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    Il «Peer Gynt» di Ibsen,

    parabola della

    autorealizzazione

    inautentica

    Guido Gatti

     


    L'impresa morale, impegno di autorealizzazione

    La riflessione etica ha come oggetto diretto e primario il «dover essere» dell'uomo. Ma essa è insieme sempre anche una riflessione sull'essere dell'uomo. È nella verità dell'essere dell'uomo che si cerca il fondamento ultimo di quei valori e di quelle norme che costituiscono il suo «dover essere».
    Questo vale anche per la riflessione etica ispirata alla fede cristiana. Per quanto trovi il suo fondamento ultimo in Dio, nella sua volontà santa e nella sua sapienza infinita, essa ha sempre resistito alla tentazione di concepire questa volontà santa alla maniera di una volontà capricciosa e arbitraria, quasi che questa fosse il fondamento ultimo e unico delle norme e dei valori morali.
    In una visione di questo genere la ragione umana sarebbe esautorata di ogni compito valutativo nei confronti delle norme etiche: essa non avrebbe altri compiti che quello di riconoscere la volontà rivelata di Dio e in questa volontà la ragione unica e ultima del bene e del male: «Sit pro ratione voluntas»: la volontà di Dio sarebbe la ragione vera della positività o negatività morale delle azioni umane.
    Ma non è così: la fede non toglie alla ragione il compito di valutare la positività o negatività morale delle azioni umane, in base a criteri che appartengono al campo di indagine proprio di questa ragione.
    Questo non significa eliminare Dio dall'esperienza morale umana. Il sì della fede a Dio resta la motivazione ultima e il significato più vero di tutto l'agire morale umano. Ma i contenuti di questo agire sono del tutto congruenti con la ragione e dotati di una ragionevolezza che può in qualche modo essere «mostrata».
    Tale ragionevolezza si fonda sul rapporto che esiste tra il bene morale e l'autorealizzazione umana. Come dicevano gli antichi, «agere sequitur esse», l'agire dipende dall'essere; l'essere è il fondamento ultimo dell'agire.
    L'essere che fonda l'agire dell'uomo è l'essere stesso dell'uomo, un essere che si fa nel tempo della storia. La verità dell'essere umano non è donata all'uomo che come progetto da attuare attraverso le scelte morali. Il senso dell'impegno morale umano è proprio quello di essere l'autorealizzazione dell'uomo.
    L'autorealizzazione è quindi il criterio in base al quale l'uomo può valutare la positività o negatività etica del suo agire. È un criterio bisognoso di molte precisazioni, di non facile applicazione, ma è ultimo nel suo ordine e perciò fondante. Dio stesso non vuole altro dall'uomo se non che egli sia e sia in pienezza di essere di vita.

    L'autorealizzazione inautentica

    Ma questo criterio è in un certo senso puramente formale: quando gli si vogliono dare dei contenuti precisi, quando lo si vuole precisare e descrivere in termini di valori e di comportamenti concreti, ci si trova subito divisi a seconda delle grandi visioni contrapposte dell'uomo che si contendono il campo nel panorama culturale del nostro tempo.
    La concezione di «autorealizzazione» che domina nella nostra cultura sembra in realtà offrire poco spazio a una forma di impegno morale serio ed esigente. Potremmo dare a questa concezione la qualifica di borghese, tanto essa sembra contrassegnare il comune modo borghese di pensare e di vivere.
    La concezione borghese dell'autorealizzazione è fondamentalmente soggettivistica ed egocentrica. La persona che deve realizzarsi è fatta di pura soggettività: autorealizzarsi è lo stesso che sentirsi autorealizzati.
    In questa visione, l'attenzione è focalizzata sulle esperienze soggettive: l'accumulazione di esperienze realizzanti, cioè appaganti, diventa lo scopo stesso della vita. Una simile visione si nasconde, inavvertita, sotto l'uso e l'abuso di parole in sé innocenti, come creatività, progettualità, autenticità, identità personale, autonomia, riscoperta della soggettività.
    La creatività e la progettualità hanno in questa visione dell'auto-realizzazione un carattere ludico, estetizzante; l'autenticità consiste nella fedeltà all'immediatezza e alla spontaneità del desiderio; la soggettività non è la risonanza interiore di valori oggettivi, ma la chiusura della persona su se stessa e la sua erezione a criterio ultimo di verità.
    Anche la qualità dei rapporti interpersonali si misura in ultima istanza sulla loro capacità di appagare, di arricchire di sensazioni e di emozioni nuove: l'autenticità della relazione vien fatta dipendere dalla qualità psicologica del vissuto affettivo. I legami sociali sono percepiti in modo contrattualistico: se devo dare qualcosa è solo per avere in cambio. Quello che conta è solo ciò che ricevo; solo quello mi arricchisce e mi realizza.
    Va da sé che una simile concezione della verità dell'uomo e della sua autorealizzazione è radicalmente contraria al Vangelo e incompatibile con la visione cristiana dell'uomo. Essa non può quindi esser posta a fondamento di un'etica cristiana.
    Ma non sono soltanto i credenti a mettere in guardia contro il carattere fondamentalmente narcisistico e amorale di una simile concezione della vita. Ed è interessante notare con quanto acuta preveggenza di tale denuncia si sia fatto portatore un drammaturgo del secolo scorso in uno dei drammi più intensamente poetici del suo repertorio artistico: ci riferiamo a H. Ibsen e al suo famosissimo Peer Gynt. Si tratta di un dramma fiabesco in cui la scapigliata fantasia nordica dell'autore intesse tutto un mondo di poesia finissima intorno a un personaggio da leggenda, sempre inseguendo una risposta all'eterna domanda sull'identità dell'uomo e denunciando l'equivoco, alla fine veramente tragico, di una concezione inautentica del-I 'autorealizzazione umana.
    Si direbbe quasi che il dramma nasconda tra le pieghe dell'azione una trattazione sistematica sul diventare se stessi come compito qualificante della condizione umana. L'espressione «essere se stessi», o altre strettamente equivalenti, ritornano nel testo decine di volte, a conferma della non casuale e non inconsapevole polarizzazione dell'attenzione dell'autore sul tema dell' autorealizzazione.
    La denuncia ibseniana dell'autorealizzazione inautentica precorre in un certo senso i tempi (e in questo il poeta è veramente veggente), poiché la concezione inautentica dell'autorealizzazione che vi viene descritta è proprio quella cui si ispira tanta parte della cultura e della vita del nostro tempo; una concezione cui certe forme di filosofia e magari di psicologia (ad esempio la c. d. «psicologia umanistica») amano dare una certa patente di nobiltà; una concezione che trova in certe forme di pedagogia della non-direttività o della non-proposizione-dei-valori una sua applicazione carica di conseguenze.
    Si tratta di una concezione contrassegnata, come vedremo, dalla esasperata centralità dell'io, dall'ossessione dell'accumulo di esperienze, dalla paura del rischio, della dedizione e della definitività.

    L'autorealizzazione attraverso il «sogno ad occhi aperti»

    Già nelle prime pagine, presentando i personaggi e le tematiche del dramma, l'autore sembra mettere in evidenza le difficoltà e gli handicap che l'impresa del diventare se stessi presenta, soprattutto per chi è costretto a esordire nell'avventura della vita già carico del peso di una eredità genetica o educazionale svantaggiosa. È il caso del protagonista del nostro dramma: Peer Gynt è il rampollo sconclusionato di una famiglia disastrata. Il padre, prodigo e megalomane, e la madre, debole e sognatrice, gli hanno lasciato una eredità di aspirazioni grandiose ma anche una povertà di censo e di carattere che ne frustra sistematicamente l'attuazione, in un mondo crudele che non concede sconti a nessuno. Una educazione sbagliata da parte di personalità a loro volta non realizzate e moralmente inconsistenti è una cattiva piattaforma di lancio per la grande avventura del «diventare se stessi».
    Alla totale assenza di riconoscimento da parte del suo mondo, il giovane Peer non può opporre altra difesa che la fuga nel sogno ad occhi aperti, evasione cui è stato presto iniziato dalla mamma. La sua disperata mitomania è tutta imperniata sull'aspirazione ingenua a fare del suo io il centro del mondo: «Brutta cattiva mammina, bada a quel che ti dico: tutto il paese verrà a renderti omaggio. Aspetta solo che io abbia fatto qualcosa, ... qualcosa di straordinario» (p. 686). [1] «Io sarò re, imperatore» (687). «Quello che so fare io non lo può nessun altro» (699). «Io posso volare nell'aria su cavalli sfrenati. E posso fare tante altre cose che voi non sognate nemmeno! (...) Volerò su di voi tutti come un uragano. Tutto il paese mi cadrà ai piedi» (701). «Tutti hanno riconosciuto Peer Gynt, l'imperatore, e i mille del suo seguito. Monete d'argento e marchi scintillanti egli profonde sul suo cammino, come fossero pietruzze. (...) Il principe d'Inghilterra lo aspetta sulla riva e con lui tutte le fanciulle d'Inghilterra. Anche i grandi del regno e persino l'imperatore si alzano da tavola all'arrivo di Peer.

    L'autorealizzazione attraverso il vitalismo selvaggio

    Ma incombono ben presto episodi che segneranno una svolta decisiva della sua vita. La realtà non permette a nessuno di indugiare troppo a lungo nel mondo dei sogni; Peer Gynt lo imparerà a proprie spese: «Bisogna finirla di stare nelle nuvole e di sognare ad occhi aperti» (729).
    Il passaggio dal sogno alla realtà avviene però per la strada sbagliata. Il bisogno di autoaffermazione, a lungo compresso, si libera in una esplosione eccitante di desiderio selvaggio: Peer Gynt, ubriaco, scappa con la novella sposa di un suo svigorito compaesano la sera stessa delle nozze, invano inseguito da tutto il paese che, a causa di questo, lo proscriverà e gli confischerà gli ultimi resti del patrimonio.
    Eppure proprio a quella festa di nozze gli si era presentata l'unica vera occasione della sua vita di diventare veramente se stesso: la persona che avrebbe potuto fare di Peer Gynt un uomo riuscito è Solveig, timida fanciulla venuta da fuori. La sua rapida apparizione colpisce Peer Gynt, che non dimenticherà mai più la sua fresca e pura immagine: «Com'è bionda! S'è mai vista l'eguale? Con gli occhi bassi si guardava le scarpette e il grembiule bianco... E si teneva stretta alla gonna di sua madre, e portava un libro di preghiere avvolto in un fazzoletto» (697).
    Egli la perde proprio per la sua selvaggia impazienza e con lei perde ogni possibilità di amare veramente. Il valore potenzialmente educativo dell'amore è definitivamente frustrato dall'esperienza prematura di una sessualità senza amore. Nessuna donna potrà essere amata come avrebbe potuto essere Solveig: «Cos'hai da offrirmi? - domanderà alla sposa rapita, prima di abbandonarla - (...) Hai in mano un libro di preghiere? e trecce d'oro sul capo? tieni gli occhi bassi? stai aggrappata alla sottana di tua madre? Rispondi! (...) Ti fai mai rossa in viso? (...) E allora che cosa vale il resto?» (707).

    Il mondo dei «trold», rovescio del mondo umano

    Altri amori selvaggi ed elusivi lo portano a un episodio fiabesco di grande valore simbolico nell'economia del dramma: Peer Gynt è introdotto alla corte del «Re della montagna» di cui aveva sedotto la figlia e di cui gli è imposto di diventare genero con un matrimonio riparatore. Il re della montagna è sovrano dei trold e dei mitici folletti del bosco, descritti da Ibsen come grottesche caricature dell'uomo e come personificazioni simboliche dell'umanità inautentica.
    L'iniziazione al loro mondo comporta per il nostro eroe un rovesciamento totale della sua umanità, una specie di singolare abbrutimento, cui egli acconsente almeno fino a quando i trold gli vorrebbero sfregiare gli occhi per costringerlo definitivamente alla visione distorta e rovesciata delle cose che è loro propria.
    Ma prima che egli sfugga alle loro pretese, gli viene rivelato il segreto della differenza tra gli uomini e i trold, tra l'autorealizzazione autentica e il suo rovescio - un tema che riaffiorerà più volte lungo il dramma e sarà il cifrario della sua enigmatica conclusione -: «Là fuori, sotto i raggi del sole gli uomini si dicono l'un l'altro: "Sii te stesso" (vaer digselv). Invece qua fra i trold, il motto è: "Ti basti essere come sei" (vaer digselv nokk)» (718).
    La differenza tra il diventare se stessi e l'accontentarsi di essere quello che si è coincide con la differenza tra l'autorealizzazione autentica e quella inautentica: ci si realizza solo superandosi, andando al di là di quello che si è. Peer Gynt purtroppo ha rifiutato solo l'abito dei trold, non la loro divisa interiore. Egli la porterà per il mondo.

    Il ritorno del passato

    Il secondo atto è in un certo senso il momento più struggente di tutto il dramma, segnato dalla morte di Aase, la mamma, che Peer Gynt accompagna al grande passo con l'ultimo commovente «sogno ad occhi aperti». Aase ha veramente amato Peer Gynt. Ciò non è bastato per essere una buona educatrice e quindi una vera madre, ma è stato sufficiente per suscitare in Peer una certa forma di «amore riconoscente», forse l'unico valore morale della sua vita; un valore che resta purtroppo senza seguito.
    Peer Gynt ha costruito una capanna nella foresta e lì lo ha raggiunto Solveig, disposta a ogni sacrificio pur di essergli accanto. Ma le ombre del passato ritornano (gli «spettri» di un altro celebre dramma di Ibsen!). La deforme e orrida figlia del re della montagna rivendica il suo posto nella capanna accanto a Solveig. Solo adesso Peer Gynt comprende l'enormità e l'irrevocabilità di quanto ha fatto, il valore di ciò che gli sembra irrimediabilmente perduto: «La mia reggia è crollata di schianto. Io le stavo vicino e ora un muro ci separa; a un tratto tutto è laido e la mia gioia è svanita. Fa' il giro Peer! Non c'è una strada diritta che mena da te a lei» (737). «Fa' il giro Peer; se il tuo braccio fosse lungo come il tronco di un pino o il fusto di un abete, la terrei ancora troppo vicina a me per lasciarla poi pura e senza macchia (...) Incontrarmi con lei così insozzato come sono sarebbe un sacrilegio» (737-738).
    Resterebbe aperta la strada del pentimento e della riparazione, ma Peer non ha il coraggio di affrontarla: «Forse ci vorrebbero anni prima di averla percorsa tutta... sarebbe una misera vita. Spezzare ciò che è puro, soave e bello, per rimetterne insieme a pezzi i frammenti? Si può fare con un violino, ma non con una campana» (737).
    Così Peer fugge, chiedendo alla ragazza un'attesa che egli sa essere interminabile e ottenendo da lei una promessa che la impegnerà in questa attesa per tutta la vita.

    L'autorealizzazione come sopravvivenza

    Il dramma sorvola su tutto il seguito di questa fuga: ci lascia solo intendere che il nostro eroe, iniziato oramai a un realismo cinico e privo di scrupoli, arricchisce con ogni mezzo in America e vive con soddisfatto orgoglio questa sua miserabile rivalsa nei confronti del mondo ostile e delle frustrazioni che hanno segnato la sua giovinezza.
    Ce lo ripresenta soltanto, dopo lungo spazio di anni, impegnato in alcune rocambolesche avventure, cariche di significati simbolici, preludio ormai vicino alla sconsolante conclusione del dramma.
    Frammenti del dialogo ritornano sempre più spesso sul tema dell'autorealizzazione, sottolineando aspetti sempre nuovi dello sbaglio radicale che sta alla base del vuoto sostanziale della vita di Peer, vuoto che resta ancora nascosto al protagonista, il quale nel suo ossessivo egocentrismo è portato a interpretare le ragioni stesse del suo fallimento esistenziale come tratti geniali di una strategia di autoaffermazione che gli avrebbe permesso di restare a galla, al di là di tutti i naufragi in cui è stato coinvolto. Così, ad esempio, egli attribuisce il suo successo economico e la sua scalata sociale al fatto di non avere impegni o responsabilità di alcun genere, e fa della sua condizione un principio di vita: «Che cosa dev'essere un uomo? Se stesso, rispondo io. Un uomo deve vivere per sé e per ciò che è suo. Ma come lo può se è un cammello da carico che porta venture e sventure altrui?» (745).
    Lo stesso disimpegno viene affermato nei confronti sia della morale che dell'immoralità: Peer Gynt sostiene l'utilità di un comportamento «medio», abbastanza elastico da sfuggire alle esigenze troppo severe della morale come alle conseguenze troppo temibili di una aperta immoralità: così egli giustifica il commercio degli schiavi che lo ha arricchito, ma si vanta di averlo abbandonato in tempo (747): «E di conseguenza spero - se non è vano il detto: chi non fa del male fa del bene - di aver cancellato gli errori del passato; e posso bilanciare, meglio di tanti altri, i miei peccati con le mie virtù» (749). Anche in questo egli è convinto di avere vittoriosamente difeso il suo io evitando gli impegni decisivi: «Il segreto dell'arte di vivere sta nel chiudere con cura l'orecchio all'accesso di un serpente pericoloso. (...) Un serpentello maligno che induce a compiere azioni decisive. Ciò che costituisce tutta l'arte di osare è restare libero di scelta in mezzo ai tranelli insidiosi che la vita ci tende (...) sapere che ci resta aperto un ponte che permette la ritirata» (749).
    Egli è sinceramente convinto d'avere salvato se stesso nelle traversie della vita: «Se uno conquista tutta la terra ma perde se stesso, cinge di corona una testa rotta» (750); e a chi gli pone la domanda cruciale sull'identità di questo «se stesso», di questo «io gyntiano», egli risponde: «L'io gyntiano ... è la moltitudine di fantasie, desideri e passioni... l'io gyntiano è il mare di capricci, voglie, esigenze, insomma tutto ciò che gonfia il mio petto e fa che io, Peer Gynt viva» (751); una risposta che riduce l'uomo alla spontaneità dei suoi desideri, l'essere dell'uomo alla sua fenomenologia; una risposta che suona parodia di tanto pensiero moderno.
    Del resto altri fanno eco, magari in modo più elementare e consequenziale, alla concezione rinunziataria dell'io gyntiano, come il la-dro che dice a se stesso: «Mio padre era ladro; suo figlio deve rubare. (...) Devi subire la sorte; devi essere te stesso» (758).
    Ma dove la fedeltà all'immediatezza del proprio io raggiunge il limite estremo e la dimostrazione della sua assurdità, è proprio tra i matti: a Peer Gynt che, capitato in un ospedale di pazzi, obietta al direttore (pazzo a sua volta!) di questo curioso ospedale: «Ma qui, se ben comprendo, si tratta di essere fuori di se stesso», il direttore-pazzo risponde con parole illuminanti: «Fuori di se stesso? No, lei si sbaglia di grosso! Qui ciascuno è assolutamente se stesso; se stesso e non un briciolo d'altro; si naviga, in quanto se stessi, a vele spiegate. Ciascuno si chiude nella botte dell'Io... sta immerso completamente nel fermento dell'Io... si rinchiude ben bene col cocchiume dell'Io, e nel fonte dell'Io fa gonfiare le doghe. Nessuno ha lacrime per i dolori altrui; nessuno ha comprensione per le idee del prossimo. Anche noi ... nei pensieri e nelle parole siamo noi stessi fino all'orlo del trampolino; e per conseguenza, se dobbiamo avere un imperatore, è lei senza dubbio l'uomo che ci occorre» (780-781).
    «È se stesso in tutte le sue manifestazioni, se stesso appunto perché fuori di sé», dirà lo stesso direttore di un pazzo che egli presenterà a Peer Gynt (780). E quando Peer, sgomento per le assurdità di cui è costretto a essere spettatore, cadrà a terra svenuto, il direttore griderà: «Oh guardate come si rotola nel fango... è fuori di se stesso... Eccolo incoronato! Evviva! Evviva l'imperatore dell'Io» (785).
    L'autorealizzazione egocentrica, portata al suo limite, confina con la pazzia. [2]
    Ma il dramma intanto volge alla sua amara conclusione. Peer Gynt, dopo aver fatto altre esperienze di autoaffermazione inautentica (per esempio l'amore vissuto come infeudamento dell'amata e come celebrazione della sua potenza virile) ritorna al suo paesetto natale in Norvegia. La nave che ve lo riporta naufraga proprio in vista della costa e Peer Gynt compie l'ultima impresa della sua non brillante carriera: aggrappato a un relitto insieme al cuoco della nave, lo ributta a mare per garantirsi la salvezza, nonostante quest'ultimo lo implori in nome della famiglia e dei bambini che lo attenderanno invano a terra.

    Il disinganno

    Giunto a terra inizia per Gynt il graduale disvelamento del fallimento radicale dell'impresa della sua autorealizzazione.
    C'è innanzitutto l'apologo amaro della cipolla: Peer, ridotto per campare a cercare cipolle selvatiche nella foresta, in un celebre soliloquio, paragona la sua vita a una di queste cipolle: una successione di strati, di personalità apparenti recitate senza partecipazione; sotto ogni strato ne appare un altro ugualmente inconsistente: «Che quantità prodigiosa di pellicole! Non apparirà finalmente il nocciolo? Niente affatto, perdio! Fino al centro non sono che strati e strati... solo sempre più piccoli» (807). Peer Gynt non riesce a trovare nella sua vita il suo vero se stesso, il nucleo di una identità autentica.
    Poi c'è la scoperta conturbante della capanna nel bosco: Solveig è ancora là, dopo un'intera vita che attende: «Tutto è pronto per la Pentecoste. Mio caro ragazzo tanto lontano non giungerai tu? Se il tuo fardello è greve, non ti affrettare... Io ti attenderò, come ti promisi» (808).
    Per la prima volta Peer è veramente preso dall'angoscia della sua nullità: «L'una ricorda ... e l'altro ha dimenticato. Egli ha tutto perduto... ed ella ha tutto custodito. Oh rigore! E il gioco non si può rifare! Oh angoscia!... Era questo il mio impero!» (808).
    Il disvelamento dell'autorealizzazione inautentica continua attraverso una complessa e suggestiva simbologia dentro la desolazione di una foresta bruciata. Tutto quello che incontra dice a Peer la nullità della sua vita: «Siamo i pensieri che tu dovevi pensare. (...) Noi dovremmo innalzarci, voci commoventi... e invece dobbiamo rotolare, gomitoli di filo grigio» (808-809). «Noi siamo le parole d'ordine che tu dovevi dettare. (...) Noi siamo le canzoni che tu dovevi cantare. (...) Noi siamo le lacrime che non furono versate. Avremmo potuto sciogliere l'ago di ghiaccio che trapassa il cuore. Ormai l'aculeo è confitto nel petto villoso; la piaga è chiusa; il nostro potere è spento. (...) Noi siamo le opere che tu dovevi compiere! Il dubbio che attanaglia ci ha piegati e spezzati» (809).
    E alla fine Peer Gynt incontra la morte sotto figura di un fonditore di bottoni di stagno. Peer Gynt ascolta incredulo la sua sentenza: egli non è stato un peccatore abbastanza serio; ma non può neppure essere detto virtuoso: egli ha preso la vita tanto alla leggera da non averla veramente vissuta. Perciò, come un bottone di stagno mal riuscito che viene rifuso, egli deve ritornare nel nulla: «Tu dovevi essere un lucente bottone sul vestito del mondo; ma ti manca il picciolo; perciò devi finire nella cassa degli scarti per rientrare, come si suol dire, nella massa» (813).
    Peer Gynt si ribella con tutte le sue forze a questa ultima smentita alla sua ossessione di essere se stesso: «...Dissolversi come un nulla in una massa estranea... la fusione nella cucchiaia, l'annullamento dell'io gyntiano... no, mi rivolta fino in fondo all'anima!» (814). Ma il fonditore di bottoni lo incalza con il pungolo amaro della verità: «Mai fino ad ora sei stato te stesso... e allora che t'importa morire del tutto?» (814).
    Le ultime scene del dramma ci presentano Peer alla disperata ricerca di testimonianze a favore della consistenza della sua identità, di prove del fatto che egli abbia veramente vissuto.
    E il primo testimone invocato a difesa è il «vecchio della montagna». Peer Gynt aveva difeso nei suoi confronti la sua umanità, rifiutando assolutamente di farsi trasformare in un trold. Ma il vecchio gli rivela quello che allora egli non aveva capito: «Quando lasciasti i miei monti - gli oppone il vecchio - ti imprimesti in mente la mia divisa. (...) Quello che serve a distinguere i trold dagli uomini: Trold, ti basti essere come sei! E tu da allora ti sei sempre conformato strettamente a quel motto (...). Tu vivevi da trold e lo tenevi segreto» (818). Senza rendersene abbastanza conto, Peer non è stato altro che il simulacro vuoto di un uomo, la sua grottesca controfigura.
    Neppure il diavolo accetta di testimoniare a suo favore: Peer non ha avuto abbastanza personalità neppure come peccatore: non è stato se stesso neppure dalla parte del rovescio. Anche il peccato richiede una sua dedizione ed interna coerenza di cui Peer non è stato capace (827).

    Morire a se stessi per essere se stessi

    E finalmente il fonditore di bottoni gli rivela il segreto dell'auto-realizzazione autentica, un segreto che porta impresso il segno della croce: «Essere se stessi è uccidere se stessi» (821). Ibsen aveva già proclamato questa verità nel Brand. Anche nel Brand ritorna spesso il tema dell'essere se stessi: «Quello che tu sei siilo a fondo; non a frammenti né per metà» dice Brand. [3] Anche per Brand «Vittoria somma è perdere tutto. (...) Si acquista per sempre solo ciò che si è perduto». [4] Ma nel Brand una certa forzatura di grandiosità getta un'ombra di retorica su questa proclamazione. Il suo risvolto negativo sembra poeticamente più credibile: è più difficile rappresentare il bene che il male.
    Peer Gynt è alla fine tristemente convinto della vanità totale della sua esistenza: «Così indicibilmente povera un'anima può dunque rientrare nelle grige nebbie del nulla... Non serbarmi rancore, o mondo bellissimo, se ho calpestato senza scopo il tuo suolo. O splendido sole, i tuoi raggi fulgenti hanno brillato invano su una capanna vuota. Non c'era dentro nessuno da riscaldare e infiammare... il proprietario non era mai in casa» (829).
    Ma proprio quando, oramai rassegnato, si avvia al suo destino, Peer Gynt si ricorda di Solveig, l'unico testimone che potrebbe essergli paradossalmente favorevole, il testimone di un tradimento innominabile, meritevole di una vera dannazione: «Sì, là troverò l'elenco delle mie colpe» (830).
    E qui si verifica l'inaspettato: l'ultimo testimone non è reticente. Solveig però rifiuta di ammettere che Peer abbia peccato; piuttosto essa è disposta a testimoniare che Peer è veramente esistito: e la prova è che egli ha riempito la sua vita: «Grazie a te la mia vita è stata una canzone meravigliosa. Sii benedetto tu che finalmente ritorni a me! Benedetto, benedetto il nostro incontro in questa pasqua di rose!» (831). E alla domanda angosciosa di Peer: «Sai dove sia stato Peer Gynt in tutti questi anni? (...) Sì, col suggello del destino sulla fronte; così com'è sorto dal pensiero di Dio?», Solveig risponde con le parole liberatrici: «Nella mia fede, nella mia speranza e nel mio amore» (832).
    Ibsen non ci assicura sull'esito felice del dramma: il fonditore di bottoni concede a Peer soltanto un ultimo differimento; un tempo forse troppo breve per riempire il vuoto di un'intera vita.
    Ma l'autore sembra volerci dire che, se ci può essere ancora speranza di salvezza per una vita non vissuta, è soltanto per la forza creativa di un Amore che ama anche se non riamato, un Amore in cui continuiamo a esistere anche quando noi decidiamo di rinunciare a vivere: il segreto della nostra autorealizzazione è fuori di noi, o forse nel più profondo del nostro essere, dove possiamo attingere alla forza di questo amore il coraggio di quel morire a noi stessi che è l'unica condizione del nostro vivere.

    L'autorealizzazione autentica

    Il tema dell'autorealizzazione è di natura essenzialmente morale, ma di una morale concreta che chiama in causa una visione globale, metafisica o religiosa, dell'uomo.
    Ibsen ci ha proposto in altri drammi, ma - ci sembra - con minore forza convincente, la sua concezione dell'autorealizzazione umana, alternativa rispetto a quello che abbiamo chiamato borghese, di cui viene così acutamente denunciato il carattere fondamentalmente inautentico e fallimentare nel Peer Gynt.
    Ma già in questo dramma, il riferimento esplicito al morire a se stessi come cifra segreta del vero diventare se stessi ci rimanda al Vangelo come alla fonte vera di ogni concezione autentica dell'autorealizzazione.
    Anche il Vangelo ha una sua visione della verità dell'uomo e della strada che porta alla realizzazione di questa verità: ma è una strada per tanti aspetti esattamente opposta a quella della inautentica autorealizzazione borghese. L'autorealizzazione secondo il Vangelo si dà soltanto nell'autotrascendimento, attraverso l'adesione incondizionata a valori che realizzano la persona solo trascendendola.
    Fare l'uomo non è tessere l'ordito empirico delle sue abilità, emozioni, conoscenze, dominio sul mondo; ma è attuare la verità ontologica di cui l'uomo è fatto, che è sostanziata di valori morali.
    La libertà che è il supremo privilegio della persona comporta responsabilità oggettive, prima ancora che verso un qualche potere estraneo o superiore, verso la verità del proprio essere. La progettualità umana in quanto applicata alla realizzazione di sé, non è del genere di quella espressiva, e in fondo evasiva del gioco; è del genere di quella responsabile ed efficace del costruire.
    La libertà umana opera, dentro il campo di una polarità oggettiva, la costruzione o la distruzione della realtà della persona, secondo leggi che essa è chiamata a scoprire ma di cui non è padrona.
    La differenza tra ciò che costruisce e ciò che distrugge la persona è inscritta nell'essere dell'uomo, prima ancora che nella sua coscienza morale.
    Questo non esclude, anzi postula che la responsabilità verso la verità del proprio essere si prolunghi in una responsabilità verso un Chiamante che è la fonte stessa dell'essere personale dell'uomo.
    Questa responsabilità non è una servitù, ma la dignità più vera dell'uomo: Dio non lo chiama che a essere fedele alla verità di cui è fatto; una verità che trascende le apparenze della spontaneità e l'immediatezza del desiderio.

    Lo scandalo della croce

    Data la molteplicità e il carattere spesso contraddittorio e distruttivo delle pulsioni spontanee che si contendono il cuore dell'uomo, l'autorealizzazione domanda rinunce e autorinnegamento.
    Ma non si tratta di rinunciare per rinunciare, bensì e solo per potenziare la realizzazione autentica di sé. La rinuncia trova il suo senso nell'amore e nel dono di sé. Non alla maniera di una operazione masochistica o di automutilazione. Nel superamento del narcisismo infantile e autodistruttivo si rende possibile il dono di sé come verità profonda del suo essere persona.
    È lo scandalo della croce inscritto nel cuore stesso dell'impresa morale: la struttura pasquale dell'autorealizzazione: si diventa se stessi solo morendo a se stessi. È un paradosso che appartiene alla verità stessa dell'uomo.
    Ma solo la risurrezione di Cristo ci garantisce che colui che ha il coraggio di perdersi nel dono di sé ritrova davvero la pienezza di una vita più forte di ogni morte.

    NOTE

    1 I brani del Peer Gynt qui citati e contrassegnati dal numero di pagina sono tratti da: H. IBSEN, I Drammi (trad. it. di A. Rho), vol. I, Einaudi, Torino 1959.
    2 Viene in mente a questo proposito una interessante osservazione di Chesterton: «Ti devo dire dove sono gli uomini che più credono in se stessi? Te lo dico subito. Conosco uomini che hanno, più di Napoleone e di Cesare, una fiducia colossale in se stessi. So dove splende la stella fissa della certezza e del successo. (...) Gli uomini che veramente credono in se stessi sono tutti nei manicomi» (G. K. CHESTERTON, L'ortodossia, Morcelliana, Brescia 1926, 7.
    H. IBSEN, I drammi, cit., 549.
    4 Ibidem, 631.


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