giuridico della «prescrizione» è lo strumento ufficiale e insieme il simbolo di questa fretta di «appianare»: «Ma è il tempo, cari amici - dice ancora Erzi - che restaura tutte le offese e uguaglia le cicatrici. (...) Le cose hanno fretta, camminano. Il sasso va in fondo, l'acqua torna quieta. Croz è morto. Ludvi-Pol è morto. (...) La città già s'occupa d'altro. (...) Fra poco, mentre il giorno crescerà sull'incantevole lago della vita, nuovamente pacifico ed azzurro, noi ce n'andremo a letto, sicuri che la cosa qui nel palazzo... è di nuovo in buone mani» (123).

    La forza dell'istanza morale

    Eppure, per quanto praticamente invincibile dall'interno di quell'ordinamento giuridico che egli padroneggia con estrema competenza e spregiudicatezza, Cust nasconde dentro di sé una segreta fragilità che, alla fine, lo costringerà alla resa senza condizioni.
    Egli lo ha intuito fin dall'inizio. A Erzi che gli chiede che cosa potrebbe, nonostante tutto, tradire il colpevole: «Questo - egli risponde -: che gli uomini sono un po' gracili; e invece ciò che essi fabbricano, pensieri... leggi... delitti... è troppo pesante per le loro spalle» (67). E riferendosi all'ipotetico colpevole, ma descrivendo in realtà la sua situazione: «Credo che i veri pericoli siano dentro di lui. (...) Non ne può più e vuol fuggire... fuggire... magari essere sepolto, morto; è la fuga più completa» (71).
    Qui emerge una differenza fondamentale tra il diritto e la morale. Assolutamente priva delle risorse di cui dispone il Palazzo e gli uomini che vi si muovono da padroni, l'istanza morale ha una sua forza diversa, che avrà alla fine la meglio sull'apparente invincibilità del potere e del sapere. È la forza del disagio crescente che nasce dalla consapevolezza della colpa, cioè dal versante negativo dell'esperienza morale.
    Invano i nostri giudici cercano di tacitare questa voce attraverso le astuzie di una tortuosa «razionalizzazione». Invano cercano di convincersi che nessuno può pretendere giustizia da un Palazzo immerso nel lago dell'ingiustizia di questo mondo, segnato dal peccato, che la colpa ultima è della «città infame, infetta» (27). «Sì, un vero immondezzaio - dice uno di essi -. Il curioso è che esso ribolle d'indignazione perché, nel bel mezzo del suo fetore, esiste un pala77o dove l'aria non sarebbe... abbastanza balsamica. Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe... di somigliare un tantino ai cittadini» (28).
    Il cinico Croz ha seppellito ormai da troppo tempo l'istanza morale sotto il peso di queste razionalizzazioni, così che nulla lo può più far riemergere, ed egli porterà intatta fino alla tomba una sfiducia totale in ogni valore morale, come del resto in ogni possibile senso dell'esistenza umana: «Non credo che qualcosa resti di noi - è la sua ultima professione di fede -; staremmo freschi se davvero... qualche cosa potesse distillarsi da un tale cumulo di grullerie» (114).
    Ma proprio questa sfiducia totale lo ha già ucciso «dentro» prima ancora della sua morte fisica. Negare l'istanza morale in questo modo così radicale è lo stesso che negare l'uomo: «E difatti, perché mai, in che modo, a un dato punto di questa catena dovrebbe spuntare fuori qualcosa di autonomo? Dico la nostra anima. Delresto, tutto ciò... sta già rapidamente cessando di interessarmi» (116).
    Ma per Cust non è così. Qualcosa ha definitivamente risvegliato in lui la coscienza e non è più in suo potere il farla tacere.
    Anticipando il linguaggio e le intuizioni di E. Levinas, U. Betti identifica l'innesco di questa riemergenza dell'istanza morale con l'apparizione del Volto. È stato il volto fresco, innocente, disarmato di Elena, quel volto che la morte ha subito sfigurato, a ridestare la coscienza morale di Cust.
    Il volto dell'innocenza inerme che domanda giustizia è diventato il volto del rimorso. Cust non riesce più a dimenticarlo; così non riesce a far tacere l'urlo che ha accompagnato il cadere del corpo della ragazza nella tromba dell'ascensore: «Il grido di quella ragazza Croz! Io l'ho studiato! È difficile dire cosa voleva; si possono fare diverse ipotesi. Uuuuh! Così ha gridato! Uuuuh! L'idea che mi sono formato... È come se esso avesse graffiato qualche cosa, un graffio in un vetro... uno di quei graffi da cui escono goccioline di sangue. Ogni tanto una gocciolina. Sembra finito, si guarda: ed ecco ancora una gocciolina. Sì, un graffio. Sangue» (112).
    Quello stillicidio implacabile è il segno che l'Istanza Morale non conosce la figura della «prescrizione»; non cerca l'appianamento, ma la restaurazione della giustizia offesa, fosse pure soltanto attraverso il riconoscimento e l'espiazione della colpa da parte del trasgressore.
    Ma il Volto inerme dell'Altro e l'urlo della sofferenza che reclama giustizia non sono ancora l'istanza morale in se stessa, ma solo le condizioni del suo emergere (o riemergere) dalle profondità del cuore umano; sono lo schermo su cui appare, più o meno nitida, più o meno a fuoco, la figura di quell'Alto Revisore che, al termine della «lunga scala che sale», su cui si chiude il dramma, attende ogni uomo per la confessione finale della verità, che finalmente lo libererà dal peso insopportabile del rimorso. La realtà di cui è simbolo questo Alto Revisore, questa garanzia ultima della invincibilità dell'istanza morale, è appena intuibile tra le righe di questo dramma.
    Solo nelle ultime opere, uscite postume, del nostro autore (come Acque turbate, L'aiuola bruciata, e La fuggitiva) la figura di questo Alto Revisore assumerà il nome e il volto di Dio e apparirà in tutta la sua chiarezza, non soltanto come fondamento ultimo dell'ordine morale, ma anche come speranza suprema dell'uomo.

    NOTE

    5 U. BETTI, Corruzione al Palazzo di Giustizia, Cappelli, Bologna 1957. Tutte le citazioni nel testo riportano tra parentesi la pagina di questa edizione del dramma.


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