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    Inquietudine e fedeltà

    nel dramma:

    «La fame e la sete»

    di E. Ionesco

    Guido Gatti

     


    A. LE AMBIGUITÀ DELL'INQUIETUDINE

    Inquietudine e fedeltà

    In un certo senso l'inquietudine e la fedeltà sono qualità umane che si contrappongono e si escludono.
    L'inquietudine è la ricerca febbrile e inesausta dell'ulteriore, la fedeltà è la capacità di portare fino in fondo, nel tempo della vita, l'attaccamento a valori e o persone, cui ci si è dedicati una volta per tutte.
    L'inquietudine è spinta dalla forza del desiderio inappagato e inappagabile a cercare sempre nuovi oggetti d'amore, a fare nuove esperienze; la fedeltà accetta di porre un limite all'infinità del desiderio per poterlo rendere costruttivo; l'inquietudine aspira all'estasi della felicità e, non potendo trovarla in nessuna realtà accessibile e concreta, continua a ricercare senza sosta, rifiutando sdegnosamente di contentarsi del parziale e dell'imperfetto; la fedeltà accetta di fermare l'illimitatezza del desiderio sui valori possibili, pagando col prezzo della rinuncia all'estasi il raggiungimento di una felicità limitata ma accessibile, difficile ma reale.
    La nostra cultura, forse perché suggestionata dall'allucinazione dell'onnipotenza tecnologica e dal mito del Grande Progresso Illimitato, ha perso il senso del limite e la capacità di accettarlo, e nell'alternativa tra fedeltà e inquietudine privilegia di gran lunga la seconda. E i giovani, che di questa cultura sono le antenne più sensibili, sono spesso le vittime predestinate di una specie di culto adolescenziale dell'inquietudine, e sembrano diventati del tutto incapaci di cogliere il valore della fedeltà.
    La ricerca incessante dell'esperienza per l'esperienza, della novità per la novità, l'incapacità di impegnarsi in maniera definitiva in quello che si chiamava una volta uno «stato di vita», ne sono i segni più evidenti.
    Per quanto minacciosa per la serietà dell'impegno morale e per la consistenza stessa della vita psichica e sociale, l'inquietudine gode spesso, anche in campo cattolico, di una valutazione positiva che ci sembra non tenere abbastanza conto della sua ambiguità.
    Si è troppo facilmente portati a vedere in essa il segno di un non-essere-ancora-arrivati, che sembra lasciare aperta la ricerca a un possibile approdo in Dio, che è in fondo l'unico oggetto pienamente adeguato del desiderio umano e la risposta piena alla sua insaziabilità. Un discorso di questo tipo ha indubbiamente dalla sua una tradizione consolidata nella riflessione teologica e spirituale.

    Infinità del desiderio e ricerca di Dio

    Dopo aver affermato, proprio all'inizio e come a fondamento della seconda parte della Summa, dedicata alla morale, che l'unico fine adeguato dell'uomo è la beatitudine, cioè il bene perfetto che sazia completamente il desiderio umano, [1] san Tommaso passa in rivista, in una notissima sequenza che occupa per disteso la seconda e terza questione, tutte le possibili forme di beni umani desiderabili (le ricchezze, gli onori, la gloria, il potere, il piacere), per escluderle l'una dopo l'altra dalla realtà di «ultima e perfetta beatitudine» e per concludere che essa può consistere per l'uomo solo nella visione dell'essenza divina, bene infinito, capace di appagare definitivamente la smisuratezza del desiderio umano.
    È facile vedere in questa sequenza l'equivalente di non poche forme concrete di itinerario spirituale attraverso cui tante anime grandi sono passate dal disgusto progressivo dei beni.parziali e limitati di questo mondo alla ricerca di Dio.
    Sant'Agostino aveva già detto la stessa cosa con una espressione concisa ma felice, che suona come l'apologia più nota dell'inquietudine esistenziale: «Fecisti ad te Deus et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». [2]
    Questa frase di sant'Agostino e il suo coerente sviluppo nella citata sequenza della Summa sono state utilizzate infinite volte nella letteratura religiosa come forma di apologetica dell'esperienza religiosa stessa.
    Se il desiderio dell'uomo può placarsi solo in Dio, è perché l'uomo è fatto per lui. L'esperienza religiosa che cerca una risposta a questo bisogno di Dio è in fondo la tendenza più originaria e più insopprimibile dell'uomo, l'unica risposta adeguata a quel bisogno di felicità .che sta al fondo di ogni suo desiderio. Se l'esperienza religiosa resta da un lato ineffabile e misteriosa, proprio perché culminante nell'indicibilità e non sperimentabilità diretta di Dio, essa trova dall'altro la sua giustificazione più razionale proprio nella struttura dell'uomo, costituzionalmente assetato di infinito.
    L'inquietudine sperimentata da chi non ha ancora riposto la sua felicità in Dio (posseduto per ora nella speranza), il disgusto sperimentato di fronte a ogni altro bene finito è un richiamo continuo a Dio, l'eco di una sua chiamata e, per chi alla fine lo troverà, la pedagogia che di fatto lo conduce a lui: l'inquietudine che attraversa tanta parte dell'attuale cultura soprattutto giovanile non sarebbe quindi altro che il segno del persistere di un bisogno e di una chiamata che non potrà non sfociare alla fine in una risposta e in un ritrovamento.

    L'infinità del desiderio come motore dell'impegno morale

    Non fa meraviglia quindi che si veda spesso nell'insaziabilità del desiderio umano la forza psichica che sostiene l'impegno etico, almeno nelle sue forme più elevate, quando cioè tale impegno non è più vissuto sotto il segno dell'eteronomia e della divisione interiore, ma come fatto di coerenza consapevole con le proprie libere scelte di fondo per i valori.
    Fare il bene non è più subire un'imposizione, ma indovinare ciò che veramente si desidera e che non si può non desiderare perché è ciò che conduce (e non per accidens, a titolo di remunerazione estrinseca, ma per logica interna e per forza di cose) alla pienezza della vita e della felicità.
    Diventare buoni, crescere nella virtù, educare gli altri al bene non è fare una qualche violenza alle tendenze più profonde dell'uomo, ma educarsi ed educare a desiderare di più e con più saggezza. Nessuna strategia sarà tanto efficace nel campo dell'educazione morale quanto il mantenere viva e tormentosa quell'inquietudine che può placarsi solo nel possesso di Dio e nell'attuazione di quel bene morale che vi conduce.
    Il concetto di infinito è, come si vede, fondamentale in questa visione dell'esperienza religiosa e morale. Infinito è il desiderio umano (e l'inquietudine che lo rivela) e infinito è Dio, unico oggetto adeguato di questo desiderio.
    Ma si tratta di due infiniti molto diversi. L'infinità di Dio è pienezza attuale di essere e di vita, una pienezza che resta sempre altra rispetto a ogni nostra esperienza e che durante questa vita possiamo abbracciare solo nella penombra della fede, «per speculum, in aenigmate» (1 Cor 13,12).
    L'altro infinito, quello del nostro desiderio e dell'inquietudine che ne è il corrispettivo, è tutto e solo dentro di noi e segna la nostra vita alla maniera di una potenzialità soggettiva che nulla ci assicura debba essere di fatto attuata. Che il nostro desiderio possa acquietarsi solo in Dio non prova ancora che esso un giorno lo possederà davvero come sua sazietà piena.

    Le ambiguità dell'infinito e dell'inquietudine umana

    In quanto fatto della soggettività, l'inquietudine del cuore umano è qualcosa di unico e di irripetibile per ogni storia di vita; come tutti gli eventi psichici assume le fisionomie più diverse e resta perciò fondamentalmente ambigua, passibile di significati diversi e perciò di interpretazioni contraddittorie.
    L'infinità del desiderio umano può essere vissuta e interpretata come segno della costitutiva vocazione umana al divino, ma anche come sintomo di un patologico disadattamento psichico. Può essere vista come il vestibolo dell'esperienza mistica, ma anche come una nevrosi.
    Del resto non è mai mancata nella storia del pensiero una certa profonda diffidenza del concetto stesso di infinito, una specie di horror infiniti. E molti ritengono che debba per lo meno essere riconosciuta, accanto a una nozione «buona» o «vera» di infinito, corrispondente all'infinito personale ma ineffabile di Dio, una nozione «falsa» o «cattiva» dell'infinito, l'infinito vuoto della indeterminatezza assoluta; e per conseguenza, accanto alla «buona» inquietudine che conduce a Dio, una «cattiva» inquietudine che non conduce da nessuna parte.
    «Il concetto di infinito, di ápeiron, così come è stato introdotto nella riflessione filosofica di Anassimandro, almeno nell'interpretazione che di esso ci offre Aristotele, appare più prossimo a quello contemporaneo di illimitato-indeterminato e di indefinito, piuttosto che a quello di infinito vero e proprio. Ad esso infatti sono associate le idee di incompletezza, di mancanza di forma, di potenzialità non attuata e non attuabile e quindi, di fatto, di non esistenza». [3]
    Ma la falsità dell'infinito non resta confinata al livello della sua nozione; non è solo un errore della mente nella elaborazione di un concetto; essa può contagiare l'illimitatezza del desiderio umano e pervertirla in nevrosi impotente e distruttiva. È il ripetersi sterile del conato senza senso, espresso nel mito di Sisifo, l'inquietudine come segno di un costitutivo maladattamento del desiderio umano alla condizione reale dell'uomo: «L'illimitato è il luogo del desiderio che ha rotto gli argini del limite... inseguendo il folle sogno di una potenza infinita». [4]

    Senso del limite, fedeltà e felicità possibile

    In questo caso il segreto della felicità possibile non starebbe forse nella vittoria sull'illimitato, nell'accettazione volontaria del limite del desiderio?
    Qualcosa di simile avviene nell'ambito del linguaggio, dove solo la limitazione del senso è condizione di comprensibilità e di comunicazione: «Nel momento in cui una lingua rinuncia ai limiti che la imprigionano e che operano la selezione delle frasi e dei testi possibili, essa cessa di esistere come tale per trasformarsi in un rumore». [5]
    Allo stesso modo, nell'ambito del desiderio, la limitazione consapevole della tensione della volontà nel campo finito delle possibilità umane, la fedeltà alle proprie scelte, nonostante i loro limiti, sarebbe l'unica condizione possibile di una felicità limitata ma reale.
    Solo accettando il limite della fedeltà, il desiderio potenzialmente illimitato diverrebbe creativo: «Il desiderio nel momento in cui rinuncia a se stesso per quietarsi nel sacrificio del limite e del valore, diventa una forza d'amore che fa esplodere ed espandere il sogno reale della vita». [6]

    B. LE SUGGESTIONI DI UN TESTO POETICO

    Il valore cognitivo dei simboli

    Soffermandoci su queste considerazioni, ci è tornata alla memoria la lettura di un dramma di E. Ionesco, La fame e la sete, [7] in cui ci sembrava che intuizioni di questo genere fossero presenti allo stato di simbolo che attendeva una decifrazione illuminante e arricchente. Ed è quello che abbiamo cercato di fare nelle pagine che seguono, convinti di avere trovato nel dramma di Ionesco l'espressione poetica e nascosta di una verità che meritava di essere approfondita.
    Il simbolo si potrebbe definire come un'entità linguistica, in senso lato, capace di evocare, anche al di là di quanto direttamente dice, gli aspetti più misteriosi dell'esistenza umana, ciò che di non immediatamente percepibile, dicibile, razionalizzabile, la fascia da ogni parte. [8]
    Le esperienze più profonde dell'uomo, come quella morale o religiosa, sono spesso dette meglio attraverso simboli o parabole piuttosto che attraverso proposizioni logiche. Ma a differenza del mito o della parabola, il simbolo, e in particolare quello contenuto nell'opera d'arte, dice il suo riferimento al mistero della vita solo in modo allusivo e ambiguo, lo evoca in maniera debole. Solo l'insistenza del suo ripetersi convergente lo rendono parzialmente traducibile nel linguaggio logico.
    In compenso, spazia molto lontano, non nel campo dell'etica normativa ma della metaetica, non in quello della dogmatica ma in quello della mistica.
    Il luogo privilegiato del simbolo è spesso l'opera d'arte. Ma la decrittazione logica del simbolo è guardata, a torto ci sembra, con sospetto dall'estetica e dalla critica d'arte. Le si rimprovera di introdurre nell'arte un intento didattico che la appesantisce e la adultera, riducendola a sforzo di persuasione o a propaganda ideologica.
    Ma quanto più l'opera d'arte raggiunge i vertici della vera creazione poetica, tanto meglio essa diventa capace di esprimere il mistero della vita in termini simbolici, traducibili nel linguaggio della riflessione sapienziale, senza violenze o forzature.
    Il vero capolavoro integra pienamente in sé l'autonoma consistenza poetica dell'arte e l'apertura cognitiva sulla realtà profonda dell'uomo, propria della riflessione sapienziale; l'opera d'arte resta autonoma nel suo ordine ma insieme aperta al mistero in cui l'uomo è radicato, capace di dire nel suo linguaggio l'indicibile della vita umana. Essa non perde nulla in questo suo aprirsi, in modo non forzato e artificioso ma per sua interna esuberanza e per la logica evocativa della sua potenza creatrice, sul mondo misterioso dei significati della vita che attrae come vortice irresistibile ogni forma di discorso umano che abbia il coraggio di essere autentico e veritiero fino in fondo.
    L'ermeneutica sapienziale del dramma di Ionesco in cui ci cimenteremo cercherà di liberare la forza evocativa del simbolo poetico espressa nel dramma stesso e di tradurla in una forma di discorso riflessivo e didattico. Riteniamo che una simile operazione interpretativa sia del tutto lecita e che, lungi dal tradirne la potenza poetica, ne riveli meglio la pregnanza di significati, fosse pure al di là della stessa intenzione esplicita dell'autore. [9]

    La fame e la sete

    L'azione del dramma, oscura e poco lineare, troppo lontana da ogni situazione reale di vita, come spesso si verifica in lonesco, non lascia pensare a una vera e propria parabola della vita, facilmente leggibile come tale.
    Il dramma appare piuttosto come un fascio fittamente intrecciato di simboli che si richiamano a vicenda e convergono nella evocazione di una esperienza umana universale e misteriosa, l'insaziabilità del desiderio umano, il ruolo che esso gioca nella vita dell'uomo, le speranze che suscita, le delusioni e l'impotenza che sembrano alla fine renderlo assurdo e insensato.
    I simboli centrali di questo desiderio sono indicati già nel titolo del dramma: la fame e la sete. Fame e sete sono bisogni vitali che scatenano il desiderio nella sua forma più elementare e urlante. Con la fame e la sete non si può patteggiare a lungo; dalla fame e dalla sete non ci si rende mai del tutto indipendenti. Saziate, rinascono sempre da capo e chiedono sempre nuovamente una gratificazione che non le spegnerà mai del tutto.
    «Ho sempre fame» dirà Jean, il protagonista del dramma. «Mangio ed è come se non mangiassi. Questo vuoto, questo vuoto che non riesco a colmare» (p. 320). «Il mio stomaco, un buco senza fondo; la mia bocca, un abisso dalle pareti di fuoco. Fame e sete, fame e sete» (290).
    La fame e la sete evocano quindi l'insaziabilità del desiderio umano, che tende all'infinito.

    La «cattiva» inquietudine nel protagonista del dramma

    Ma il dramma presenta l'infinito del desiderio in termini negativi, che ricordano l'àpeiron della filosofia greca, la non definibilità dell'oggetto, l'inquietudine scoordinata e senza mèta da parte del soggetto, incapace di dare un volto all'oggetto del suo desiderio; è insomma l'infinito vuoto della retorica dell'inquietudine, che fa dell'uomo un essere senza casa e senza memorie, sradicato dal passato, estraneo a ogni presente, libero da ogni legame ma condannato alla solitudine e al vuoto.
    La personificazione di questa condizione sarà Jean, il protagonista del dramma. Il primo episodio ce lo presenta alle prese con i muri angusti e limitanti di una casa e con i legami soffocanti di una famiglia. Mentre Marie Madeleine, sua moglie, vede in questa casa il mondo intimo e accogliente riscaldato dall'amore - «riscalderò la casa col calore del mio cuore» (260) -, Jean la soffre come una prigione tetra e miserabile.
    Egli ammette che, in fondo, non è poi peggiore di tante altre in cui la gente comune, rassegnata al suo destino, trova riparo e sicurezza. Ma egli non appartiene a questo genere di persone: «La maggior parte della gente sta bene nella melma, se ne nutre... Affare loro amare l'ombra o la notte (...). Io amo soltanto le case con i muri e i tetti trasparenti, o meglio ancora senza muri e senza tetti, in cui il sole entra a ondate di sole, in cui l'aria entra a ondate d'aria. Ah l'oceano del sole! l'oceano del cielo!» (259).
    Egli riconosce che la sua casa è abitata dall'amore e dalle sue gioie semplici ma tangibili, eppure vuole la felicità impossibile dell'estasi: «Non è la pace che voglio, non la semplice felicità, ho bisogno di una gioia travolgente, dell'estasi. In un ambiente come questo l'estasi è impossibile» (261).

    Marie Madeleine, la fedeltà dell'amore

    Invano Marie Madeleine cerca di risvegliare in lui le ceneri, forse solo sopite, di un amore più determinato, rivolto a persone concrete, a lei e alla figlioletta Marthe.
    Per Marie Madeleine, che è in questo la controfigura perfetta di Jean, questo amore basta a riempire la vita: «Purché sia con te non ho paura di morire. Se faccio un passo e posso toccare la tua mano, se sei nella stanza accanto e posso chiamarti e tu mi rispondi, sono felice» (261). Essa non immagina neppure che si possa desiderare qualcosa di diverso da questa gioia. Per questo non è in grado di capire Jean e si tormenta inutilmente per la sua incomprensibile inquietudine: «Perché mai non gli piace mettere radici?» (272). «Chissà perché non puoi vivere come tutti gli altri? Ti manca sempre qualcosa» (260).
    Per lei non esiste un «altrove» rispetto a questo nido riscaldato dal suo amore; essa trova assurdo il bisogno di evasione di Jean:
    «Dove mai vuole andare a cercare ciò che ha a portata di mano, che si trova ai suoi piedi?» (270-271).
    Essa non capisce come il legame dell'amore, che per lei è fonte di sicurezza e felicità, possa apparire a Jean una schiavitù: «Per l'eternità sono legata a lui; perché considera tutto ciò una catena?» (271).
    Per questo essa finisce per convincersi che un amore come il suo dorma, non abbastanza conosciuto, anche nel cuore di Jean: «Lo so che ci ami. Forse non abbastanza, forse non ne hai il coraggio, forse non lo capisci. Ma tu ci ami, io lo so. Non immagini il posto che occupiamo nel tuo cuore. Ah se tu potessi saperlo fino in fondo» (261).
    Ma Jean non crede che anche la fedeltà dell'amore richieda coraggio e possa far grande l'uomo; riconosce che la moglie e la figlia occupano un grande posto nella sua vita; ma crede che un amore così limitato e quotidiano non possa bastare alla grandezza della sua sete: «L'universo è ancora più grande, e ciò che mi manca ancora di più» (261).
    Il seguito del dramma dimostrerà che Marie Madeleine aveva ragione: Jean scoprirà troppo tardi la realtà, la nobiltà e la felicità dell'amore che realmente si nascondeva in lui.

    La fuga verso la felicità impossibile

    La casa è quindi per Jean il simbolo della schiavitù dorata del quotidiano, della calcolata rinuncia all'infinito. Una rinuncia che lo tenta, ammantandosi di virtù; ma egli smaschera alla fine questa virtù in cui vede solo mediocrità; si sente troppo diverso dagli altri e resiste alla tentazione di una virtù rinunciataria: «A che pro partire? mi dice la stanchezza. Ma resta qui, ci stai bene, mi consiglia la vecchiaia. Tu soffrirai, mi avverte la prudenza. Tu farai troppo soffrire, mi dice la bontà. E i doveri? E gli obblighi? E questo vecchio radicato affetto? E la ragione? Non mi metteranno nel sacco (...). Loro non hanno osato (...). Il mio destino non è come il loro» (272).
    E quando alla fine del primo episodio, dopo il crudele e prolungato scherzo di una specie di gioco a nascondino, veramente e per sempre Jean se ne andrà di casa, Marie Madeleine si domanderà ancora incredula come egli abbia potuto strappare dal suo cuore l'amore: «Non è fatto per vagare nelle pianure deserte e grige. Come ha potuto lasciarmi? Come ha potuto decidersi? Di dove può essergli venuto il coraggio per andarsene? Ha proprio strappato il fiore dell'amore con lo stelo e le radici» (277).

    La felicità che non si vedeva

    Ma lo svolgimento del dramma darà alla fine ragione a Marie Madeleine. La quotidianità del suo amore aveva in sé il suo premio, una promessa di felicità che Jean con la sua impazienza non ha saputo vedere.
    Il primo episodio infatti termina con la scomparsa della parete di fondo. Al suo posto si vede un giardino: alberi in fiore, erbe verdi e alte, cielo molto azzurro e una scala argentea, sospesa in alto, di cui non si scorge la sommità. L'oceano di luce che Jean sospirava era appena di là dal muro di casa: «Lui non sapeva che c'era tutto questo - dice Marie Madeleine - non ha potuto vederlo. Io sentivo che c'era questo giardino. Ne avevo il sospetto (...). Se avesse potuto vedere, se avesse potuto sapere, se avesse avuto un po' di pazienza» (277).
    Jean dunque ha sbagliato in maniera radicale la decisione di fondo della sua vita. E sarà costretto a scoprirlo da solo, attraverso l'amarezza di infinite delusioni. Il «cattivo» infinito non mantiene nessuna delle sue promesse di estasi; esso si rivela sempre e dappertutto come vuoto e delusione. Ognuna delle tappe del suo lungo viaggio si risolve in una presa sul nulla.

    La donna senza volto

    La prima tappa di questo viaggio della delusione è centrata sull'attesa, vana e insensata, della donna astratta e ideale - una donna senza volto - di cui egli si illude invano di conservare una immagine o un brandello di memoria; un povero surrogato della donna «vera» che egli ha lasciato, perché incapace di fermare su di essa la sua fame e la sua sete illimitata.
    È l'attesa misteriosa che caratterizza il secondo episodio.
    Jean è giunto nel paese dell'astrattezza, della razionalità impersonale e vuota: «Una terrazza che pare sospesa nel vuoto, cielo cupo (...), luce fredda, senza ombre e senza sole. Sullo sfondo e tutto intorno aride montagne»: in scena due guardiani di un museo chiuso (281), il simbolo di una vita imbalsamata e ridotta a oggetto di collezione.
    Jean confessa di esservi giunto dopo essersi «smarrito nelle cose» (282). Egli si illude per un momento di avere toccato la sua mèta, anzi di essere tornato a una specie di paradiso perduto, di cui crede di conservare un ricordo indistinto e immaginario: «Tutte queste immagini erano fuggite da qualche parte nella notte della memoria. Ora mi ritornano ad una ad una; riemergono sempre più pure, in un certo senso lavate dalle acque di un oblio provvisorio (...). Sono estasiato come lo fui la prima volta» (282).
    Ma presto egli scopre che manca qualcosa alla sua estasi: essa non è condivisa; manca qualcuno: una donna misteriosa da cui egli crede di avere avuto un impossibile appuntamento: «Eppure nel mio cielo c'è una leggerissima nube; si dissolverà. Al fondo della presenza c'è un vuoto: il vuoto si colmerà. Certamente. Niente può impedirle di venire dal momento che ci siamo dati appuntamento» (283).
    Ma la donna misteriosa non viene. Ed egli non ricorda più l'ora dell'incontro; non ricorda il nome; non ricorda il volto. Non ha con sé una fotografia, nulla che permetta di identificarla. La sua figura svanisce man mano che si gonfiano le iperboli che dovrebbero descriverla: «È come una cappella in cima a una collina; no, un tempio che appaia all'improvviso in una foresta vergine; no, è lei stessa una collina, una valle, una foresta, una radura» (284).
    E così l'incontro «che è il più necessario degli incontri» (286) non potrà aver luogo e Jean ne resterà «per l'eternità mortalmente ferito» (287). Ed egli esprime nella sua delusione il senso negativo di tutto il suo cercare: «Ho cercato la pienezza e trovo la tortura. Avevo la scelta tra la serenità e la passione. Ahimè, ho scelto la passione. Folle che sono stato. Eppure ero al riparo; ben chiuso nella mia tristezza, nella mia nostalgia, nella mia paura, nei miei rimorsi, nella mia angoscia, nella mia responsabilità: al riparo (...). I muri sono crollati ed eccomi nel fuoco torrido della vita, nella lucida disperazione dello smarrimento» (288).
    Eppure egli considera ancora la sua scelta, in un ultimo sforzo di razionalizzazione, come una scelta di vivere, di rischiare la vita per cercarle un senso, al di là della miserabilità del quotidiano; sequesta scelta delude, la colpa è della vita stessa che è senza senso e senza sbocchi; esistono «motivi per non vivere (...) per non gettarsi nell'esistenza» (290).
    Ma egli ormai ha scelto; è impegnato in maniera irrevocabile e deve riprendere il cammino: «Continuerò fintanto che sarà notte, fintanto che sarà giorno, fintanto che ci saranno tramonti» (291).

    Il muro invalicabile

    Nel terzo episodio, i simboli si moltiplicano, ma si fanno più oscuri. La fantasia sbrigliata del poeta si sbizzarrisce ancora una volta in quella strana mescolanza di orrido e di comico che è caratteristica di tante sue opere.
    Ma tutti questi simboli sono dominati da quello del muro, un grande muro che sbarra la strada a Jean e sembra fermare il suo interminabile cammino. È il simbolo delle difficoltà che deve superare chi cerca, con inquietudine inesausta, il pieno appagamento del desiderio nella infinita varietà degli oggetti. Tale appagamento è difeso dal muro insuperabile della limitatezza di colui che cerca l'illimitato.
    C'è chi deride gli sforzi di Jean, che vorrebbe scavalcare o abbattere il muro; e c'è chi trova che il muro non è solo un ostacolo, ma anche una difesa: «Lei vuole passare sopra al muro, oppure abbatterlo; sapere che cosa c'è dietro. Che mania voler sapere tutto (...). I muri sono i nostri garanti. Abbattere un muro è rischioso (...). Il muro ci mette al riparo dall'impenetrabile, dal caos» (304). Anche se poi si è costretti a riconoscere che «l'impenetrabile e il caos li abbiamo qui» (304), dalla nostra parte del muro.
    Alla fine ancora una volta scompare il fondo; compare una vecchia sporca cucina che Jean attraversa per scomparire nel nulla.

    L'amarezza della delusione

    Il lungo viaggio ha termine quando Jean arriva a un curioso ostello dall'apparenza di falso monastero, dove viene finalmente rifocillato; ma gli è chiesto di confessare ai suoi ospiti, in maniera sempre più chiara e spietata (e l'interrogatorio ha l'aspetto di un processo inquisitorio), tutta l'inanità della sua ricerca.
    L'infinito non ha mantenuto nessuna delle sue promesse; si è risolto nel vuoto e nella delusione più amara. Al termine del suo viaggio, Jean ha ancora fame e sete più di prima; ancora più di prima sperimenta il senso del vuoto e il desiderio di continuare a cercare: «Me ne sono andato da un pezzo per le strade a conquistare il mondo. Sono esistite le strade, non è esistito il mondo» (291). «Debbo continuare il viaggio. Ancora tante cose da fare, da vedere, da imparare» (318). «Vorrei vedere tutto ciò che a causa della debolezza della mia vista non ho veduto (...), la bellezza che non ho ancora trovato (...). Mi resta da scoprire l'essenziale» (348).
    Il viaggio è durato quindici lunghi anni; l'inquietudine febbrile ha ceduto lentamente alla stanchezza, ma il desiderio non è mai stato appagato: «Tutto ciò che desideravo svaniva quando mi avvicinavo, tutto ciò che volevo toccare appassiva (...). Se provavo a bere alla più limpida delle fonti, subito l'acqua diventava impura, nauseabonda» (349). E i falsi monaci gli fanno eco, aggiungendo chiarezza logica all'espressione simbolica: «Per questo aveva sempre sete. Assetato e disgustato di tutto al medesimo tempo» (349).
    Il protagonista stesso si interroga, giunto a questo punto, prima ancora dell'apparizione finale di Marie Madeleine e del disinganno definitivo che questa comporterà, sulla sensatezza del suo interminabile cercare, sia pure tentando ancora un'ultima disperata difesa delle sue scelte, non prive di una loro magnanima nobiltà, pur nel loro fondamentale errore: «Perché questo buio? Dovevo subirlo? Dovevo rassegnarmi? Dovevo aspettare? Non dovevo aspettare più niente? Dovevo o non dovevo cercare sulle strade del crepuscolo e dell'autunno, alla ricerca di quella luce... di quei miraggi?» (350).

    L'assenza di memoria

    Un simbolo della totale inanità del suo cercare è il vuoto di memoria che inghiotte tutte le vicende disperate del suo peregrinare. Solo il limite che crea il senso, rende possibile la memoria.
    Ai falsi monaci che lo interrogano, ansiosi di conoscere ciò che egli ha visto nel suo interminabile viaggio, che sembra precluso allaloro (coatta?) sedentarietà, egli non sa ripetere che pochi brandelli di ricordi generici e banali, che svaniscono sempre più nel nulla, man mano che vengono evocati: «Che cosa ho visto? Che cosa ho visto? Oh tante di quelle cose che me ne ricordo a fatica. Tutto si ingarbuglia. Aspettate... aspettate... ho visto gente, ho visto praterie, ho visto case, ho visto gente, ho visto praterie... ah sì... praterie e ruscelli e rotaie... alberi...» (319).
    E ancora, sempre più incoerentemente: «Ho visto campagne, città, mustacchi, montagne. Che cosa volete che vi dica ancora? Mustacchi, ruscelli, cinture, tacchini, arance, camion, cannoni, ubriachi, uomini bianchi, gialli, neri, case rosse, case verdi, tende, ruscelli, tamburi... Ho sempre fame» (320). Tutte le cose sono indifferentemente irrilevanti per chi cercava l'infinito.

    Le pianure tetre e la nebbia dell'indistinto

    Un altro elemento di valore simbolico è la frequenza ossessiva con cui emergono dai suoi ricordi le immagini delle pianure e della nebbia, cioè dell'assolutamente monotono e dell'indistinto.
    Le pianure sono sempre «deserte e grigie» (277), sono «le pianure tetre degli incubi della realtà» (290): «Credetemi non c'era altro: la pianura tetra, la pianura grigia, la pianura deserta; a perdita d'occhio. Com'era lunga quella pianura!» (323). «Quali immagini la ossessionavano?» gli chiedono i falsi monaci del misterioso ostello; e Jean ripete ancora una volta: «Sempre le stesse: una pianura tetra, una pianura grigia, una pianura senza fine, nella quale i sentieri non conducono da nessuna parte» (324). Le pianure si susseguono, sempre uguali, tutte vuote e insignificanti come il nulla. Su di esse si stende a perdita d'occhio «la cattiva stagione» (272), «un giorno cupo e grigio» (319).
    È la nebbia dell'indistinto e dell'inconoscibile: «D'altronde debbo dire a mia giustificazione che sono passato attraverso regioni nebbiose; una nebbia spessa. Intravedevo appena la strada» (322). «Il giorno nasceva qualche volta (...). Scorgevo da lontano, al principio, prima di arrivare nelle pianure deserte, prima della nebbia che non è né giorno né notte, che sostituisce il giorno e la notte, ho scorto da lontano (...) lontano lontano, le fiamme delle fucine, gli altiforni incandescenti (...). Ho intravista qualche ombra... dei gruppetti... sì, gruppetti e ombre, poi più niente, nessuno. Era calata la nebbia» (323). «Di nuovo la pianura, poi una luce cruda... poi la nebbia è calata (...). Nella mia memoria... la nebbia è scesa» (324).
    Tutti i diversi aspetti della realtà, pieni di senso per chi li ha amati e vissuti, sono scomparsi dalla memoria di chi non ci ha mai trovato ciò che cercava; l'assenza di interesse e di rilievo ha prodotto la perdita della memoria.

    Il falso monastero

    Il misterioso ostello in cui si conclude il dramma è a sua volta carico di enigmi e di tetro, pauroso presentimento di tragedia. Si tratta di un «falso monastero» (e l'autore precisa che tale falsità «si deve vedere»), abitato da una sospetta congrega di falsi monaci.
    È una «casa molto antica» che «ha cambiato parecchie volte destinazione» e ora funziona da «istituto», governato da un «superiore» «anormalmente alto, vestito di bianco», cui tutti si riferiranno ma che non parlerà mai (314-315).
    Tutto il corso dell'episodio sembra suggerire l'idea che questo antico luogo di severe convivenze, dalle molte successive trasformazioni storiche, potrebbe essere il simbolo della società umana.
    È la società che dà cibo e ristoro alla fame e sete insaziabile del pellegrino, è la società che gli permette di soddisfare i suoi bisogni elementari. Ma non lo farà per niente. La società è fondata sulla contabilizzazione delle prestazioni reciproche, sul patto sociale. Essa fa mostra di una apparente magnanimità nei confronti del nuovo adepto; ma alla fine presenterà il suo conto e Jean lo dovrà saldare, sia pure controvoglia, e sarà un conto assurdamente pesante.

    I padroni dell'ideologia

    Ma il falso monastero è testimone di un altro simbolo amaro e conturbante. I falsi monaci improvvisano davanti allo sconcertato Jean una specie di recita nella recita, di dramma angoscioso all'interno dell'angoscia del dramma più grande.
    La recita sembra simboleggiare la prevaricazione ideologica della società, che approfitta dei bisogni e dell'indigenza del singolo per imporgli la schiavitù del dogma. La recita mostra un duplice parallelo processo di rieducazione nei confronti di due prigionieri, privati della libertà con due opposti pretesti ideologici, l'uno perché credente, l'altro perché ateo.
    «Immagini - dice fratel Tarabas, il factotum del falso convento - che ci siano tra di noi due individui che abbiano sofferto di traumi educativi o di formazioni progressivamente deformanti, se così posso dire. Arrivati dove sono, essi devono ripartire e fare il cammino in senso inverso (...). Si tratta del gioco dell'educazione-rieducazione» (325).
    E lo strumento di questa rieducazione è proprio la loro fame e la loro sete. Senza bisogno di dover mai promettere la libertà, considerata nella recita come una condizione pericolosa - «la vera prigione è l'alienazione dello spirito» (327) - e impossibile - «esiste solo la libertà provvisoria» (327) -, i monaci-carcerieri costringono i due carcerati a rinnegare le loro rispettive convinzioni, per poter avere la loro scodella di minestra: l'ateo avrà il suo cibo come ricompensa di una invocazione a Dio, il credente come premio della sua professione di ateismo.
    Essi imparano così la difficile arte del disimparare, necessaria per vivere in una società padrona dell'ideologia (328).

    L'esito amaro

    L'esito amaro dell'incluso recitativo prelude all'esito amaro di tutto il dramma.
    Quando appaiono sul fondo, separate da Jean soltanto da un'inferriata, Marie Madeleine con Marthe ormai giovinetta, immerse nella stessa luce di sogno che era apparsa alla fine del primo episodio, Jean capisce finalmente dove stava la vera felicità; una felicità senza estasi ma calda e affidabile come l'amore. Quello era il vero infinito cui, senza saperlo, aspirava.
    Ma ora egli è debitore al falso monastero del cibo e delle bevande ricevute. E per sdebitarsi inizia una lunga, assurda fatica, di cui sembra presumersi che non avrà più fine.
    Marthe e Marie Madeleine gli promettono comunque che lo attenderanno «fin quando sarà necessario (...), infinitamente» (355). E sull'indefinito allontanarsi del loro incontro si chiude il dramma.
    L'autore dà quindi, ancora una volta e definitivamente, torto all'inquietudine di Jean. Essa lo ha portato a sbagliare la scelta più decisiva della sua vita, o meglio gli ha impedito di scegliere perché gli ha impedito di rinunciare; egli non ha saputo mettere un limite alla sua fame e alla sua sete. Non ha voluto mettere un limite alla sua ingordigia di felicità, e ora è separato, forse per sempre, dall'unica felicità possibile, quella limitata ma determinata di un amore personale concreto.
    Proprio quando alla fine si era convertito all'amore, la felicità sembra allontanarsi indefinitamente da lui e risolversi in ultimo tragico miraggio.

    C. CONSIDERAZIONI FINALI

    Una messa in questione dell'inquietudine

    Il dramma, come si vede, è anzitutto una messa in questione della produttività e sensatezza dell'inquietudine umana; e non si può evitare, leggendolo, di ripensare all'inquietum cor nostrum di Agostino e chiedersi se l'obiettivo ultimo della denuncia di Ionesco non sia questo venerando luogo comune della tradizionale apologetica dell'esperienza religiosa e morale.
    Ma si tratta evidentemente di un equivoco. Il dramma non vuole e non può dire nulla sulla sensatezza o meno dell'itinerario concreto con cui gli uomini arrivano a Dio. Questo itinerario ha una componente che sfugge a ogni indagine puramente umana: è il dono gratuito che Dio fa di sé all'uomo. Su di esso l'autore potrebbe esprimere al più una discutibile opzione personale.
    Ma lo scacco che il dramma descrive, dal versante di una soggettività soltanto umana, è quello di un'inquietudine puramente negativa, fatta solo di incontentabilità e di inconsistenza. Naturalmente non è questa l'inquietudine di Agostino o il desiderio di beatitudine di san Tommaso. Per il fatto di non poter saziarsi che in Dio, il desiderio e l'inquietudine umana non conducono necessariamente a Lui.
    Per colui che non si lascia afferrare da Dio, l'inquietudine umana si risolve in un dramma senza sbocchi. Non basta il tormento delle successive delusioni. Esse possono moltiplicarsi all'infinito senza insegnare nulla all'ingordigia di chi cerca.
    L'infinito che è Dio non è la somma delle infinite esperienze senza senso del disadattamento umano: è l'infinito personale; noi possiamo cercarlo solo perché egli si è già offerto a noi, con una iniziativa liberissima e piena di amore, su cui noi non possiamo avanzare nessun diritto; e possiamo trovarlo solo incontrando questa sua reale offerta di sé in Cristo.

    Una apologia della fedeltà

    Ma il dramma di Ionesco è anche una coraggiosa apologia della fedeltà in una cultura in cui essa non gode di buona stampa.
    Il cattivo esempio del fanatismo acritico e irresponsabile dei gregari di partito o della retorica nazionalista e rivoluzionaria la espone addirittura alla condanna morale e alla ritorsione del ridicolo.
    Il fallimento sistematico di quella esperienza di soggettività cui imprudentemente si dà il nome di amore in una società che riconosce diritto di cittadinanza solo alla spontaneità del sentimento o alla insaziabilità del desiderio, sembra legittimare la negazione della sua stessa possibilità.
    Ionesco non dice che essa sia facile, ma solo che ad essa è promessa quella felicità possibile che è negata all'ingordigia del desiderio. Il credente, che sa vedere nella fedeltà ai valori un frammento ricomponibile della fedeltà al Valore, dovrebbe capire meglio di altri il carattere costruttivo della fedeltà.
    Il desiderio cristiano della beatitudine si chiama amore: è cioè l'incontro con una persona concreta cui ci si dà senza riserve e senza scadenze. Questo incontro, nel pellegrinaggio della vita, resta umbratile e imperfetto; solo nella fede possiede una promessa di compimento, capace di alimentare la gioia trepida ma fiduciosa di una speranza che non sarà delusa.
    E l'amore esige fedeltà; all'infinito assoluto di Dio; ma anche alI'infinito relativo dell'uomo. L'amore di Dio chiede di essere vissuto nell'amore dei fratelli. In loro, come il tutto nel frammento, si rende afferrabile un riflesso reale dell'infinità del Bene beatificante.
    Dietro il muro di ogni focolare, riscaldato dall'affetto e reso sopportabile, nella sua limitatezza, dalla fedeltà illimitata dell'amore, si nasconde la scala d'argento aperta sul cielo. Solo la nostra superficialità ce la nasconde; solo la nostra impazienza può farcela perdere.

    NOTE

    1 S. TOMMASO D'A., Summa Theologiae, I° II°, q. 2, a. 7.
    2 S. AGOSTINO, Le confessioni, I, 1, 1, ML 32,661.
    3 M. POLLO, Uomo, cultura e comunicazione. Temi di antropologia culturale, Piemme, Casale Monferrato 1986, 35.
    4 Ibidem, 39.
    5 Ibidem, 48.
    6 Ibidem, 48.
    7 E. IONESCO, Teatro, Einaudi, Torino 1961, vol. II, pp. 252-361.
    I numeri tra parentesi, che seguono le citazioni del dramma nel testo dell'articolo, sono i numeri delle pagine corrispondenti di questa edizione.
    8 «Immagini, miti, simboli sono significativi della relazione dell'uomo con l'essere, sono quindi una tappa obbligata della comprensione verso il "logos" che appunto si raccoglie nel concetto» (G. GRAMPA, La poetica nel pensiero di P. Ricoeur, in G. GALLI [a cura], Interpretazione e simbolo, Marietti, Torino 1984, 58). «Quello che il discorso poetico porta a parola è un mondo pre-oggettivo, entro il quale ci troviamo già radicati, ma anche un mondo nel quale già progettiamo i nostri possibili più propri» (Ibidem, 87).
    9 «Non è nemmeno lecito fermarsi a quel che gli autori pensavano delle loro stesse creazioni, per interpretare il simbolismo implicito in esse» (M. ELIADE, Immagini e simboli, Jaka-Book, Milano 1980, 27).


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