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    Metti Gesù nella tua vita,

    e vivrai una vita vera

    Scuola della fede

    Carlo Caffarra



    Introduzione

    L’INCONTRO CON CRISTO CHE CAMBIA LA VITA

    Questa catechesi davanti alla Madonna, nella sua casa, è come l’introduzione ai quattro incontri della Scuola della Fede. Vogliamo, in essa, vedere e comprendere come e perché l’incontro con Gesù cambia la vita, e ci dona la capacità di vivere una vita vera.

    1. Iniziamo dalla narrazione di alcuni incontri raccontati o nei Vangeli o in altri documenti.
    (A) Zaccheo incontra Gesù: Lc 19, 1-10. Zaccheo è un funzionario del fisco; anzi un capo. Per come era organizzata la raccolta delle tasse – l’Agenzia delle entrate, si direbbe oggi – si prestava a furti da parte dei funzionari. I pubblicani avevano perciò, fra i contemporanei di Gesù, fama di ladri.
    L’incontro di questo uomo con Gesù è singolare. Salito su un albero per vedere Gesù, si sente dire: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua". È in casa sua che Zaccheo incontra Gesù.
    Che cosa si sono detti? Quale è stata l’impressione che Gesù fece a Zaccheo? Sono domande a cui l’evangelista Luca non risponde. Narra la finale, che potrebbe in sintesi essere detta così: Gesù è entrato nella vita di Zaccheo; la vita di Zaccheo è cambiata; Zaccheo comincia una nuova vita. È questo che Gesù constata, dicendo: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa". Quale era il segno? "io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto", dice Zaccheo.
    Chi prendeva ingiustamente ciò che era degli altri, ora dona del suo. Zaccheo passa dalla logica del "prendere" alla logica del "donare".
    (B) Paolo incontra Gesù: Fil 3, 7-12. Io penso che non esista una vicenda come quella di Paolo che dimostri come l’incontro con Gesù cambi la vita di una persona.
    Come avviene l’incontro di Paolo con Gesù? Come avete sentito, l’apostolo lo descrive colle seguenti parole: "sono stato conquistato da Gesù Cristo". Riflettete a lungo su questa parola. Essere conquistati significa, denota l’irruzione di una Presenza nella tua vita, alla quale, per il fascino che essa esercita, ti è difficile resistere. È una Presenza che si impone con una potenza straordinaria.
    Che cosa affascinò Paolo, fino al punto da esserne conquistato? "mi ha amato e ha dato se stesso per me" [Gal 2, 20]. Nel momento in cui Paolo ha "visto" questo amore, ha compreso che questo era tutto, non ciò che faceva, anche di bene. È rimasto come accecato dallo splendore della Presenza di Gesù – per qualche tempo anche fisicamente –, ma in realtà ha cominciato ad avere la visione vera di tutto.
    La vita di Paolo uscì da questo incontro veramente cambiata: una vera rivoluzione. Lo esprime nel modo seguente: "quello che per me poteva essere un guadagno, l’ho considerato una perdita. Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore". Cristo, come era accaduto a Zaccheo, è una tale forza che cambia tutta la tua persona: "chi è in Cristo è una nuova creatura".
    (C) E. Stein incontra Cristo. Facciamo un salto di molti secoli e parliamo di una donna fra le più grandi del secolo scorso, canonizzata da Giovanni Paolo II, fattasi carmelitana col nome di Sr. Teresa Benedetta della Croce. La sua è una vicenda molto singolare.
    E. Stein si professò atea dai tredici ai ventun anni, e quindi attorno ai quattordici anni, scrive di se stessa, "consciamente e per libera scelta, abbandonai l’abitudine di pregare". All’università di Gottinga studia filosofia sotto la guida di uno dei più grandi filosofi del secolo scorso, E. Husserl.
    Come avvenne l’incontro di Edith con Cristo? Furono tre fatti.
    Il primo accadde nel 1917 [Edith aveva ventisei anni]. Uno dei suoi amici più cari, Adolf Reinach, suo tutor nella ricerca filosofica, muore al fronte. Incaricata di riordinare i manoscritti dell’amico, ella non aveva il coraggio di incontrare la vedova coi tre bambini. "L’incontro colla signora Reinach, tuttavia, le riservò una sorpresa: la dubbiosa e disperata Edith fu consolata da quella donna di fede che non era spezzata dal dolore. Quest’esperienza sconvolse la giovane atea, che si trovò… proiettata in quel mondo a lei sconosciuto gravitante attorno a Cristo" [W. Herbstrith (a cura di), Edith Stein. Vita e testimonianze, Città Nuova ed., Roma 1987, 28-29]. Edith cominciò a leggere il Vangelo.
    Il secondo fatto ha… dell’incredibile. Durante una gita a Francoforte, entrò come turista in Cattedrale. Ad un certo momento sopraggiunse una donna, ancora con la sporta della spesa sotto il braccio, e si inginocchiò su una panca, depose la sporta e cominciò a pregare. Edith scrive: "mai potuto dimenticare quell’episodio". Che cosa la colpì? Che una donna semplice ed umile avesse un senso così profondo del mistero di Dio, da parlargli durante le sue faccende quotidiane. Per quella donna Dio era una realtà al contempo molto familiare: le parlava con le sporte del mercato accanto. E assai potente: a lui diceva le sue difficoltà.
    Il terzo fatto avvenne quando Edith aveva trent’anni. Attanagliata dentro una grave crisi spirituale, così profonda che ne risentì anche la sua salute fisica, fu invitata da una coppia amica nella casa di campagna. Una sera, entrata nella biblioteca di famiglia, si imbatté nell’autobiografia di S. Teresa d’Avila. Ne rimase talmente affascinata che continuò a leggere per tutta la notte. Quando terminò la lettura, si disse: "questa è la verità". Comprese che Dio, della cui esistenza aveva dubitato per anni, l’amava e attendeva da lei di essere riamato.
    Nel 1922 ricevette il battesimo cambiando pertanto il nome in Teresa, e nel 1933 entrò nel Carmelo di Colonia. Morì nelle camere a gas in un campo di concentramento nazista, perché ebrea.
    L’incontro di Edith con Cristo fu il termine di un lungo percorso di riflessione, orientato sempre da una profonda onestà con se stessa.
    (D) Il quarto incontro con Gesù… è finito male: cfr. Mt 19, 16-21. È l’incontro di Gesù con un giovane che gli domanda: "che cosa devo fare di buono, per avere la vita eterna?". Più che una domanda e un desiderio di conoscere nuove regole di vita, è una domanda e un desiderio di una vita vera, di una vita piena di senso. È evidente che questo giovane, come Zaccheo, aveva sentito un’attrazione verso Gesù: gli rivolge la domanda più urgente della sua vita. L’incontro è, in questo caso, un vero e proprio dialogo fra Gesù e il giovane. E Gesù ama questo giovane desideroso di vivere una vita vera. E gli fa la proposta definitiva: "vendi tutto ciò che hai e seguimi". Gli propone cioè un’amicizia, una comunione libera da ogni altro legame. Gli propone di aderire alla sua persona; di condividere la sua vita ed il suo destino.
    Il giovane "sente" che Gesù intende che il suo cuore non condivida altri attaccamenti all’infuori dell’attaccamento alla persona di Gesù. "Ma udito questo, il giovane se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze".
    L’incontro in senso vero e proprio non avviene, e la tristezza entra nel cuore del giovane. Aveva buttato via l’occasione più grande della sua vita; aveva perso l’appuntamento colla felicità.

    2. In questa seconda parte della catechesi proviamo a considerare i quattro incontri nel loro insieme. Questa considerazione d’insieme ci farà vedere alcuni tratti comuni ad ogni incontro.
    Il primo è il profondo interessamento che Gesù ha della nostra persona. Una volta disse a S. Caterina da Siena: "non per scherzo ti ho amata". Ciascuno di voi, il destino di ciascuno di voi, la qualità della vostra vita ha per Lui un grande interesse. Desidera per voi il bene, solo il bene, tutto il bene. L’incontro con Gesù è sempre l’incontro con una persona dalla quale ci si sente amati. Tutto il resto viene dopo: "mi ha amato e ha dato se stesso per me".
    Il secondo tratto comune è che Gesù imbastisce, programma l’incontro dentro la vita ordinaria, quotidiana. È molto raro che l’incontro avvenga per eventi straordinari. Ricordate la vicenda di E. Stein: la reazione di una vedova alla morte di suo marito; vedere una donna che si "prende la libertà" di parlare con Dio in mezzo alla faccenda più normale per una casalinga: fare la spesa; leggere un libro, cosa assai normale per una prof. di Filosofia. La porta attraverso cui entra Gesù è la tua vita quotidiana.
    Deriva da tutto questo una conseguenza pratica assai importante. Abbiate una coscienza vigile: Gesù di solito entra in punta di piedi. Sappiate – cosa oggi assai difficile – avere momenti di silenzio nella vostra vita. Quando vedo ragazzi e ragazze che girano avendo nelle orecchie perennemente gli auricolari dell’Iphone, per sentire musiche o altro, che pena! E dico: "ma quando potranno essere un po’ soli/e?".
    Non illudetevi: l’agriturismo spirituale non serve. Cioè: passare un giorno o due in qualche convento. È la vostra vita quotidiana il luogo dell’incontro. È per questo che Agostino scrive: "temo che il Signore passi, ed io non me ne accorga".
    Il terzo tratto caratteristico è che Gesù non sfonda la porta: bussa. L’incontro con Gesù è un fatto di libertà; è l’incontro di due libertà, perché è un incontro d’amore. Sembra che ciò non sia accaduto con Paolo. Ma non è così. Anzi, Paolo sarà colui che esalterà di più la libertà di chi ha creduto a Gesù ed in Gesù.
    Il rispetto che Gesù ha per la nostra libertà può manifestarsi in tanti modi. A volte prende la forma della pazienza. Pensate ad E. Stein: l’ha tallonata per vent’anni, circa. Pensate al giovane ricco del Vangelo: "se vuoi" gli dice Gesù.
    A Gesù non piacciono i conformisti; coloro che seguono il "ma tutti dicono così". Chiede a chi incontra che risponda alla proposta con libertà vera.
    Il quarto tratto caratteristico è che incontrando Gesù la vita cambia; anche se non sempre nello stesso modo.
    Gesù a Zaccheo non chiede ciò che propone al giovane ricco. A questi propone anche di cambiare stato di vita: "vendi tutto e vieni a vivere con me". A Zaccheo, intimamente trasformato, non chiede questo. Egli continua a fare l’esattore delle tasse, ma non ruberà più, non opprimerà più i poveri, condividerà le sue ricchezze con chi è nel bisogno. Altre volte, Gesù stesso chiede mediante la Chiesa di aspettare a mettere in atto la decisione. E. Stein aspettò quasi dieci anni prima di entrare nel Carmelo, perché così le impose il suo direttore spirituale, per non dare un dolore troppo grande alla madre, la quale aveva subito in quel periodo molti e gravi disgrazie.
    Cari amici, tocchiamo un punto fondamentale della nostra vita. Hai incontrato il Signore? Ascolta bene quale vita nuova vuole donarti: il sacerdozio, la consacrazione verginale, il matrimonio. Se non ti è chiaro, prega: "Gesù, che cosa vuoi che io faccia per corrispondere al tuo amore?".
    A questa domanda fattagli subito da Paolo, Gesù non risponde, ma gli dice: "vai a Damasco, da Anania. Lui ti dirà". È assolutamente necessario che abbiate un sacerdote che vi guidi.
    Concludo. All’inizio vi ho detto che questa catechesi è l’introduzione alla Scuola della Fede. In essa noi precisamente rifletteremo su come e perché l’incontro con Gesù cambia la vita: fa vivere una vita vera; una vita buona e felice.

    (Basilica di S. Luca, 16 ottobre 2013)


    1. LA RESPONSABILITÀ DI SE STESSI

    Nella catechesi introduttiva scorsa abbiamo constatato come l’incontro con Cristo cambi la vita. Non è stato solo un momento della propria esistenza: è stato un inizio. Zaccheo ha continuato a fare il pubblicano, ma non rubava più.
    E. Stein è entrata in Carmelo.
    In questa catechesi cercheremo di rispondere alla seguente domanda: come può la persona incontrata ricostruire la sua vita? Dovrete prestare attenzione. Se mi seguite, vi conduco alla scoperta di una dimensione della vostra persona semplicemente stupenda.

    1. [Atto e Persona]. Partiamo da una costatazione molto semplice. Ci sono attività che accadono nella nostra persona, ma che non sono della nostra persona. In questo momento nella vostra persona esiste l’attività cardiaca; se avete mangiato da poco esiste l’attività digestiva. Sono dinamismi, quello del cuore e quello dello stomaco, che non sono messi in azione dalla persona in cui sono.
    Pensate ora al giovane incontrato da Gesù: "se ne andò triste", dice il Vangelo. L’attività di voltar le spalle a Gesù ed andarsene è uguale, è equiparabile all’attività cardiaca o digestiva? Non è difficile capire che sono profondamente diverse. In che cosa?
    L’atto del giovane è un atto della sua persona. Che cosa significa "della sua persona"? Al fondo, un atto di libertà. Vedete che muovendo i primi passi della nostra Catechesi siamo già arrivati ad una grandiosa scoperta: è mediante la sua libertà che la persona entra in azione; che la persona agisce. Un grande filosofo ha scritto: "La qualificazione originaria fondamentale dell’uomo è la libertà" [C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, PIEMME, Casale Monferrato 2000, 177].
    Procediamo, partendo ancora da una costatazione. Se uno pensa un triangolo, non diventa un triangolo; se uno compie un furto, diventa un ladro. Se uno pensa spesso alla dottrina cristina, non diventa cristiano fino a quando non decide di diventarlo. Non si può essere cristiani, senza aver mai deciso di diventarlo.
    Fate bene attenzione, perché questo è un fatto centrale nella nostra vita. Il pensare non mi fa divenire ciò che penso; la decisione della libertà – l’atto libero – mi fa diventare ciò che decido. In questo senso, la decisione della libertà è creativa.
    Fermatevi un momento a riflettere e capirete perché i Padri della Chiesa dicevano che noi siamo immagine di Dio soprattutto perché siamo liberi. Dicevano che ciascuno è padre e madre di se stesso.
    Dunque ciascuno diventa ciò che decide nei e con i suoi atti liberi. Ora dobbiamo un momento fermarci su questo fatto: la persona umana attraverso i suoi atti forma se stessa.
    Provate ora a mettervi davanti due persone che si sono realizzate mediante i loro atti: A. Hitler e M. Teresa. Se voi le confrontate provate come un "senso di disgusto" verso la prima; un "senso di meraviglia, stupore" nei confronti della seconda.
    Quando vivete questa esperienza, non difficile da provare, in essa voi avete percepito una verità molto profonda riguardante non più solamente Hitler e M. Teresa, ma anche ciascuno di noi, ogni persona umana. La verità è la seguente: possiamo realizzarci bene o possiamo realizzarci male; possiamo vivere una vita buona o possiamo vivere una vita cattiva. Possiamo infatti agire bene e possiamo agire male; è l’atto [della libertà], come abbiamo visto, che realizza la persona. E ciò può accadere bene o male.
    Alcune considerazioni prima di passare oltre. L’io-persona è immortale. Quindi nel tempo con i suoi atti, ciascuno di noi costruisce il proprio volto eterno.
    Il quotidiano non è mai banale se non siamo noi a renderlo tale. Il quotidiano è fatto di atti, scelte, decisioni mediante le quali la persona costruisce il suo destino eterno.
    "Compiere un’azione" non significa solamente far accadere qualcosa all’esterno. Un muratore compie l’azione di costruire una casa; accade qualcosa all’esterno: sorge una nuova casa. Significa anche e soprattutto proseguire nella costruzione della persona, di se stesso; il muratore non fa solo accadere qualcosa di esterno, ma anche e soprattutto lavora per una dignitosa esistenza della famiglia. Compie cioè un atto che è in sé bello, giusto, buono e quindi si realizza bene.
    Il lavoro, come ogni atto della persona, ha una dimensione oggettiva, produttrice, esteriore; ma soprattutto una dimensione soggettiva, auto-realizzatrice, interiore. Questa ultima considerazione ci apre la strada per fare un passo avanti nella nostra riflessione.

    2. [Persona e coscienza]. Ora andiamo un po’ nel difficile, ma se prestate attenzione scoprirete delle verità riguardanti la vostra vita veramente affascinati.
    Partiamo da un dato già acquisito nel numero precedente: compiendo un atto, l’uomo realizza in esso se stesso; diventa, come persona, buono o cattivo.
    Domandiamoci: in base a che cosa ognuno di noi discerne ciò che è bene da ciò che è male, dunque da un auto-realizzazione buona o cattiva?
    Partiamo da un esempio. Noi sappiamo distinguere un cibo dolce da un cibo amaro perché abbiamo il "senso del gusto". Sappiamo conoscere i colori distinguendoli perché abbiamo il "senso della vista". Esiste anche un "senso del bene/del male" mediante il quale sappiamo distinguere un atto buono da un atto cattivo? Esiste ed è la coscienza morale. È l’occhio interiore di cui parlava anche Gesù.
    Il compito della coscienza consiste nel conoscere la verità circa il bene o il male di ciò che sto facendo, e nel farmi "sentire" il dovere corrispondente a questo bene/male. Fate bene attenzione. La funzione della coscienza non è semplicemente dire: il furto è male oppure aiutare un povero è bene. La funzione cioè della coscienza non è di farci conoscere una verità di carattere generale. Ma è di coinvolgere nel giudizio la persona; nel legare/obb-ligare la libertà della persona concreta alla verità circa il bene. Vi faccio un esempio.
    L’apostolo Pietro, lo ricordate, nella sera della Passione interrogato se faceva parte degli amici di Gesù, negò e spergiurò perfino di non averne sentito parlare. Possiamo dire che semplicemente Pietro ha negato la verità di un dato di fatto? Certamente, ma non soprattutto. Pietro negando quella verità, prevaricando contro quella verità, in quel momento ed in quel contesto, ha tradito l’amico: ha compiuto un atto indegno della sua persona. Ha deturpato, degradato se stesso; ha prevaricato contro se stesso. Infatti, Pietro che afferma che non conosce Gesù, che al contrario conosceva molto bene, devia non solo da una verità ben nota a tutti. Egli, lui Pietro, non altri, devia anche da se stesso.
    Riflettete a lungo su questo fatto, e comprenderete che la coscienza ha la funzione non di insegnarvi semplicemente delle regole da osservare. Ha la funzione di mostrare alla persona la verità delle scelte che sta per compiere, delle decisioni che sta per prendere, in ordine alla realizzazione di se stessi. La coscienza ti dice: l’atto che stai per compiere non ti realizza veramente, ti degrada come persona. La coscienza, quindi si esprime in un giudizio: l’atto che stai per compiere è buono. Ma il giudizio della coscienza rapporta la verità conosciuta colla libertà, nella forma del dovere. Il dovere è l’esperienza della dipendenza della nostra libertà dalla verità circa ciò che è bene/ciò che è male, insegnatoci dalla nostra coscienza.
    Ciò che ti intima la tua coscienza riguarda la tua persona come tale. Ubbidendo/disobbedendo ad essa, l’uomo diventa buono o cattivo, semplicemente come uomo. La realizzazione o la non-realizzazione di se stessi passa attraverso il giudizio che la coscienza dà su ciò che stiamo decidendo.
    La coscienza non è infallibile; può sbagliare. Può essere una coscienza falsa. Essa dunque deve essere educata. Spero di ritornare su questo punto. Mi limito ad accennare un aspetto del vastissimo tema dell’educazione della coscienza morale alla verità.
    Le radici di una coscienza falsa sono molte. Ne accenno alcune, così che le estirpiate dalla vostra persona.
    - Il conformismo a "ciò che si dice, a ciò che si fa…" è radice di molti errori nella vostra coscienza: identificare il vero con ciò che pensa la maggioranza, ed il falso la minoranza: la minoranza sbaglia sempre!
    - La mancanza di "modelli". Comprendo che non ne siate responsabili. Non sempre noi adulti siamo per voi modelli di coscienze rette. Ma esistono ancora i santi. Leggete la vita dei santi canonizzati.
    - I peccati contro la castità obnubilano in particolare l’occhio interiore.
    S. Tommaso scrive: "dall’uso sregolato della sessualità nasce la cecità della mente, tale che impedisce quasi totalmente la conoscenza dei beni spirituali" [2,2,q. 15, a.3].

    3. [Coscienza ed incontro con Gesù]. Ripercorriamo il percorso fatto. (a) Esiste una differenza essenziale tra ciò che accade nella persona ma non è della persona, e ciò che è della persona. (b) È pienamente della persona l’atto della libertà: la scelta e la decisone. (c) Attraverso l’atto della libertà, la persona costruisce se stessa: diventa padre e madre di se stessa. (d) Nell’edificazione di se stessa, nel cammino verso la realizzazione di se stessa, la persona è guidata dalla coscienza, la quale, purtroppo, può anche sbagliare od indicare vie false.
    A questo punto, voi forse vi chiederete: che cosa c’entra tutto questo con l’incontro con Gesù?
    Parto da un testo molto bello della S. Scrittura. "Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto" [Eb 11, 24-26].
    Confrontate Mosè con Pietro. Mosè si trova a dover scegliere fra una vita a corte, di onori e di potere e una vita di condivisone col suo popolo, disonorato e disprezzato. Esattamente Pietro: si trova a dover scegliere tra salvarsi la vita tradendo l’amico, o obbedire alla verità mettendo a rischio la sua vita.
    Mosè, la coscienza di Mosè ha "sentito" essere "ricchezza maggiore" stare dalla parte dell’oppresso piuttosto che dalla parte dell’oppressore: e obbedì al giudizio della sua coscienza. Pietro tradì se stesso prevaricando contro la verità.
    Perché Zaccheo decide di cambiare vita? Perché l’incontro con Gesù ha illuminato la sua coscienza. E Zaccheo "sente" che la vita vera non è rubare, ma condividere.
    L’incontro con Gesù è una luce che illumina la coscienza della persona. Essa comincia a giudicare non essere vero bene, cioè che non può realizzare se stessa, se non vivendo con Gesù.
    Ora capite perché ho parlato dell’atto della persona, dell’atto della libertà illuminato dalla luce della coscienza. O l’incontro avviene a questo livello o non avviene affatto. È nella profondità della persona che Gesù entra.

    (Seminario, 30 ottobre 2013)


    2. LIBERTÀ E LEGGE

    La volta scorsa abbiamo visto che la costruzione della nostra vita mediante i nostri atti è guidata dalla nostra coscienza: è come l’occhio del nostro cammino spirituale.
    Dobbiamo ora chiederci: quale è la luce che illumina questo occhio? Uno può avere occhi sanissimi, ma al buio non vede nulla; ha bisogno della luce.
    Fuori di metafora. In base a quali criteri la coscienza ci guida coi suoi giudizi? Vi renderete conto, se presterete attenzione, che la risposta a questa domanda è di importanza fondamentale, se volete essere persone vere.

    1. [La legge morale]. Partiamo, come sempre, da una constatazione molto semplice. Quando abbiamo fame, sentiamo inclinazione a mangiare; quando abbiamo sete, sentiamo inclinazione a bere. Esistono dunque nella nostra persona delle inclinazioni orientate verso beni fondamentali per l’uomo: il cibo, l’acqua ed altri.
    Esistono altre inclinazioni che non sono esattamente della stessa natura di quelle dette prima, e che abbiamo come quelle in comune con gli animali. Quando siamo di fronte ad un pericolo, sentiamo paura e cerchiamo di evitarlo. A volte, diciamo, "ci alziamo colla luna storta", con un senso di malessere che ci fa soffrire, e desideriamo uscirne. Esistono dunque nella nostra persona delle inclinazioni orientate verso il benessere psicologico della persona.
    Possiamo allora dire: esistono nella persona umana inclinazioni inscritte – se così posso dire – nella persona in quanto organismo vivente (le prime); esistono nella persona umana inscritte in essa in quanto soggetto psichico (le seconde). Esistono altre inclinazioni?
    Provate a guardare dentro di voi. Esiste, per esempio, una inclinazione a vivere in società. Ma non in qualsiasi modo: una società di persone libere, uguali… Diciamo: una inclinazione a vivere in una società giusta. Oppure [è lo stesso]: a vivere nella giustizia.
    Facciamo un altro esempio. S. Agostino scrive che ha conosciuto molti che ingannano gli altri, ma non ha mai conosciuto una persona che vuole essere ingannata. Esiste nella nostra persona una inclinazione alla [conoscenza della] verità; ad essere nella verità. Se uno vi chiede: "vuoi essere felice?", voi rispondete: "certamente". E se l’altro continua, e vi dice: "veramente felice o falsamente felice?", voi – sono sicuro – risponderete: "veramente felice".
    Abbiamo dunque constato che non esistono nella nostra persona solamente inclinazioni fisiche, psicologiche, ma anche spirituali.
    Sono inclinazioni naturali. Cioè: non sono frutto di ragionamento; non sono decisioni. Sono un patrimonio della nostra umanità; sono come sementi piantate fin dalla nascita nella nostra umanità.
    Dobbiamo ora fare un passo avanti nella nostra riflessione. Uno degli esempi fatti era che abbiamo un’inclinazione naturale a vivere in una società giusta. Ma è inevitabile che ci chiediamo: quando una società è giusta? A questa domanda l’inclinazione naturale non sa più rispondere.
    È il lavoro della nostra ragione che deve interpretare continuamente questa inclinazione. Mi spiego con un esempio, più semplice. Esiste – come abbiamo detto – l’inclinazione al cibo. Ora la nostra ragione ci dice: si mangia per vivere; non si vive per mangiare. La ragione inserisce una misura nella nostra inclinazione al cibo. Fate bene attenzione. Non è che la ragione di cui sto parlando dica: se mangi troppo, la tua salute può risentirne. Questo è il bene dell’organismo umano, cioè della persona in quanto vivente. La ragione di cui sto parlando intravede nell’inclinazione al cibo un bene che è il bene proprio della persona come tale: il bene della temperanza. L’intemperanza non fa male solo alla salute; l’intemperanza è contro la dignità della persona umana come tale. La nostra persona mediante la ragione è in grado di conoscere, di indicarci la giusta direzione del nostro libero agire.
    I giudizi della ragione mediante i quali facciamo ordine nelle nostre inclinazioni, vi imprimiamo una misura, ed indichiamo alla nostra libertà la via perché compia atti che realizzino veramente la persona, sono chiamati leggi morali.
    In breve. Che cosa sono le leggi morali? Sono giudizi della nostra ragione, in quanto regolamenta le nostre inclinazioni. Le leggi morali possono quindi essere chiamate anche leggi della ragione.
    Considerate per un momento la grandezza della vostra persona. Essa è dotata di una sublime regalità, non avendo padroni esterni al suo io, come l’istinto. La vostra persona si governa autocraticamente: colla sua ragione scopre la via verso il bene e liberamente lo può realizzare.
    Conoscete sicuramente la vicenda di Antigone. Il fratello Creonte, re di Tebe, aveva dato ordine, sotto pena di morte, di non seppellire Polinice, loro fratello, perché aveva tradito. A questo ordine Antigone disobbedisce, dicendo: "Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere ad un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili…: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne….chi mi accusa di follia, forse è lui il folle" [Soficle, Antigone, Secondo Episodio]. Vedete la sublime regalità di Antigone nei confronti della tirannia del fratello? E non è un "potere" che si oppone ad un altro potere. È il potere dei "senza potere": il potere della ragione, cioè della verità del bene.
    Restano da chiarire due punti, assai importanti.
    Il primo. Non è che ciascuno debba cominciare tutto da solo e da capo. È nella comunità, all’interno dei legami significativi di appartenenza che ciascuno di noi diventa gradualmente un vero soggetto responsabile di se stesso ed entra nell’universo della verità circa il bene. Sono le figure fondamentali dell’esistenza: la paternità, la maternità, la figliazione a generare il soggetto.
    Il secondo. La nostra ragione è comunque fragile, esposta all’errore anche grave. Ma il nostro Creatore ci è venuto incontro, indicandoci Lui stesso la via della vita. Egli ci ha detto Dieci Parole, che ci dicono come agire/come non agire se vogliamo vivere una vita vera e buona: i dieci Comandamenti.
    Concludo questo punto con una citazione del Concilio Vaticano II. "La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali e non per un cieco impulso interno e per mera coazione esterna. Ma tale dignità l’uomo la ottiene quanto, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene". [Cost. Past. Gaudium et spes 17; EV1/1370].

    2. [Gesù, via alla vita]. Al giovane che chiese a Gesù: che cosa devo fare? Gesù risponde: osserva i comandamenti.
    È ciò che ho cercato di spiegare nel numero precedente. Ma questo non basta, se volete realizzare in pienezza la vostra persona: vivere una vita vera, buona. Ed infatti Gesù dice al giovane: "se vuoi essere perfetto….vieni e seguimi".
    Che cosa significa "seguire Gesù"? possiamo partire dalla immagine che ci viene suggerita dalla parola stessa "seguire". Esiste una persona di cui abbiamo fiducia, che ci precede. Noi seguiamo. Facciamo cioè la sua stessa strada. S. Giovanni nella sua prima lettera dice esattamente: camminare come Gesù ha camminato. Non usiamo anche noi l’espressione "il cammino della vita"? E Dante: "Nel mezzo del cammin di nostra vita".
    Usciamo dall’immagine. Seguire Gesù significa vivere come Gesù ha vissuto. Sono sicuro che però sorge in voi una difficoltà: come faccio a vivere come è vissuto Gesù, io che vivo duemila anni dopo, in un contesto completamente diverso? La difficoltà è molto seria.
    Seguire Gesù non significa vivere esattamente come Lui. Significa conoscerlo così intimamente, da assimilare il suo modo di pensare; il suo modo di valutare cose e persone; il suo modo di amare. Tu vivi come Gesù, perché nella tua condizione pensi, valuti, ami come Gesù avrebbe fatto, se avesse vissuto la tua vita.
    Quando Gesù fa il primo annuncio chiaro della sua passione, Pietro reagisce in modo violento. Egli non pensava ancora come Gesù. Anche se fisicamente lo seguiva, però in realtà non lo seguiva.
    Voi capite che questa assimilazione a Cristo non è opera di un giorno, ma di una vita.
    Ma è opera nostra, cioè della nostra libertà? Principalmente no. È Gesù stesso che, se non ci opponiamo, ci assimila a sé. In due modi fondamentali.
    Il primo modo è il sacramento dell’Eucarestia. È stato S. Agostino a fare per primo la seguente annotazione: tu non assimili il cibo eucaristico che mangi, ma è il cibo eucaristico – cioè Gesù – che ti assimila a se stesso. È un metabolismo all’inverso. Agostino aveva cominciato ad intravedere come da lontano la bellezza della vita cristiana, ma sentiva tutte le difficoltà. Sentite cosa scrive: "Hai percosso il mio occhio ammalato, colpendomi con veemenza con i tuoi raggi, e io ho tremato di amore e di terrore. E mi scoprii lontano da Te, esule in una regione della diversità, e mi sembrava di udire la tua voce dall’alto che diceva: Io sono il cibo degli adulti, cresci e ti nutrirai di me. Tu però non mi trasformerai in Te come cibo della tua carne, ma sarai tu che ti trasformerai in Me". [Confessioni VII 10, 16].
    Ma questo non è tutto. Gesù ci dona lo Spirito Santo che ci guida colla sua luce e le sue spinte o mozioni ad essere sempre più simili a Gesù. S. Paolo arriverà a dire: "non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me".
    Possiamo concludere. La nostra coscienza, vero occhio interiore che ci guida verso la realizzazione della nostra persona, è illuminata da una duplice luce: la luce della ragione, la luce di Gesù ["Io sono la luce, chi segue me, non cammina nelle tenebre"] che arriva in noi mediante la finestra della fede.

    (Seminario, 13 novembre 2013)


    3. PECCATO E REDENZIONE

    Devo iniziare questa catechesi con un grande "MA" avversativo, grande come il Monte Bianco. In che senso?
    La scorsa catechesi ci ha mostrato la nostra splendida regalità, MA guardando più in profondità in noi stessi, scopriamo che è una regalità decaduta. Perché? In che senso?

    1. [Il peccato come male morale]. Sono sicuro che tutti ci ritroviamo nel detto di Ovidio: "video meliora proboque, et deteriora sequor [vedo il bene e lo approvo, e faccio il male]". Anche S. Paolo narra la stessa esperienza. "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio faccio, ma quello che detesto" [Rom 7, 14].
    Vediamo di analizzare accuratamente questo fatto, che accade spesso dentro di noi; semplifico un poco.
    Nella catechesi scorsa abbiamo visto che la nostra ragione, soprattutto se illuminata dalla fede, conosce la verità circa il bene e il male. [Vedo il bene, dice Ovidio]. Pietro posto nel dilemma di tradire l’amicizia con Gesù o rischiare la vita, vede chiaramente quale è il bene e quale è il male. Lo vede, non perché c’è qualcuno che glielo insegna, ma è la sua ragione che glielo mostra e la sua coscienza che personalizza questa verità: "tu non devi tradire Gesù". Possiamo dire la stessa cosa anche nel modo seguente: è Pietro che si sente legato, ob-ligato non da un’autorità esterna; non da una consuetudine sociale; non per le eventuali conseguenze a cui andrebbe incontro. È legato, ob-ligato dalla verità che ha scoperto [proboque, dice Ovidio]. È la luce della verità che lo incatena.
    Nella catechesi precedente abbiamo spiegato che questa esperienza; essere legati, ob-ligati, avviene in ciascuno di noi.
    Pietro tradisce. La nostra libertà può rifiutarsi di mettere in atto il bene conosciuto colla ragione [deteriora sequor, dice Ovidio]. La nostra persona colla sua scelta libera nega ciò che colla sua ragione ha affermato. Si introduce nella persona una vera e propria divisione o spaccatura: non faccio ciò che interiormente vedo che devo fare; non confermo colla mia scelta la verità conosciuta circa il bene della mia persona. Sono autore e vittima. "Ma se c’è in me la verità – deve esplodere. Non posso rifiutarla, rifiuterei me stesso" [K. Wojtyla].
    La scelta libera della persona, colla quale essa rifiuta la verità conosciuta circa il bene, ha un nome: è il peccato. È il male della persona come tale. Riflettiamo un momento su questo.
    La malattia fisica o psichica è un male della persona; non "tocca" però la persona come tale, ma la persona come organismo vivente. E la persona può anzi fare buon uso della sua malattia.
    Il male morale o peccato riguarda la persona come tale. Deturpa la persona come tale. E poiché la persona è ciò che esiste di più prezioso nell’universo, il male morale o peccato è il male più grande che esista. Non può esistere un male peggiore.
    Sentite che cosa scrive il b. J.H. Newman: "Sarebbe meglio che il sole e la luna cadessero dal cielo…piuttosto che una sola anima, non dico, vada perduta, ma commetta un solo peccato veniale" [Apologia pro vita sua, ed. Paoline, 387].
    Non vi sembri esagerata la cosa. Posso distruggere completamente l’affresco della Cappella Sistina, ma posso rovinarlo anche versandovi sopra un colore. La bellezza della persona umana è più preziosa di un affresco di Michelangelo. Deturparla è cosa più grave che deturpare una stupenda opera d’arte. E la deturpazione consiste, lo ripeto, nella decisione di negare con l’atto della scelta la verità che la persona riconosce come verità colla sua propria coscienza.
    Prima di procedere, devo mettervi in guardia da un fatto sul quale purtroppo non possiamo riflettere come meriterebbe. Viviamo in una cultura che dispensa l’uomo dalla fatica, dal dramma della libertà. Questa dispensa prende soprattutto due forme.
    La prima. La colpa, il male morale non trova la sua origine ultima in una decisione della volontà, ma nella società, nei condizionamenti sociali.
    La seconda è più grave. Essa consiste nel pensare che coscienza, libertà siano fatti neurobiologici. È negata l’emergenza dell’uomo nella natura. Emergenza significa l’apparizione in natura di un essere, per il quale non si possiedono modelli che ci permettano di riprodurlo in base alle leggi fisico-chimiche: non è la stessa cosa costruire un robot e un uomo vivo.
    Fate molta vigilanza colla vostra ragione. Non lasciatevi scacciare dal grande dramma della vita: il dramma della libertà.

    2. [La redenzione dell’uomo]. Abbiamo detto che mediante i suoi atti la persona realizza se stessa. Da quanto abbiamo appena detto risulta che la persona può realizzarsi male. Qualcuno potrebbe dire: è il rischio della libertà. E questo è vero. Ma con questa costatazione il discorso non è chiuso. Anzi.
    Una vita sbagliata è una vita priva di senso: non ha ragione, per esserci. Manzoni e Shakespeare hanno scritto al riguardo pagine straordinarie e famose. Che casa accade quando una persona prende coscienza di aver vissuto una vita falsa? Può forse – direbbe Nicodemo – rientrare nel seno di sua madre e riprendere da capo? Lasciamo per il momento in sospeso queste domande e andiamo ad una pagina del Vangelo: l’incontro di Gesù con una donna colta in flagrante adulterio. La legge di Mosè [e quella dei paesi islamici oggi] era chiara: doveva essere lapidata.
    I nemici di Gesù sono scaltri. Lo mettono – pensano – in una situazione che ha solamente due vie d’uscita, e ambedue sono dal punto di vista di Gesù impercorribili: o proibisce la lapidazione ed allora Gesù nega la verità circa il male dell’adulterio; o afferma questa verità e quindi dice di lapidare la donna. Era, in fondo, la situazione in cui venne a trovarsi l’Innominato durante la famosa notte.
    In realtà Gesù rivela e alla donna e ai suoi accusatori che esiste una terza via: il perdono. "Neppure io ti condanno; va e non peccare più".
    Fermiamoci a riflettere sull’evento del perdono. Non è facile a capirsi perché è il fatto più divino che possa accadere su questa terra. S. Tommaso dice che è più grande dell’atto con cui Dio ha creato l’universo.
    Cominciamo dal togliere alcuni antropomorfismi. Quando diciamo: "Dio perdona", non significa che Egli fa come se tu non avessi peccato; come se dicesse: "da questo momento in poi facciamo finta che tu non hai peccato".
    "Dio perdona" non significa che Egli trova sempre delle scusanti per cui alla fine ti dice: "stai tranquillo, non hai fatto nulla di male". Gesù alla donna dice: "non peccare più". Non la scusa; non la consola.
    Per cominciare ad entrare dentro al grande mistero del perdono, possiamo usare un esempio. Il medico di fronte all’ammalato non si limita a consolare, a dare calmanti, ma - per quanto possibile – toglie la malattia.
    "Dio perdona" significa che Dio col suo atto che chiamiamo perdono, ri-crea la persona nel suo io più profondo, nella sua ragione, nella sua libertà. La persona è rinnovata. Questo atto di Dio implica un giudizio: "hai sbagliato: meriti di essere condannato [è questo che la S. Scrittura intende quando parla dell’ira di Dio]; ma Io non ti condanno, ma distruggo in te il male così che tu sei ri-creato, rimesso a nuovo, rinasci". Il perdono di Dio quindi implica un giudizio che però non è di natura retributiva [Dio ti dà ciò che meriti], ma di natura giustificativa [Dio ti rende giusto]. Questo è il cristianesimo!
    La comunità cristiana si è spesso chiesta perché Dio si è fatto uomo. Riuscirete a fare vostra questa domanda, e quindi a riempire di stupore il vostro cuore di fronte al Dio–uomo, solo se avrete compreso e vissuto il dramma della prevaricazione della vostra libertà contro la verità; il dramma della prevaricazione contro la vostra persona. Allora capite veramente perché Dio si è fatto uomo: per ricostruire l’uomo; per redimerlo dal pericolo di perdere se stesso.
    Ma è anche possibile un cammino interiore inverso. Solo guardando Dio fattosi uomo, comprenderete il dramma della vostra libertà; il rischio insito in essa; la potenza devastante di cui è la vostra persona in possesso, quando prevarica contro la verità. Comprendi questa tua condizione drammatica quando vedi che essa è stata condivisa da Dio stesso.
    Chi ha rinunciato di fatto alla fatica di essere libero; chi ha permesso che lo derubassero della sua libertà, costui non comprenderà mai nulla del cristianesimo.

    3. [La via del perdono]. Gesù quando perdona non prescinde dalla nostra libertà. Non ci perdona se non vogliamo essere perdonati.
    Che cosa significa "voler essere perdonati"? Significa tre cose.
    (a) Il riconoscimento del nostro peccato, del male compiuto. Non va dal medico chi ritiene di essere sano; non vuole essere perdonato chi ritiene di non avere nulla di cui farsi perdonare. Questo atto ha nel vocabolario cristiano un nome: dolore per il male commesso. La parola dolore non va intesa in senso emotivo, psichico. Significa il giudizio che diamo di noi stessi e dei nostri atti.
    (b) Il riconoscimento genera inevitabilmente una decisione: la decisione di non commettere più gli atti che si riconoscono essere sbagliati. Questo atto ha nel vocabolario cristiano un nome: proposito.
    (c) Non siamo degli angeli, cioè dei puri spiriti. I nostri atti coinvolgono sempre anche il nostro corpo e la nostra psiche. Atti interni esigono di prendere una forma esterna. Il riconoscimento di cui parlavo diventa "confessione" del male compiuto.
    Per chiarezza didattica ho presentato questi tre atti: dolore – proposito - confessione in maniera molto semplice. Nella realtà, non raramente sono le tappe di un cammino lungo e faticoso. Pensate a S. Agostino: ha impegnato anni. E non è stato l’unico. Questo cammino è la conversione.
    C’è una pagina di una grande filosofa spagnola che ci aiuta a capire il senso, la portata degli atti che costituiscono la conversione. "La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca. Si tratta di trovare il punto di contatto tra la vita e la verità" [cit. da Agostino, Confessioni, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2012, 43].
    L’incontro fra Dio che in Gesù perdona e la persona umana convertita è il sacramento della confessione, o della riconciliazione.
    Esso, vedete, è l’esaltazione della misericordia di Dio e della libertà dell’uomo. Papa Francesco ha raccontato che è stata una confessione a cambiare completamente il corso della sua vita.

    (Seminario, 20 novembre 2013)


    4. LA VITA IN CRISTO

    Rigenerati dal perdono di Gesù, iniziamo a vivere la nostra vita di ogni giorno in Lui e come Lui. Ricordate la prima catechesi ascoltata al Santuario il 16 ottobre scorso: chi incontra Gesù, cambia vita [S. Paolo, Zaccheo, E. Stein]. Non nel senso necessariamente che cambia stato di vita: Zaccheo non cessa di fare l’esattore delle tasse. Lo fa in modo diverso: lo fa in Cristo; vive in Cristo.
    Ma cosa significa, vi chiederete, "vivere in Cristo", "vivere come Cristo"? In questa ultima catechesi cercherò di rispondere a questa domanda. Prima però devo fare una premessa, di straordinaria importanza.

    1. [Il dono dello Spirito]. Partiamo come sempre da un’esperienza che facciamo tutti: ciascuno di noi può agire per dovere [faccio ciò che faccio, perché ho il dovere di farlo]; ciascuno di noi può agire per bisogno [faccio ciò che faccio perché sento il bisogno di farlo]. Un esempio. Devo sottopormi ad un intervento chirurgico: lo faccio perché ho il dovere di curare la mia salute; sicuramente non lo faccio perché sento il piacere di farlo.
    Una mamma ha grande attenzione al suo bambino. Ha certamente il dovere di farlo. Ma per lei è come un bisogno intimo: non può non farlo.
    Proviamo ora ad analizzare brevemente questa esperienza. Quale è la differenza fra i due modi di agire? Cominciamo dalla superficie e andiamo passo dopo passo al fondo. Il primo si fa sentire DIFFICILE; il secondo FACILE; il primo può causare in noi un senso di SOFFERENZA; il secondo solitamente causa GIOIA: la mamma prova gioia nel prendersi cura del suo bambino; nessuno prova gioia nell’andare in ospedale per sottoporsi ad un intervento chirurgico.
    Andiamo più a fondo. Da dove deriva questa differenza? Se fate bene attenzione a voi stessi, vedrete che essa deriva dalla misteriosa ATTRAZIONE che esercita su di voi la bontà, la bellezza insita nella decisione che state per prendere. La mamma è profondamente attratta dalla bontà di un gesto come prendersi cura del suo bambino. L’attrazione che una realtà esercita nei nostri confronti a causa del valore [estetico, morale, religioso] che ha in sé, si chiama amore.
    Che cos’è dunque l’amore? È la risonanza del bene, del bello, del vero dentro la persona. Posta di fronte al bene, la persona re-agisce, ri-suona. Sapete che se metto vicini due diapason, e faccio vibrare uno solo, dopo un po’ comincia a vibrare anche l’altro. È questa una pallida immagine dell’amore fra due persone.
    Quando manca l’attrazione dell’amore, e si fanno le cose per dovere solamente, l’agire è difficile, e non raramente noioso. Virgilio esprime tutto quanto vi ho detto finora con un verso stupendo e meritatamente famoso: trahit sua quemque voluptas.
    Ora ritorniamo al tema nostro. Nella Sacra Scrittura è detto: "Dio ama chi dona gioiosamente". Gesù non ha detto a Zaccheo: "tu non devi rubare; tu hai il dovere di restituire ciò che hai rubato". Ma Zaccheo era rimasto affascinato, attratto dalla persona di Gesù. Paolo soffre il soffribile per Gesù, e dice che in confronto di ciò che lo aspetta quando potrà essere sempre con Cristo, è nulla.
    Ma come può accadere anche in noi di vivere come Gesù, perché ci sentiamo attratti da Lui? Può accadere perché Gesù ci dona lo Spirito Santo, il quale è l’Amore-Persona.
    Che cosa fa in noi lo Spirito Santo? Ci fa sentire, gustare nel nostro intimo la bellezza, la bontà della sequela di Cristo, della vita in Cristo.
    Sentite come il Cantico dei Cantici descrive questa esperienza [è la sposa che parla]. "Mi baci con i baci della sua bocca!/ Sì, le tue tenerezze sono più dolci del miele./ Per la fragranza dono inebrianti i tuoi profumi…Attirami dietro a te, corriamo" [1, 2-4].
    Dunque, la sequela di Gesù, la vita in Cristo è guidata, mossa dallo Spirito Santo.
    Da quanto ho detto, scopriamo in che cosa consiste la nostra libertà. Chiediamoci: chi è veramente libero? Colui che fa ciò che vuole, bene o male che sia? No. Colui che fa ciò che deve fare? No. È libero colui che fa ciò che vuole facendo ciò che deve, oppure [è lo stesso], colui che fa ciò che deve facendo ciò che vuole. È lo Spirito Santo che compie in noi questo miracolo.
    Certamente giungere ad essere liberi in questo modo esige un percorso lungo. Se paragonassimo la libertà ad una circonferenza e noi stessi ad un poligono inscritto, noi sappiamo che nessun poligono di n lati potrà mai coincidere colla circonferenza. Così è della nostra libertà dentro alla libertà dello Spirito.

    2. [La vita in Cristo]. Ora siamo in grado di capire che cosa significa vivere in e come Cristo, guidati interiormente dallo Spirito Santo.
    È la domanda del giovane nel Vangelo: che cosa devo fare per avere la vita eterna?
    Prima risposta di Gesù: osserva i Comandamenti. Cioè: vivere in Cristo e come Cristo, guidati interiormente dallo Spirito Santo, significa praticare i dieci Comandamenti. Tutti, non solo alcuni [non ho rubato; non ho ucciso. Non basta].
    I Comandamenti sono come il navigatore delle nostre automobili. Esso ci guida, ci indica la strada per raggiungere la meta che ci siamo preposti. Chi li abbandona, va fuori strada.
    Gesù ci ha dato al riguardo un bellissimo insegnamento. Ci ha detto che tutti i comandamenti sono come appesi a due: ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; ed il prossimo come te stesso [Nella stupenda parabola del Samaritano Gesù ha spiegato che cosa vuole vuol dire prossimo: ogni uomo che si trova nel bisogno].
    Per capire questo insegnamento di Gesù possiamo servirci di un’immagine. Se voi mettete un cristallo terso davanti ad una fonte luminosa, esso rifrange i colori dell’iride. I comandamenti sono la rifrazione dell’amore, cioè esprimono le sue esigenze fondamentali: come puoi dire di amare il prossimo se ti comporti ingiustamente con lui? Come puoi dire di amare i genitori se li disonori? E così via.
    Dunque: la vita in Gesù guidati interiormente dallo Spirito Santo significa vivere osservando i dieci Comandamenti.
    Ma questo non è tutto. Vivere la propria vita in Gesù e come Gesù significa educarci a pensare come Lui; a valutare cose, situazioni, persone come Lui; ad avere in noi gli stessi sentimenti come aveva Gesù: verso il Padre; verso i poveri, gli ammalati; verso i bambini; verso la donna; verso le autorità statali… S. Paolo arriva a dire: "non son più io che vivo, ma Cristo vive in me"[ Gal 2, 19]. È un cammino, appunto una sequela.
    A questo punto mi chiederete: e come faccio a conoscere come pensava Gesù…? Per il momento, rispondo: leggendo attentamente, meditando frequentemente, pregando umilmente i quattro Vangeli. Ma questo non basta.
    Papa Francesco nella sua prima Enciclica Lumen fidei, citando R. Guardini, dice che la Chiesa "è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo" [cfr. n. 22]. Cercherò ora di spiegare. Si tratta di un fatto di importanza fondamentale per chi vuole vivere in Cristo.
    Ciascuno di noi è nato dentro una cultura, che gli viene comunicata mediante il linguaggio, il legame educativo fra le generazione, le consuetudini proprie del nostro popolo, le nostre istituzioni. Ed altro ancora. È come un grembo che ci accoglie, ci cresce, ci rende maturi.
    Tutto questo è una pallida idea di che cosa è la Chiesa per chi vuole seguire Gesù, di chi vuole vivere come Lui. Essa ci introduce nel modo di pensare, di giudicare, di sentire di Gesù: "lo sguardo plenario di Cristo sul mondo", di cui parlava Guardini. È dentro la Chiesa che tu sei educato a vivere in Cristo e come Cristo per mezzo dello Spirito Santo. Perché? perché Essa è "la portatrice storica" del modo di pensare, di giudicare, di valutare la realtà di Gesù.
    Non è ora il caso di spiegarvi il modo. Pensate solo che cosa significano i santi di ieri e di oggi. Il Vangelo scritto è come uno spartito musicale. Esso rivela tutta la sua bellezza non quando è letto e studiato, ma quando è eseguito. I santi sono l’esecuzione dello spartito musicale che è il Vangelo.
    Riassumo. Mi ero chiesto: che cosa significa vivere in e come Cristo? Vivere osservando i Comandamenti, e diventare sempre più simili a Lui, mediante una radicazione sempre più profonda nella Chiesa.

    3. [La consegna della missione]. Chi incontra Cristo e vive in e come Lui, riceve sempre da Lui una missione da compiere: una missione unica, perché come S. Paolo comprenderà – ad essa il Signore aveva pensato fin da quando eravamo nel grembo materno. Riflettete molto seriamente su questo punto.
    La vita, anche se fatta di decisioni molto normali, non è mai banale. È sempre un’impresa grandiosa, anche se siamo nel rischio di dare per scontato ciò che invece non lo è affatto. Mi spiego.
    Una persona, alla vostra età soprattutto, può "lasciarsi vivere" senza chiedersi: ma che cosa il Signore vuole che io faccia della mia vita? Oppure dare per scontato l’unica prospettiva che sembra essere quella comune: una professione e la famiglia. Si esclude, quasi in linea di principio o comunque esula dall’orizzonte, la verifica di una chiamata ad una vita totalmente ed esclusivamente donata a Cristo nella missione del sacerdote o nella consacrazione verginale.
    Chi decide di vivere in Cristo e come Cristo guidato interiormente dallo Spirito Santo, se non è già fidanzato/a, deve interrogarsi seriamente sulla missione che Gesù intende affidargli. Guidato ovviamente da un buon maestro dello spirito.
    Concludo. Penso che alla fine di questa seconda Scuola della fede possa farvi profondamente riflettere su di un confronto.
    Abbiamo parlato all’inizio della nostra libertà: essa può acconsentire alla proposta di vita che Gesù fa alla persona o può rifiutarsi. Zaccheo acconsente; il giovane ricco rifiuta. Proviamo ora a mettere a confronto la narrazione di un consenso e la narrazione di un rifiuto. E ciascuno tiri le conseguenze che ritiene giuste per la sua vita.
    La prima narrazione è quella di Agostino che, dopo un cammino molto difficile, ha incontrato Cristo e si è lasciato conquistare da Lui.
    "Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco, Tu eri dentro di me ed io ero fuori, e ti cercavo fuori… Tu hai chiamato e gridato e hai infranto la mia sordità. Ti hai lampeggiato come un baleno e col tuo splendore hai messo in fuga la mia cecità: Tu hai sparso il tuo profumo e io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di Te. Mi hai toccato, e io mi sono infiammato dal desiderio della tua pace"
    [Confessioni, X 27, 38]
    La seconda narrazione è di un grande poeta francese del secolo XIX, A. Rimbaud. È un brano di una poesia che il poeta scrisse a diciott’anni.
    "Un tempo, se mi ricordo bene, la mia vita era una festa ove si aprivano tutti i cuori
    e tutti i vini scorrevano.
    Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia
    e l’ho ingiuriata

    io sono fuggito

    son riuscito a fa svanire nel mio spirito tutta l’umana speranza"
    [cit. da G. Sapelli e G. Vittadini (a cura di), Alle radici della crisi, BUR 2013, 146 ]

    (Seminario, 27 novembre 2013)


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