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    Una via per l’educazione


    Carlo Nanni

    (NPG 1999-08-28)



    Voglia di bellezza?

    C’è nel mondo d’oggi una «latente», ma diffusa e sentita voglia di bellezza o «l’impero» della tecnica e del consumismo «colpisce ancora» (per dirla con il titolo di un vecchio noto film)?
    H. Bergson, nel suo saggio Le due fonti della morale e della religione (1932), insinuava che lo sviluppo contemporaneo della scienza e della tecnica permetteva di essere affrancati dalla schiavitù di certe fatiche materiali. Tuttavia insisteva che esso aveva bisogno di «un supplemento di anima». Di solito questa affermazione è stata intesa in senso morale o religioso. Ma non può essere intesa anche nel senso di quanto dice F. Dostoevskij nell’Idiota: «la bellezza salverà il mondo»?
    Il mio intervento parte influenzato da questa supposizione: che l’accresciuta possibilità di accesso ai beni di consumo già di fatto ha spinto verso la fruizione e l’attenzione ai beni immateriali della cultura e alla ricerca di un benessere non solo fisico, ma più largamente psichico, sociale, spirituale. Credo che si possono leggere in questa prospettiva sia il crescente impegno etico-sociale di volontariato sia la diffusa ricerca di nuove forme di religiosità. Ma non mi sembra estranea da questo movimenti di civiltà anche la ricerca di ulteriorità e di senso che spinge a ricercare oltre l’empirico e il fattuale verso qualcosa che insieme è pienezza e infinità, universalità e sensibilità, grandezza e splendore, impegno e felicità, tormento ed estasi.
    La storia sociale, quella degli artisti in particolare, ma la nostra stessa esperienza non ci testimoniano, almeno qualche volta, questo con-fluire di sentimenti, questo «valore aggiunto» all’impegno morale o all’esperienza religiosa o anche alla ricerca veritativa? Potremmo chiamarlo: esperienza estetica, esperienza del bello?

    Un’esperienza da educare?

    Se proprio non vogliamo, e magari non dobbiamo, aspettarci necessariamente dalla bellezza la salvezza del mondo, non ci è lecito almeno ipotizzare che la cura di questa modalità dell’esistenza possa da una parte aiutarci a superare gli effetti perversi del consumismo e del tecnocraticismo, e dall’altra aprirci ad un’esistenza più autentica e ad una relazione di trascendenza più forte con le cose e con il mondo, con la cultura e con la civiltà, con la storia e con Dio?
    La vicenda umana degli artisti ci mostra, come loro caratteristica di vita, la costante ricerca del senso recondito delle cose e il tormento di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile intuito.
    Ciò resta al di là degli effettivi risultati. Come nel passato, così anche oggi, certe opere d’arte sono spesso giudicate duramente e diversamente, ma – a meno di contraffazioni o di pedisseque imitazioni – non è difficile evidenziare in esse queste forti e sentite fonti soggettive.
    Ma qualcosa di simile non accade a noi, non artisti di professione, anche quando leggiamo od ascoltiamo della musica o vediamo un film o un videoclip o quando partecipiamo a degli happening o ad altre celebrazioni, o quando rimaniamo incantati di fronte a certi spettacoli naturali al mare o in montagna o di fronte ad una distesa pianura od altro che ciascuno può immaginare rifacendosi alla propria esperienza?
    Se è così, perché semplicemente consumare tali momenti magici e non piuttosto portarli a far parte del bagaglio della nostra e della comune esistenza?
    Non ci sarà peraltro da educarci a queste modalità, a queste operazioni vitali?

    Oltre le remore storico-culturali della civiltà occidentale

    Nel suo Saggio sulla liberazione del 1969, quando ormai la contestazione aveva già raggiunto il suo punto più alto e cercava sbocchi operativi che non la inaridissero sulla denuncia del negativo, H. Marcuse prospettò la necessità teoretica di «un nuovo sensorio». Se non si voleva che la tecnocrazia riducesse «l’uomo ad una dimensione» (=quella dell’utile e della prestazione efficace), occorreva – secondo l’autore – un diverso modo di sentire, di vedere, di considerare, di valutare, di approcciarsi alla realtà, di vivere la vita. Questo modo alternativo consisteva nel dare spazio al senso estetico, alla logica estetica, alla prospettiva estetica (contrapposte a quelle utilitaristiche e tecnocratiche).
    Ma idee simili erano già nell’aria.
    Con Essere e tempo (1927), M. Heidegger era giunto alla conclusione che il pensiero occidentale era progressivamente caduto in una sorta di «oblio dell’essere» a favore di una fissazione sul solo aspetto empirico e la sua manipolazione. Ne sarebbe venuta di conseguenza il trionfo della razionalità scientifica e tecnica. Gli sguardi si sarebbe fissati sull’ente e avrebbero perso di vista l’essere. La realtà sensibile avrebbe fatto perdere di vista l’ulteriorità, l’idealità non tangibile ma non per questo meno reale. Ridotto l’essere all’ente (e il nulla al ni-ente), si sarebbe cercato e si cercherebbe di ricondurre tutto entro quadri concettuali astratti, incapaci di cogliere la totalità dell’essere e del suo senso ultimo.
    Contro tali strategie di ricerca, l’ultimo Heidegger si è rivolto all’indagine del linguaggio ed ha indicato nel linguaggio poetico la via di accesso alla verità dell’essere. Infatti, per lui, l’arte è essenzialmente allegoria e simbolo. L’arte rinvia all’altro (=allegoria), con-duce all’altro (=sim-bolo). Ciò che è indicibile e indescrivibile attraverso la scienza e la filosofia, è intuibile attraverso l’arte. Ogni atto artistico, ogni opera d’arte è un evento, cioè un momento particolare in cui si rende manifesta e intuibile la verità, qui ed ora, nel tempo e nella storia, seppure nelle vesti, nei canoni, nei codici, negli alfabeti, nei generi letterari del tempo e della cultura di appartenenza.
    In questo senso l’arte è espressione del proprio tempo, ma anche rivelazione di una verità che trascende l’autore stesso e il suo tempo. È verità storicizzata, nascosta e celata nella cultura, ma che mediante un’adeguata ermeneutica può venire alla luce, manifestarsi e rendere possibile aprire al senso della vita, rivelando le verità più profonde della condizione umana. Ed aprendo insieme alla storia e all’oltre essa.
    H. Gadamer riprenderà queste idee, mettendo in luce come l’opera d’arte, pur ispirandosi a dei modelli, non è mai pura imitazione, ma sempre almeno un tentativo e un luogo di manifestazione storica della verità. L’autore per spiegarsi si rifà al gioco: ci sono delle regole precise e predeterminate (esse stesse storico-culturali e quindi soggette a mutamento o a cambiamento nel corso dei secoli), ma il gioco si realizza giocando: così l’arte manifesta le sue potenzialità esprimendosi, realizzandosi.
    Lo stesso destrutturalismo di J. Derrida a suo modo è un tentativo di slegare le sorti del testo (=le frasi scritte) dal libro (=che è il con-testo, comprendente l’autore stesso, le sue intenzioni, le sue motivazioni, le sue idee), al fine di scoprire le tracce e i margini di significato autonome del testo stesso.

    Nel gioco delle convergenze e delle differenze

    Ma forse, ai fini educativi, c’è da fare un passo più oltre. Più che insistere sullo specifico e il contrapposto, si tratta di insistere sui collegamenti, sulle interazioni.
    Un antico adagio della filosofia tradizionale afferma che «unum bonum, verum et pulchrum convertuntur» («l’uno, il buono, il vero e il bello convergono»). Si potrebbe dire che sono «osservatori» diversi, ma convergenti sulla realtà. Gli antichi filosofi li indicavano come i supremi modi di dire (anzi secondo l’espressione latina, di «praedicare», cioè di dire apertamente e con forza) la realtà, l’essere, l’esistere.
    E quindi un’educazione che voglia essere integrale dovrà alla fin fine coltivare questa correlazione, a vantaggio dell’«intero personale» e della ricchezza dinamica della cultura sociale.
    Si potrà o forse si dovrà accentuare questo o quel punto di vista o luogo di posizionarsi, ma senza mai dimenticare almeno l’alterità degli altri punti prospettici. L’homo onnilaterale è un’utopia e come tutte le utopie non ha senso reale, ma ideale: dice, o meglio, si auspica e sprona a realizzare da parte di un’umanità storica, plurima e differenziata, aspirazioni e sogni che stanno nel più profondo e nel punto più alto della mente e del cuore: magari a livello aurorale o peggio sovraccaricate da esigenze più massive e corpose di sussistenza o da pesanti coperture ideologiche e culturali.
    Che si diano persone, gruppi, movimenti, congiunture storiche, accentuazioni culturali che evidenziano e vivono un modo d’essere più o piuttosto che un altro; che uno sia più religioso, più pratico, più forte di altri è normale; che nella stessa esistenza personale si diano dimensioni o momenti di vita diversamente attenti a queste grandi modi di essere e di esistere è anch’esso normale.
    Forse, al punto in cui siamo – di fronte alla enfatizzazione della globalizzazione non solo economica – il «non normale» sarebbe dimenticare la differenza, non vederla come risorsa e ricchezza di umanità per tutti e per ciascuno: perché vorrebbe dire dare spazio allo slittamento nell’omologazione più alienante e depauperante.
    Se abbiamo bisogno di economisti dalle larghe vedute, di politici competenti, di santi e di mistici... abbiamo bisogno anche di artisti. E tutti abbiamo comunque bisogno non solo di saper quanto vale e quanto costa guadagnarsi la vita, ma tutti e tutte abbiamo bisogno di poter qualche volta almeno «praedicare», vale a dire esclamare con tutto noi stessi: «Che bello!».

    Vie di coltivazione educativa e autoformativa

    Cosa fare, al fine di far diventare quasi «stile di vita» un momento di slancio o l’entusiasmo che ci prende quando facciamo un’esperienza di bellezza?
    Provo ad indicare alcune piste, partendo da alcune affermazioni di I. Kant che sono diventate punti di riferimento (in pro o in contro) del modo di concepire il bello e l’arte (=estetica) nell’età contemporanea.

    * Con rigorosità critica che gli è da tutti riconosciuta, I. Kant, nella sua famosa terza critica, La critica del giudizio, afferma che «bello è ciò che piace senza interesse». Esso ha quindi i caratteri del gratuito, del contemplativo per se stesso, più che quelli di un concetto o di un construtto o di una rappresentazione a fini pratici, utilitari, economicamente produttivi o anche solo intellettuali.
    Nella prospettiva sopra indicata si tratta di non escludere ma integrare tali aspetti. Non nuoce che un’opera d’arte o qualunque espressione artistica serva a fini ad essa connessi. Ma certamente sarà da coltivare il senso della contemplazione in se stessa, il vedere per se stesso, l’abituarsi a saper vedere altrimenti, a lasciarsi pigliare dal gioco dei simboli (che come si è detto congiungono empirico e trascendente, visibile e invisibile, dicibile e indicibile): nella netta coscienza non che quanto si intuisce non è definibile, ma al massimo esprimibile parzialmente.
    Ma si vede subito come un altro atteggiamento da favorire sarà quello della gratuità e della comunicazione disinteressata senza pretesa di ricambio. Come pure sarà da abituare ad andare oltre il gradevole e il piacevole, puntando all’apprezzamento di una dignità che si impone o che ci appella per se stessa. Si può partire dal desiderio ma occorre andare verso il gusto.
    L’apprendimento delle tecniche espressive, dei codici linguistici, dei generi letterari è utile, anzi necessario; ma sarà da considerare come previo e strumento per una lettura dell’oltre. Per dirla con un esempio: una poesia non si riduce alla sua struttura linguistica (anche se non si dà senza di essa).

    * I. Kant dice ancora che «bello è ciò che piace universalmente e necessariamente senza concetto».
    Il bello supera il modello a cui magari si ispira. E che l’esperienza estetica non sia del tutto concettualizzabile, cioè dicibile in un’espressione codificata a cui tutti possano universalmente e rappresentativamente riferirsi, lo proviamo quando vogliamo dire perché qualcosa ci è piaciuta o l’apprezziamo. Al limite diciamo che è bello perché ci piace. Non ne possiamo dare una dimostrazione razionale. Tutto sembra affidato alla soggettività, al sentimento, che per natura sua è particolare. Eppure quando un qualcosa è bello (ad esempio, un film come Il monello di Charlot) si impone e esige, quasi, il consenso di ognuno. Tanto che diciamo che è bello anche se… non sappiamo dire il perché: univocamente. Certo anche qui la tecnica, la fotografia, il ritmo, la musica, l’immagine, la trama, il significato culturale, il contesto storico, le problematiche affrontate ci possono aiutare e ci fanno avvicinare alla convergenza del giudizio estetico. E quindi una educazione alla lettura del film (e in genere ad ogni opera d’arte) sarà sommamente utile in quanto «affina» il gusto, lo rafforza, dandogli strumenti e chiavi per esercitarsi in un’operazione che appunto ha da muoversi tra soggettivo e oggettivo, tra universale e particolare, tra culturale e antropologico, tra piacevole e valore. Tra dicibile e ineffabile.
    In questo senso l’educazione artistica è piuttosto indiretta, in quanto lavora sulle strumentazioni espressive (la «cassetta degli attrezzi») per trascendere e rendere manifesto ciò che certamente è espresso (e quindi occultato) in forme simboliche, in codici culturali, e non può venir detto se non con alfabeti e linguaggi storicamente datati e culturalmente contestualizzati (come del resto tutto ciò che è umano).
    Ma gioverà pure ad aprire al gusto estetico, a saper cogliere il bello della vita anche la coltivazione di atteggiamenti di apertura all’altro, al nuovo, all’ascolto. Od ancora: sarà utile il far apprendere a «lasciar parlare le cose», prima di ogni inquadramento o etichettamento precoce; perché allora sarà più facile far apparire il lato bello delle cose. Forse si potrebbe parlare di un’educazione all’«empatia positiva», vale a dire ad un sapersi mettere in consonanza profonda con sé e con gli altri, ma dando spazio a ciò che è positivo, pur tra gli altri aspetti, come una rosa tra le spine o come uno spiraglio di luce nella notte o come lo squarciarsi del cielo dopo un temporale.
    Vorrei segnalare anche un altro livello educativo, più operativo: imparare, da soli e insieme, a pigliar gusto a fare una cosa, un lavoro, ad impegnarsi per preparare qualcosa di gradevole, di buono, di giusto, di grande, … di bello, per sé e per altri; a saper sognare cose grandi e belle e godere che almeno un poco e con il tempo si realizzano per opera nostra od altrui, vicino o lontano, oggi o chissà quando e dove.

    * C’è un terzo aspetto che, a fini educativi, vorrei riprendere dalle affermazioni kantiane. Egli dichiara che la bellezza implica la libertà. Il bello infatti, come si è visto, non dipende dalla sua eventuale finalizzazione ad alcunché fuori di essa, e che pure se usa o aderisce a dei modelli, a delle norme, a delle regole, a delle tecniche, non se ne fa costringere.
    Il fine dell’artista è che la sua opera sia bella. E quanto in natura e nelle persone ci appare bello va oltre ogni regolarità o legge, pur magari esprimendosi in esse.
    Bellezza e libertà vanno quindi insieme: ma forse – rispetto all’illuminismo kantiano – c’è da insinuare che entrambe non si danno in concreto senza limiti e senza condizioni: non sarebbero altrimenti umane. Anzi, è proprio grazie ai limiti e alle condizioni che siamo invitati ad aprirci agli altri, a sollevare lo sguardo, a vedere oltre, ad accogliere ciò che ci viene incontro, che ci si rivela gratuitamente, che ci si manifesta per forza sua oltre ogni nostro volere e impegno.
    Ne consegue che un’educazione al bello passa anche per l’educazione al senso del limite e della relazione collaborativa. È del resto quello che sperimentiamo: nel dialogo, nel confronto con altri, specie con amici ed amiche, scopriamo aspetti che magari da soli non avevamo colto. Da questo punto di vista la frequentazione di musei o di esposizioni, insieme, può essere molto proficua.
    Ma l’affinamento del gusto si può conseguire anche con la viva pratica della propria e comune libertà, come quando, magari tra mille difficoltà, c’è da inventare il futuro o da impreziosire il presente o da far memoria di un passato carico di risorse.

    Corollari educativo-pastorali

    Nella sua recente Lettera agli artisti (1999), il Papa Giovanni Paolo II, a cui non è mai stata estranea l’attenzione per il bello e l’arte, ricorda che «ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta» (n. 6).
    Peraltro, si sa che tutta la tradizione cristiana, proprio sulla base del mistero dell’incarnazione, ha trovato nell’arte e nel bello la via per esprimere con i segni il mistero creduto, celebrato e vissuto come popolo di Dio peregrinante nel mondo, accompagnato dallo Spirito del suo Signore (con quella speciale interazione che si rivela specialmente nelle icone, ma anche nei simboli sacramentali ed eucaristici in particolare).
    Ma più oltre, il testo, riprendendo San Paolo (Rom 8,19), ricorda che è l’intera creazione che «aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche mediante l’arte e nell’arte» ed esprime la sua convinzione che «lo Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa» (n. 14). Del resto già in precedenza (n.10) aveva dichiarato che «l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa della redenzione».
    Del resto è proprio la recente fenomenologia religiosa ad evidenziare nel Sacro, oltre il «tremendum» e il «numinosum», il suo intrinseco essere «fascinosum».
    Da questo punto di vista si comprende come una educazione religiosa, fin dai suoi inizi (a scuola, in famiglia, nei gruppi, nella comunità), ha da invogliare e suscitare quei sentimenti di stupore e di meraviglia, di curiosità e di apertura, che non solo ci mettono in relazione con noi stessi, con gli altri, con il mondo, con la storia, con la cultura, ma anche con il trascendente.
    E la catechesi, che opererà per via narrativa, immaginativa e simbolica, non troverà quasi una compagnia nelle modalità artistiche del proprio tempo come di quelle del passato (o anche di quelle che provano a servirsi degli attuali strumenti tecnologici computerizzati e informatizzati)?
    Ma, più basicamente, una pastorale giovanile non dovrà sostenere la ricerca del senso e della buona qualità della vita, anche attraverso un’educazione estetica, in modo da aiutare adolescenti e giovani a dire sì alla vita, a poter cantare inni pur in una terra che sembra spesso straniera e non bloccarsi di fronte alle sfide cruciali che si annunciano al loro orizzonte?


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