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    Il posto dell’ironia



    Letteratura e formazione /5. Libri memorabili tra classici e contemporanei

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2010-07-64)


    Ridere sul sangue
    È persino più grave
    Che spargere il sangue
    (Renato Guttuso)


    Nel suo noto saggio sul comico, Henry Bergson [1] fornisce alcuni esempi di situazioni che ci muovono al riso: un uomo che cammina per strada e inciampa in malo modo; un professore universitario che mentre tiene un seminario, e tutta la platea è concentrata su di lui, cade improvvisamente dalla sedia, ecc. Abbiamo sempre letto questa pagina con un misto di repulsione e fastidio; forse perché ci ha sempre fatto venire in mente un’altra pagina, di Theodor Adorno, che parlando dei suoi compagni di classe, sempre pronti a sghignazzare disordinatamente contro i professori e i compagni più dotati, scriveva: «Quelli che scatenavano un pandemonio a non finire quando il primo della classe commetteva uno sbaglio non hanno circondato, sogghignando imbarazzati, il detenuto ebreo, e non l’hanno schernito quando cercava troppo maldestramente di impiccarsi?».[2] Il riso bergsoniano è il riso del complice, del forte che sorride del debole (nel caso dell’uomo che cade per la strada; a proposito: ma quante persone conosceva Bergson che realmente avrebbero riso di un uomo che cade?), o peggio del debole che non potendo scalzare il forte dalle sue posizioni ride delle disgrazie che gli capitano (come nel caso del docente: altro è ridere di un errore del professore, ridere della sua presunzione e ciarlataneria, ridere della sua arroganza; ma che c’è da ridere di una sua caduta?); un riso carnascialesco e sghignazzante, finito il quale tutto torna come prima.

    Ridere non è sempre liberante: almeno non lo è per i soggetti dei quali si ride. La risata è spesso uno dei più terribili alleati del dominio. Si ride troppo stesso di chi cade, si ride di chi soffre, si ride di chi non ce la fa. Ignobili trasmissioni televisive importate dal Centro dell’Impero ci hanno insegnato a ridere dei bambini che cadono dall’altalena o dei cuccioli che scivolano in acqua; ci sarebbe da ridere dell’imbecillità di coloro che realizzano tali filmati se essi non gettassero una sinistra ombra sulla capacità dell’uomo e della donna di essere davvero solidali con chi cade. La risata in questo senso è una liberazione solamente delle dimensioni più tremende dell’istinto di autoconservazione: rido di chi cade perché potrei essere io al suo posto e non lo sono, perché io sono in piedi e al sicuro. I ragazzi che ridevano alla proiezione di Schindler’s List non sono poi diversi dai loro coetanei che schernivano: sono giovani, e forse occorre cercare di capire, ma non di troppo facilmente giustificare, la loro paura che non si è espressa in altro modo che nella risata sguaiata. Occorrerebbe chiedersi però in che cosa i loro professori sono diversi dai loro colleghi di 70 anni prima. Ma ridere significa anche altro: lo ha insegnato Moni Ovadia, lo insegna l’umorismo ebraico, lo insegnano tutti coloro che sanno davvero sorridere di sé e del mondo. La risata o il sorriso possono costituire un distanziamento dalle dimensioni del dominio: occorre allora che sia chiaro di che cosa si ride e in nome di che cosa lo si fa; si ride dei potenti in nome di una società migliore, e allora il riso è direzionato in modo specifico e spalanca nuove possibilità. In questi casi si ride del mondo che non è ancora se stesso, e il riso scoppia quando si confronta l’oggetto con il suo concetto e se ne nota lo iato e la distanza; scoppia il riso quando potrebbe anche scoppiare il pianto, come presa di coscienza di una deficienza, esibizione delle crepe dell’oggetto, constatazione di quanto l’oggetto non sia ancora se stesso.

    Rabelais

    Proprio questa dimensione del riso costituisce l’ironia, ovvero il distanziamento del soggetto dall’oggetto (dalla sua tracotanza, dalla sua pretesa di essere un idolo, da tutto ciò che di non autentico giace in esso); il lettore attuale del capolavoro di Francois Rabelais, Gargantua e Pantagruele si diverte per esempio con i lunghi elenchi; per il lettore contemporaneo di Rabelais questi elenchi erano un gioco con il linguaggio che prendeva in giro la teologia accademica e le sue inutili sottigliezze; si tratta di una critica al sistema pedagogico dell’epoca, la stessa che coinvolgerà il Montaigne contemporaneo di Rabelais e il suo conterraneo, più tardo di un secolo, René Descartes; una critica spietata, come è evidente nel curricolo di studi al quale è sottoposto il giovane Gargantua da un precettore noioso e pedante: «Hugutio, il Grecismo di Hebrard, il Dottrinale, le Parti, il Quid est, il Supplementum, il Mar­motteto, il De moribus in mensa servandis, il libro di Seneca: De quattuor virtutibus cardinalibus, il Pas­savanti con commento, il Dormi secure, per le feste, e vari altri della stessa farina».[3]
    Altrove invece gli elenchi sono squisitamente (è proprio il caso di dirlo!) di natura materiale e alimentare:

    «Ciò detto fu preparata la cena e in più del consueto furono arrostiti sedici buoi, tre manze, trentadue vitelli, sessantatre caprioli lattonzoli, novantacinque pecore, trecento porcellini di latte con salsa di mosto, duecento e venti pernici, settecento beccacce, quattrocento capponi del Ludunese e della Cornovoglia, seimila pollastri e altrettanti piccioni, seicento gallinelle, mille e quattrocento leprotti, trecento e tre ottarde e millesettecento capponcelli. Non molta cacciagione si poté procurare così all’improvviso; non v’erano che undici cinghiali inviati dall’abate di Turpenay e diciotto fra daini, cervi e caprioli regalati dal signore di Granmont, più venti fagiani mandati dal signore di Essars e qualche dozzina di colombacci, d’uccelli acquatici, di arzavole, tarabusi, chiurli, pivieri, francolini, oche selvatiche, pizzacheretti, vannelli, palettoni, pavoncelle, aironetti, folaghe, tadorne, gazze, cicogne, oche granaiuole, fiammanti (cioè fenicotteri) terragnoli, dindi, gran quantità di gnocchetti e rinforzo di minestre».[4]

    Ma anche qui occorre discriminare tra la nostra lettura di occidentali pasciuti del XXI secolo e quella ben differente dei lettori di un XVI secolo nel quale la fame mieteva quotidianamente centinaia di vittime.[5]
    È allora, quella di Rabelais, una ironia che parte dal bisogno materiale degli ultimi e lo trasforma in capo d’accusa contro lo spreco alle mense dei ricchi; operazione per certi versi simile pur nell’opposto punto di vista a quella di Giulio Cesare Croce (l’autore di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno) che narra la miseria materiale in strofe lucide quanto ironiche nel Lamento de uno povereto huomo contra la carestia

    E più il duol assai m’accora
    Nel vedere il mio bambino
    Dirmi spesso d’ora in ora
    «babbo, pan un pochettino».
    par che l’alma m’esca fuora
    non potendo al poverino
    dar aiuto, ahi sorte ria!
    Mala cosa è carestia.
    Se di casa esco fuora
    E per Dio chieda un quattrino
    Tutti dice « và, lavora»
    «và lavora «ahi fier destino!
    Non ne trovo, in mia buona ora.
    così resto a capo chino,
    ahi fortuna cruda e ria
    Mala cosa è carestia.
    Non ho in casa più covelle
    li lavezzi ho venduto
    e venduto ho le padelle,
    netto son tutto e per tutto
    Spesse volte de i gambusi
    li suoi torsi mi son pane,
    nella terra faccio busi
    per radici varie e strane
    e di quel ungiamo i musi:
    pur cen fusse ogni dimane
    ch’assai manco mal saria.
    Mala cosa è carestia.

    In Croce come in Rabelais è la dimensione corporea a sostenere l’ironia; è la conoscenza del corpo dell’uomo, in tutte le sue dimensioni (e il lettore di Rabelais sa benissimo quanta importanza l’autore francese attribuisce alle dimensioni corporee «indicibili»: la minzione, la defecazione, ecc.) a far sì che l’ironia possa essere al tempo stesso materiale (e dunque comprensibile a tutti) e sottilmente metafisica, nel suo tentativo riuscito di far dire alla materialità qualcosa di inatteso: appunto la critica sociale. Chi non potrebbe essere colpito, nel Cin­quecento squassato dalla fame, dalla descrizione della colazione di Pantagruel:

    «E poiché era per natura flemmatico, cominciava il pasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsicce e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l’una dopo l’altra senza tregua; poi ci beveva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava. Né a bere conosceva termine o regola, poiché, diceva, solo termine e confine del bere essere quando il sughero delle pantofole per rigonfiamento si alzasse di un mezzo piede».[6]

    Benni

    Si parva licet componere magnis ci permettiamo di accostare al capolavoro rabelaisiano (a proposito del quale non possiamo non consigliare la straordinaria analisi di Bacthin) [7] un libricino dell’umorista italiano Stefano Benni, Comici spaventati guerrieri:[8] un giallo metropolitano nel quale una strana alleanza tra un vecchio professore in pensione e un ragazzino ribelle porta a indagare su un efferato omicidio; una città che potrebbe essere Milano viene attraversata dalle acute indagini di questi guerrieri disarmati e dunque sia comici che spaventati. Ma sono proprio questi scalcinati personaggi che fanno la Storia, al di là dell’arroganza dei detentori del dominio, sempre gli stessi in tutte le epoche: «Nel libro di scuola per bambini che illustra quest’era lontana il bambino della storia cammina nel paesaggio minuscolo, tra grandi palazzi e felci, e i colori sono come dovevano essere quelli originali, o almeno come i colori dei reperti passati attraverso il tempo, e giunti fino a noi. Colori per cui abbiamo amato quel paesaggio. E che ci danno, anche ora, differenti felicità in ogni stagione».[9]

    Come già per la Morante del Mondo salvato dai ragazzini sono gli ultimi a poterci salvare; e soprattutto, come per Rabelais e per ogni riuscita opera ironica, sono gli ultimi a smascherare il potere e la sua violenza; con un sorriso e con un po’ d’amore, ironicamente strano da trovare intatto in questo mondo sbagliato, come uno tra i più grandi cantautori italiani ha recentemente sottolineato, parlando di ragazzi, in una canzone che non per nulla ha lo stesso titolo del libro di Benni:

    Hanno un mondo che avete
    storpiato ingannato tradito massacrato hanno un piccolo fiore dentro
    che c’è da chiedersi com’è nato
    e cercano di amare domani come ieri questi miei piccoli comici
    spaventati guerrieri
    e cercano di amare
    come uomini veri
    questi miei piccoli comici
    spaventati guerrieri.[10]

    La comicità disarmata è la migliore delle armi, oggi come ieri, per Rabelais come per Benni, per Vecchioni come per tutti coloro che sanno che un sorriso può cancellare un’arroganza, un delirio, un’offesa.

    NOTE

    [1] Il riso. Saggio sul significato del comico, Milano, Se, 2008.
    [2] Theodor Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa. Torino, Einaudi, 2979 pag. 176.
    [3] Francois Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Torino, Eiuandi, 2005 pag. 87.
    [4] Ivi, pag. 117.
    [5] Cfr. Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Milano, Garzanti, 2000
    [6] Ivi, pag. 231
    [7] Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, s.d.
    [8] Milano, Feltrinelli, 1990
    [9] Ivi pag. 117.
    [10] Roberto Vecchioni, Comici spaventati guerrieri, dall’album D’amore e di rabbia, 2009.


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