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    Ripensare l’oratorio a partire dalla strada


     
    Paolo Gambini

    (NPG 2009-07-12)

    Lo scopo di questo scritto è quello di offrire un piccolo apporto all’attuale riflessione sull’Oratorio.
    Come si vedrà, l’Oratorio su cui rifletto è quello «salesiano», che esprime l’intuizione originaria del Santo dei giovani e che è divenuto – lungo la storia e la tradizione, attraverso gli apporti di tanti che ci hanno lavorato – un modello particolare di istituzione educativa. È l’oratorio in cui sono – per così dire – nato e in cui io stesso per tanti anni ho lavorato e che mi resta nel cuore, anche adesso che lavoro prevalentemente in una istituzione accademica.

    Una riflessione sull’istituzione oratorio a partire da una realizzazione carismatica

    Ma penso che molte delle cose che dirò – le analisi del mondo degli adolescenti e in genere dell’educazione, soprattutto le proposte che presenterò nell’ultima parte – possano essere utilmente considerate e applicate nel loro insieme al mondo degli adolescenti e dei giovani in generale, e si possano dire rispetto ai molteplici oratori presenti in Italia, che – pur esprimendo modelli diversi (per i periodi storici e ambienti in cui sono sorti, per i diversi carismi dei fondatori e tradizioni educative, per le peculiarità di coloro che ci lavorano) – sono tuttavia accomunati dall’intuizione feconda che esprime l’idea di oratorio: casa dei giovani, presenza «familiare» di educatori e di proposte adeguate all’età, educativa di ambiente, e soprattutto il desiderio di raggiungere tutti i ragazzi e i giovani in una dimensione missionaria che non può mancare in una autentica pastorale giovanile.
    Tornando dunque all’oratorio salesiano, vorrei anzitutto evocare gli inizi dell’opera di don Bosco per coglierne alcuni elementi da riscoprire o valorizzare. La sua originalità sta nel fatto di cogliere come tale avvio sia identificabile con quella che noi oggi chiameremmo un’azione educativa di strada. In altre parole, la nostra ipotesi consiste nel pensare che l’Oratorio di Valdocco sia nato «sulla strada» e che in questo contesto don Bosco abbia appreso un particolare modo di rapportarsi ai giovani che l’accompagnerà in tutta la sua esperienza di educatore. Quello stile relazionale che lo stesso fondatore, ormai vecchio e stanco, raccomanderà ai suoi salesiani, firmando la lettera inviata da Roma il 10 maggio 1884, perché lo stesso Oratorio, in un evidente momento di crisi, potesse riprendere la vitalità delle origini.
    Sullo sfondo di questa riflessione sta l’idea che l’attuale crisi educativa non sia solo questione di mancanza di riferimenti valoriali. Se educare significa accompagnare la persona verso il cambiamento, oggi sembra essersi fatta incerta non solo la «direzione» del percorso ma anche la «modalità dell’accompagnare».
    Ci riferiamo alla difficoltà degli adulti di oggi a costruire relazioni educative nelle quali i giovani siano riconosciuti come risorsa, possano esprimersi con protagonismo e al cui interno si instauri una vera e propria circolarità educativa.
    Per chi volesse approfondire queste tematiche può farlo attraverso il testo L’animazione di strada.[1]

    DON BOSCO «PRETE DI STRADA»?

    La rievocazione degli inizi, operata da don Bosco nel 1873, attraverso la narrazione delle Memorie dell’Oratorio, appare animata dalla «preoccupazione di descrivere, sia pure ‘poeticamente’, l’origine, il divenire e il costituirsi di un’esperienza spirituale e pedagogica tipica, che sotto la formula ‘oratoriana’ è presentata come l’approccio più funzionale e produttivo ai giovani dei tempi nuovi». Si può ritenere che egli fosse «intenzionato a trasmettere tale esperienza vissuta come programma di vita e di azione ai continuatori», cosicché, più che del passato, le sue debbano essere considerate «memorie del futuro», indicazioni di dinamismi e atteggiamenti che dovrebbero qualificare il suo modello di educatore, lo stile e le attività dell’Oratorio.[2]
    Partendo da questa angolatura – pur nella consapevolezza dei problemi storiografici che il testo pone e dei rischi di anacronismo comportati da tale trasposizione –, ci pare di intravedere nella narrazione di don Bosco l’indicazione dell’importanza che l’incontro con i ragazzi «poveri e abbandonati» nelle strade di Torino, non soltanto ha avuto sull’impostazione dell’Oratorio di Valdocco, ma continua ad avere per la fedeltà all’identità del carisma salesiano.
    L’azione educativa di don Bosco, si sviluppa attraverso tre tappe fondamentali:
    – comincia con la sua scelta di dedicarsi ai giovani e specialmente ai più poveri;
    – continua con l’incontro personale di don Bosco con i ragazzi di strada che dà origine ad un primo gruppo;
    – matura con la necessità di trovare un ambiente adatto dove accogliere e animare quel gruppo di amici che col tempo si è fatto sempre più numeroso.
    Cronologicamente questi tre passaggi corrispondono: agli anni di formazione di don Bosco nel convitto ecclesiastico (1841-1843); a quelli di itineranza dell’Oratorio (1843-1846); alla nascita dell’Oratorio di Valdocco sino al momento in cui don Bosco preso dagli impegni di fondatore di congregazioni dovrà ridurre il contatto diretto con i giovani (1846-1860 circa).
    È specialmente nei primi cinque anni (prima e seconda tappa) che l’attività educativa di don Bosco pare aver trovato nella strada un riferimento costante. Qui il prete torinese ha l’opportunità di conoscere i bisogni dei giovani, di appassionarsi ancor più alla loro causa e di incontrare i suoi amici per proporre loro il suo progetto. Ma sulla strada don Bosco continua ad andare anche dopo la realizzazione dell’Oratorio di Valdocco.

    Sulla strada per osservare e capire i bisogni dei giovani

    Appena diventato sacerdote, su consiglio della sua guida spirituale, don Bosco entra nel Convitto Ecclesiastico di S. Francesco a Torino. È questo un ambiente, come scriverà lui stesso, dove «s’impara ad essere preti»:[3] che offre ai giovani sacerdoti la possibilità di entrare con più gradualità nel proprio ruolo di pastori di anime. Don Bosco frequenta il Convitto anche con la volontà di capire dove Dio lo chiami ad essere prete. La predilezione per l’apostolato giovanile non fu istantanea ma, come scrive P. Braido, «frutto di un’evoluzione che si andò consumando nell’arco di mesi e di anni a contatto con i fenomeni tipici di una metropoli in pieno sviluppo come Torino. Passo dopo passo veniva a predominare l’attrazione per la cura dei giovani, soprattutto per quelli in difficoltà e a rischio, i carcerati, i marginali, gli immigrati».[4]
    La rievocazione memorialistica ci presenta don Bosco che prende contatto con la realtà sociale di Torino girando per le strade, i viali e le piazze della città, da Porta Palazzo sino alle periferie. «Fin dalle prime domeniche – riferisce Michele Rua – andò per la città per farsi un’idea della condizione morale, in cui si trovava la gioventù. […] Incontrò un gran numero di giovani di ogni età che andavano vagando per le vie e per le piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche di peggio».[5]
    Sotto la spinta dei primi sintomi dello sviluppo industriale a Torino è in atto un notevole incremento demografico. Arrivano famiglie povere o giovani soli dalla Val Sesia, dalle Valli di Lanzo, dal Monferrato, dalla Lombardia. L’aumento della popolazione, oltre i problemi di sovraffollamento e le conseguenti inadeguatezze igieniche e sanitarie, determina la precarietà occupazionale, il conseguente sfruttamento, l’incuria educativa e la devianza minorile.
    Una delle categorie più a rischio, perché totalmente abbandonata a sé, era quella dei giovani (anche fanciulli) che stagio­nalmente si riversava sulla città per svolgere lavori di manovalanza, che raggiunse punte massime nel quindicennio 1840-1855. Fonti e autori del tempo parlano di «più migliaia». Un fenomeno che preoccupava per i perico­li morali e sociali di cui potevano essere vittime ragazzi privi di qualsiasi tutela e controllo. Alla domenica e nei giorni fe­stivi quella multiforme massa giovanile invadeva strade, piazze e prati della periferia, offrendo agli occhi della popolazione un impressionante quadro di miseria, di ignoranza e di violenza.
    Un articolo di un giornale del tempo restituisce l’impressione e lo sconcerto di chi in quegli anni di immigrazione disordinata percorreva le strade della città, come saltasse con evidenza agli occhi la portata della problematica giovanile del tempo:

    «Uno sciame incomposto di monelli d’ogni età e d’ogni ragione passeggia senza posa le vie più popolose di Torino scorrazzando, gridando, schiamazzando, e in mille guise si arrovella, si arrabatta, insolentisce, imbizzarrisce per smerciare le novelle del giorno, od altrettali foglietti spesso insignificanti, qualche volta bugiardi, e tal fiata sciocchissimi, che nulla più. Non puoi fare un passo, che non t’imbatti in qualcuno di loro […]. Aggiungi le insolenze che vanno dicendo a passeggeri i quali non sanno che farsi di loro bazzecole; le baie che si pigliano frequentemente, or d’uno scemo, or d’uno sciancato, or d’un vecchierello, che a caso passano loro dinnanzi; i cenni, i motti, gli scherzi, per non dire di peggio, di cui fanno segno la modestia e la riserbatezza di onorate fanciulle… Or, dico io, in una città così inci­vilita, in mezzo a un popolo che ha voce di colto e laborioso, s’avrà egli a veder tanto disordine, s’avrà a tollerare tanta oziosità?».[6]

    La ricostruzione fatta da G.B. Lemoyne a distanza di mezzo secolo nel capitolo VI del secondo volume delle Memorie Biografiche è interamente dedicata alla conoscenza che don Bosco ha della condizione giovanile percorrendo quotidianamente i diversi quartieri della città, visitando le carceri, le soffitte, gli ospedali. Nei cantieri in costruzione don Bosco vede fanciulli dagli otto ai dodici anni lavorare come manovali per giornate intere, al sole, al vento o alla pioggia, su ponteggi malsicuri portando calce, mattoni o altri pesi, senza altro aiuto educativo che qualche rude rimprovero o scapaccione. Lungo la strada incontra bambini malvestiti che per necessità o costretti dagli adulti chiedono l’elemosina. S’imbatte anche nelle cosiddette coche: bande di giovani che vivono in branco un po’ per difendersi ed un po’ per provocare o aggredire. Alla sera vede i giovani operai che tornando dal lavoro salgono per riposarsi in qualche malsana soffitta.[7] Sono evidentemente reminescenze attinte dalle frequenti narrazioni di don Bosco, ma non si scostano da una cruda realtà documentata anche recentemente dagli storici.[8]
    Don Bosco, uomo concreto, che cerca nei bisogni reali i segni della volontà di Dio, resta turbato da questo scenario ed è ormai pronto a tirare le somme. Sarà l’esperienza delle carceri a consolidare ancor di più la sua idea. A questo proposito scrive:

    «vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, tutti robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. […] Ma quale non fu la mia maraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti. Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi».[9]

    L’idea preventiva di don Bosco nasce dall’osservazione della realtà giovanile: «Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?».[10]
    È proprio questa idea che si insinua in don Bosco come un tarlo e che lo porta a scegliere i «giovani poveri ed abbandonati» come destinatari della sua missione.

    Sulla strada per incontrare i suoi amici

    Il catechismo a Bartolomeo Garelli (8 dicembre 1841) aprì a Don Bosco uno spiraglio per fare qualcosa di concreto a favore di quelle moltitudini di ragazzi vaganti, che avrebbe voluto curare. Si rivelò l’avvio più naturale e indovinato della sua opera, grazie al fortunato innesto su atti­vità già esistenti al Convitto. Infatti come scrive don Bosco nel 1854:

    «il sig. D. Caffasso [sic] già da parecchi anni in tempo estivo faceva ogni domenica un catechismo a’ garzoni muratori in una stanzetta annessa alla sacrestia di detta chiesa [S. France­sco d’Assisi]. La gravezza delle occupazioni di questo sacerdote gli fecero interrompere questo esercizio a lui tanto gradito. Io lo ripigliai sul finire del 1841, e cominciai col radunare nel medesimo luogo due giovani adulti, gravemente bisognosi di reli­giosa istruzione. A costoro se ne unirono altri e nel decorso del 1842 il numero montò a venti e talora a venticinque».[11]

    Inizia così l’opera dell’Oratorio che, come affermerà più avanti lo stesso don Bosco, al «suo principio era un semplice catechismo»; il suo fine era di «raccogliere i giovinetti più poveri ed abbandonati e trattenerli nei giorni festivi» anche «con piacevoli ricreazioni».[12]
    Il prete torinese, comunque, non aspetta che i giovani vengano ad iscriversi al catechismo, li va a cercare e ad incontrare «sulla strada». Col suo modo di fare furbo ed allegro riesce ad attrarre i ragazzi, seppur non sempre, come avremo occasione di mostrare più avanti, senza alcuna difficoltà. «Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, – scrive il prete nelle sue Memorie – subito mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell’Istituto».[13]
    Don Bosco gira la città per incontrarsi con i ragazzi, per parlare con loro, interessarsi dei loro bisogni ed offrirgli la sua proposta. Con ciascun giovane costruisce una relazione personale che spinge lo stesso a fidarsi di lui. Durante la settimana impiegava i momenti liberi dallo studio e dagli impegni di convittore per conoscere di per­sona le condizioni di vita e di lavoro dei suoi allievi. Scrive:
    «Lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande conso­lazione ai giovanetti, che vedevano un loro amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana [...]. Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle, sempre nell’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere co­là condotti, assisterli, rendermeli amici».[14]

    Sulla strada per realizzare un progetto: l’Oratorio

    L’esperienza oratoriana parte, come abbiamo visto, all’interno del convitto ecclesiastico alla fine del 1841 con un semplice catechismo. Agli inizi è molto travagliata per la difficoltà a trovare una sede definitiva e le critiche provenienti dal mondo religioso e quello laico.
    Nel 1842 i ragazzi che frequentano sono già venticinque, nel 1843 raggiungono una cinquantina e nell’estate del 1844, essendogli stata concessa una stanza più ampia, don Bosco è circondato da una ottantina di ragazzi.
    Dopo questi tre anni di sostanziale stabilità al convitto, per altri due, prima di giungere a Valdocco, sarà costretto ad itinerare da un luogo all’altro della città. Per un breve spazio di tempo avrà addirittura come suo unico riferimento la strada.
    Terminato il convitto don Bosco è inviato dall’arcivescovo come direttore spirituale al «Rifugio», un istituto fondato dalla marchesa Barolo per le giovani in difficoltà. La marchesa gli permette di incontrare i suoi giovani presso una cappella ricavata da due camere nelle quali vi è un dipinto che raffigura S. Francesco di Sales. Da questo momento, l’Oratorio prenderà il nome dello stesso santo. Dopo appena sette mesi la marchesa si stanca dei ragazzi di don Bosco che nel frattempo erano aumentati. Così l’Oratorio è messo sulla strada ed attraverserà un periodo di grande precarietà.
    Il 25 maggio del 1845, come documentato dallo storico Motto,[15] l’Oratorio si sposta nel cortile e nella chiesa vicino al cimitero di S. Pietro in Vincoli, ma la governante del cappellano, nella stessa giornata, spinge lo stesso a far fuori la rumorosa truppa. Allora il comune, su sollecitazione dell’arcivescovo permette ai ragazzi di don Bosco di sistemarsi presso la cappella di S. Martino, non lontana dai mulini che costeggiavano il fiume Dora. Ma anche qui i vicini protestano diffondendo voci sulla pericolosità di questa orda di ragazzi per l’ordine pubblico. Così ancora una volta don Bosco con i suoi è costretto a sloggiare.
    A questo punto il prete dei giovani non sa più cosa fare. Come lo stesso scriverà: «una turba di fanciulli seguiva ovunque i miei passi, mentre io non aveva un palmo di terreno dove poterci raccogliere».[16] Escogita, allora, una sorta di oratorio itinerante radunando i giovani nei giorni festivi e portandoli da un santuario ad un altro. «A Sassi, quando alla Madonna del Pilone; alla Madonna di Campagna; al monte dei Cappuccini ed anche fino a Superga: In queste chiese – scrive don Bosco nelle Memorie – procurava di celebrare loro la S. Messa nel mattino colla spiegazione del vangelo. La sera un po’ di catechismo, canto di lodi, qualche racconto, quindi giri, passeggiate fino all’ora di fare ritorno alle proprie famiglie».[17] Questa vita nomade non poté comunque durare molto tempo. L’inverno si incaricò di troncarla. Don Bosco capì che non avrebbe potuto più a lungo portare in giro le sue tende e, a novembre del 1845, affittò tre stanze da don Moretta nella zona di Valdocco. Ma nella primavera dell’anno successivo i coinquilini fanno buttar fuori l’Oratorio anche da quella sede.
    Nel marzo del 1846, don Bosco affitta un prato dei fratelli Filippi. A questo punto l’Oratorio la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del cielo[18] conta circa trecento giovani. Ma anche in questo caso le cose si misero presto male. I Filippi sfrattano in tronco don Bosco. Arrivata l’ultima domenica di permanenza sul prato, il prete non sa dove sbattere la testa. Mancano solamente due ore alla notte ed i ragazzi sarebbero dovuti andare a casa senza sapere dove incontrarsi la domenica successiva. Ma la provvidenza manda Pancrazio Soave che tempestivamente gli affittò la sua «tettoia» addossata alla casa dei Pinardi in zona Valdocco. Questa sarà, finalmente, la sede definitiva dell’Oratorio.

    Sulla strada perché l’Oratorio rimanga aperto a tutti

    Abbiamo già visto come don Bosco negli anni di erranza dell’Oratorio va per la strada ad agganciare i giovani. È bene notare che anche dopo aver realizzato a Valdocco il suo Oratorio festivo, continua a frequentare i quartieri di Torino per incontrare nuovi giovani. La strada permane quindi un riferimento stabile perché l’Oratorio possa rimanere il più possibile aperto a tutti e sia un servizio educativo nel territorio. A questo proposito il giornale «Il Conciliatore Torinese» nel 1849, ad Oratorio già realizzato, testimonia l’opera di don Bosco sulle strade. Parlando del prete dice:

    «diedesi a girare né dì festivi pei d’intorni di Torino, e quanti vedesse crocchi di giovani intenti a’ trastulli, avvicinarli, pregandoli che l’ammettessero a parte di loro giuochi, poscia dopo essersi affratellato alquanto con essi, invitarli a continuare il gioco in un luogo che egli teneva a ciò assai più atto a sollazzarsi, che quello non fosse».[19]

    Dello stesso anno, ancora di don Bosco, il «Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione» scrive:

    «Quando egli sa o incontra alcuno più dalla squallidezza immiserito, non lo perde più d’occhio, lo conduce a casa sua, lo ristora, lo sveste de’ luridi, gl’indossa nuovi abiti, gli dà vitto mane a sera, finché trovatogli padrone e lavoro sa di procacciargli un onesto sostentamento per l’avvenire, e può accudirne con maggiore sicurezza l’educazione della mente e del cuore».[20]

    Riportiamo anche la testimonianza del salesiano don Domenico Ruffino che confermano la permanenza del prete sulla strada anche dopo il 1846. Don Ruffino ricorda:

    «Negli anni che corsero dal cinquantacinque quasi fino al 1860, l’Oratorio era proprio infestato da una irruzione non di locuste, ma di monelli grandi e piccoli, che non venivano in chiesa ed impedivano che altri venissero. Noi vedevamo D. Bosco tutte le feste, mentre in cappella si facevano i catechismi, o si cantavano i vespri, uscire e con quella carità ed industria che lo rendevano caro anche ai mondani, dava la caccia agli oziosi.

    A noi aveva l’aria del buon Pastore, che lasciate le pecorelle al sicuro, correva in cerca delle smarrite. Meglio ancora lo somigliavamo al Seminatore del Vangelo, perché usciva e dopo rientrava tenendo per mano tre o quattro guadagnati e poi tornava ad uscire […]».[21]
    È interessante poi come nel suo racconto lo stesso salesiano ci aiuti ad intravedere quanto l’opera di don Bosco sulla strada non riscuotesse sempre successi ed interesse unanime da parte dei giovani. «Alcuni ubbidivano – narra don Ruffino –, altri scappavano, ed altri si ribellavano». Quindi il prete ricorda un episodio in cui don Bosco in conseguenza ad una colluttazione con alcuni ragazzi cade a terra:

    «i piccoletti e quelli di mezza età mettevano alla prova le gambe, la carità e la pazienza di D. Bosco. Più d’una volta si ribellavano, gli sfuggivano, dopo aver finto di andare con lui, e di lontano non lasciavano di gettargli pietre. Una sera noi dicevamo tutti mesti: Sai? Oggi quei della cocca gettarono a terra D. Bosco!
    – Ma come?
    – Mentre correva dietro a uno e cercava di condurlo in chiesa, un altro corse in suo aiuto per venirlo a prendere. Ci fu un po’ di lotta, e D. Bosco fu gettato a terra».[22]

    UN ORATORIO FONDATO DA DON BOSCO CON I GIOVANI SULLA STRADA

    A questo punto della nostra riflessione vogliamo trarre alcune conclusioni utili ad evidenziare gli elementi che a nostro avviso possono ridare vitalità all’attuale condizione dell’Oratorio.
    Abbiamo visto come la strada sia un elemento essenziale agli inizi dell’opera di don Bosco. Cercheremo ora di vedere come tale contesto concorra ad offrire all’Oratorio Salesiano una specifica identità e come abbia contribuito a formare il giovane prete ad un preciso stile educativo.

    La strada come risorsa

    A proposito della sua identità non ci sembra superfluo ribadire come l’Oratorio nasca anzitutto dalla scelta di don Bosco di un determinato tipo di destinatari: quelli «poveri e abbandonati». «La strada» rappresenta una risorsa che gli permette di conoscere e capire la situazione di questi giovani, i loro bisogni e le loro potenzialità. «La strada» gli dà anche la possibilità di incontrarsi con loro, di farsi loro prossimo per ascoltarli, aiutarli e proporgli il suo progetto. Il continuare ad andare «sulla strada» anche dopo la realizzazione dell’Oratorio festivo gli permette di mantenere quest’ultimo aperto nei confronti di questi ragazzi più sfortunati.
    Come scrive J.E. Vecchi, ottavo successore di don Bosco,

    «l’Oratorio salesiano nasce diverso dagli altri: non come una sede per proposte ‘di servizi normali’ per chi ne volesse approfittare; ma come una ricerca per le strade, le botteghe, i cantieri. […] È una scelta di determinati soggetti prima che una programmazione di contenuti e di attività. Se questi soggetti non si avvicinano bisogna, come prima mossa, uscire loro incontro: non dare per scontato che verranno se la proposta è oggettivamente valida secondo il parametro comune».[23]

    È proprio il diretto contatto con «la strada» che permette quindi all’Oratorio di don Bosco di assumere la peculiarità di non essere né parrocchiale né interparrocchiale ma una struttura flessibile e per questo più atta ad un’opera di mediazione tra chiesa, società urbana e fasce popola­ri giovanili che non s’adattavano all’inquadramento parrocchiale. Seppur non in antitesi alla parrocchia, don Bosco pensa l’Orato­rio come contributo «per una possibile ristrutturazione della pa­storale urbana e regionale», come risposta alle situazioni createsi a Torino con il moto migratorio e lo scadimento dei valori reli­giosi connessi alla struttura parrocchiale.[24]

    La strada come vincolo

    Insieme a queste ed altre risorse, la «strada» per don Bosco costituisce anche un vincolo. Per stare sulla strada deve accettare le sue regole. La prima ed essenziale caratteristica è che essa è uno spazio aperto: un luogo di tutti e di nessuno in particolare, dove non esistono regole preordinate e convivono modi diversi di intendere la vita. Ciò significa che don Bosco andando «sulla strada» non può avvalersi dei privilegi che ha mentre insegna catechismo al convitto. La strada, infatti, è uno spazio nel quale all’educatore non è consentita una relazione direttiva. L’unica possibilità è quella di partire da un rapporto paritario nel quale, col tempo, in un clima di reciproca fiducia, ciascuno può ottenere lo spazio che gli è concesso, può contrattare con l’altro obiettivi comuni. È vero che don Bosco è un uomo carismatico e naturalmente leader ed avvicina i giovani per offrirgli delle risposte ma, allo stesso tempo, come abbiamo avuto modo di accennare, il suo intervento sulla strada non poteva non incontrare anche la paura, la rabbia e la diffidenza degli stessi ragazzi, di chi viveva ai margini della società e non vedeva riconosciuta la propria dignità.
    Don Bosco accetta questa sfida, il pericolo di essere beffeggiato e di «perdere la faccia», proprio per il suo desiderio di incontrare i giovani. È importante cogliere questo passaggio perché, a nostro parere, è qui che don Bosco ha l’opportunità di approfondire il proprio stile di rapportarsi ai giovani, di apprendere i segreti della relazione educativa. Ci piace pensare che è proprio in questo periodo che il mestiere di educatore gli entra nel sangue. Sulla strada don Bosco impara che la relazione non gli è dovuta perché è un prete, un educatore o un adulto, ma deve guadagnarsela.
    È sulla strada che don Bosco ha l’opportunità di superare quell’immagine di prete conosciuta negli anni di seminario dove, come scriverà nelle sue Memorie, quando «qualche superiore passasse in mezzo ai seminaristi senza saperne la cagione, ognuno fuggiva precipitoso a destra e a sinistra come da una bestia nera».[25] Da una figura di sacerdote austera e poco disponibile a mescolarsi fra la gente don Bosco fin dai primi anni della sua opera è stimolato a realizzare un metodo educativo ed un rapporto con i giovani basato sull’amicizia piuttosto che il timore.
    Con accortezza e dedizione adotta mille mezzi per guadagnarsi la simpatia dei ragazzi che aggancia: il sorriso, lo scherzo, la sorpresa, le barzellette, i giochi di magia, le nocciole o le caramelle. I risultati non mancano. È lo stesso don Bosco che, a proposito delle sue incursioni «sulla strada», scrive: «ognuno mi diveniva affezionatissimo a segno, che non solamente erano ubbidientissimi a’ miei comandi, ma erano ansiosi che loro affidassi qualche incompensa da compiere. […] E veramente l’ubbidienza e l’affezione de’ miei allievi andava alla follia».[26]
    «La strada», poi, gli impone anche di contrattare il suo progetto con i giovani. In questo contesto, infatti, quanto realizzare lo si decide e lo si fa insieme. Così l’Oratorio diviene sempre più un progetto comune. È il prete torinese che intenzionalmente si domanda cosa fare, ma è solo grazie all’assenso/dissenso dei suoi giovani che il suo ideale prende una sua forma specifica. Secondo una vera e propria circolarità, mentre don Bosco si propone di formare i giovani attraverso la catechesi, la proposta di valori e d’impegno, sono gli stessi che con i loro bisogni, le loro richieste e la loro iniziativa plasmano il giovane prete e il suo sogno.
    Don Bosco è d’altronde molto abile nel far sentire ciascun ragazzo protagonista nella realizzazione di questa avventura comune e così trasgressiva per il tempo. Forte è il «senso del noi» che lega alle stesse vicissitudini il prete ed i suoi ragazzi e questi tra di loro. I guai e le gioie sono in qualche modo comuni. È facile pensare come don Bosco nelle tante sventure trovasse proprio nei suoi giovani la forza per non arrendersi. I parroci e le autorità municipali cercano di ostacolarlo, la Marchesa Barolo lo licenzia, non trova un luogo adatto per l’Oratorio, ormai tutti lo dicono pazzo. Don Bosco rimane assolutamente solo, solo con i suoi ragazzi. «Intanto – racconta lo stesso prete – prevaleva ognor più la voce che D. Bosco era divenuto pazzo. I miei amici si mostravano dolenti; altri ridevano; ma tutti si tenevano lontani da me. L’Arcivescovo lasciava fare; D. Caffasso consigliava di temporeggiare, il T. Borrelli taceva. Così tutti i miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi».[27]
    Di fronte a questo difficile piano da realizzare, ogni ragazzo si sente responsabile e mette a disposizione le proprie energie e il proprio entusiasmo. È interessante il clima che unisce i ragazzi.
    Sfrattati da un luogo tutti gli oratoriani si danno da fare per raggiungere il nuovo quartiere generale. «Si prendono panche, – racconta don Bosco – inginocchiatoi, candelieri; alcune sedie, croci e quadretti, e ciascuno portando quell’oggetto, di cui era capace, a guisa di popolare emigrazione fra gli schiamazzi, il riso ed il rincrescimento siamo andati a stabilire il nostro quartiere generale…».[28]
    Tutti sono legati in questa grande avventura, in questo sogno che la gente giudica una pazzia. La precarietà e gli insuccessi invece di allontanare i ragazzi sembra cementarli ancor più. Parlando dei tempi dell’Oratorio itinerante, don Bosco dice: «sembrava che questa critica posizione dovesse mandare in fumo ogni pensiero di Oratorio, ed invece aumentava in numero straordinario gli avventori».[29]
    Al termine del cammino, quando ormai un luogo fisico è stato trovato nella tettoia Pinardi, uno spazio mentale ed emotivo ben definito è già presente ed è rappresentato dalla forte relazione che si è stabilita tra don Bosco ed i suoi giovani e questi tra di loro. Esiste già una comunità dove i giovani piuttosto che fruitori sono i veri protagonisti. Così «sulla strada» all’interno di una relazione di autentica reciprocità, col tempo, il prete torinese ed i suoi giovani scrivono una storia e definiscono un’identità alla quale tut­t’oggi ci ispirano.
    Questi cinque intensi anni di lavoro a nostro avviso segnano la piena maturazione non solo di don Bosco come educatore e come prete ma anche dell’Oratorio. Tutto ciò si realizza all’interno di una cornice ben precisa, la strada, che in qualche modo, ponendo dei vincoli ed offrendo delle risorse, segna l’incontro tra don Bosco ed i suoi destinatari e la conseguente nascita dell’Oratorio. Emerge così che esso più che essere un’istituzione o un luogo fisico è anzitutto uno spazio aperto all’interno del quale l’educatore cristiano intenzionalmente cerca ed incontra i giovani per accoglierli in una relazione che, valorizzando i bisogni e le potenzialità degli stessi, procede verso il conseguimento di un progetto comune ricco di significati e nel quale il giovane abbia un ruolo di protagonista.
    A questo proposito è interessante quanto il successore di don Bosco, don Michele Rua, disse un giorno ad un salesiano che invia per iniziare un Oratorio: «Colà non vi è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio è in te: sei tu! Se sei vero figlio di don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere un albero magnifico e ricco di bei frutti».[30]
    L’oratorio per esistere non ha tanto bisogno di uno spazio fisico ma, per dirla con don Egidio Viganò, settimo successore di don Bosco, di una persona che abbia un «cuore oratoriano»[31] che sia cioè disposta a far spazio dentro di sé ai giovani ai loro bisogni e alle loro speranze.

    RITORNARE IN MEZZO AI GIOVANI

    In poche parole è quel tipo particolare di relazione che si stabilisce tra don Bosco e i giovani, legata al contesto «della strada», a dare una forma del tutto speciale all’Oratorio. Quel tipo di incontro che lo stesso don Bosco chiede ai salesiani di ristabilire quando nel 1884, a quasi quarant’anni dalla sua fondazione, all’Oratorio si fa sempre più evidente la distanza tra questi ed i giovani. Quando i salesiani – come scrive lo stesso don Bosco – «erano considerati come superiori e non più come padri, fratelli, amici».[32]
    A questo punto, volendo offrire degli spunti di maggiore concretezza alla nostra riflessione, espliciteremo quali a nostro avviso sono le caratteristiche che connotano l’incontro tra don Bosco e i giovani. Dimensioni da rivalutare per poter superare la crisi che molti oratori stanno attraversando. Vedremo in particolare come, per poter tornare in mezzo ai giovani, non sia sufficiente la semplice presenza fisica accanto a loro, ma occorra una rinnovata capacità relazionale in grado di riconoscere le loro risorse, renderli protagonisti e di stabilire una circolarità educativa. Tre aspetti strettamente interconnessi che richiamandosi vicendevolmente vanno a realizzare un unico percorso educativo. Tre dimensioni da curare a tutti i livelli: nel rapporto col singolo giovane, in quello col gruppo e in quello istituzionale (interscambio tra i gruppi e le culture appartenenti all’Oratorio).
    Visti i nostri limiti di spazio, a mo’ di esempio scegliamo di approfondire per ogni esigenza relazionale uno dei tre diversi livelli.

    Riconoscere i giovani come risorsa

    Come scrive Lévinas, il filosofo dell’alterità, non sono io a svelare l’altro ma è lui a manifestarsi come dato di fatto. S’impone da sé. Non posso definirlo e catalogarlo con i miei ragionamenti, così come si fa con le cose. La sua presenza è un’esigenza di reciprocità. L’unica cosa che posso fare è quella di accoglierlo e riconoscerlo. Perché ciò si realizzi «non si tratta – scrive l’autore – di pensare l’altro, né di pensarlo come altro; ma di rivolgersi a lui, di dirgli tu».[33] È il contatto immediato io-tu a non rendere l’altro un oggetto e a fare in modo che l’altro si costruisca, si compia. Pensando o parlando di lui, invece, interrompo il contatto.
    Don Bosco vuol conoscere la realtà giovanile, ma non si limita a studiare e a parlare dei giovani bensì va ad incontrali là dove sono, stabilendo con loro un contatto, una comunicazione diretta, faccia a faccia. Spesso gli adulti di oggi, invece, si pongono la domanda su cosa pensino i giovani, ma quasi sempre non rivolgono il quesito ai diretti interessati bensì preferiscono interpellare gli esperti (sociologi, psicologi, pedagogisti, ecc.) o gli addetti ai lavori (educatori, insegnanti, animatori, operatori pastorali, ecc.). Così vengono fatte ricerche, indagini, sondaggi, tavole rotonde sui giovani, ma si è poco disposti ad ascoltare e ad interagire direttamente con gli stessi per sapere da loro cosa pensano o cercano. In questo modo gli adolescenti e i giovani diventano oggetto di studio, categoria sociale, problema da risolvere piuttosto che delle persone da incontrare.
    Tutto ciò, oltre che rappresentare un grande controsenso, è per tutti un impoverimento. Lo è per gli adulti e la società in genere, che viene a privarsi delle risorse contenute nell’incontro con le nuove generazioni. Lo è per i giovani, che in questo modo non vengono sostenuti nel superamento del compito evolutivo tipico della loro età relativo alla ricerca di identità e di senso, al discernimento dei valori sui quali progettare il proprio futuro e se stessi. L’identità, infatti, per essere incentivata occorre che sia riconosciuta.

    * A livello del rapporto col singolo
    È l’incontro e la relazione personale a riconoscere l’altro come portatore di significato, oltre che di significati.
    L’ascolto in particolare fa sentire il giovane apprezzato offrendogli la possibilità di credere ancor più in quanto lui stesso dice. L’ascolto ha poi anche una capacità contenitiva rispetto al disagio. Spesso si ha l’impressione che il giovane chieda, più che consiglio e spiegazioni, un’occasione di ascolto dove possa esprimersi liberamente, quasi con la speranza di chiarire anzitutto a se stesso quali possano essere i motivi del proprio malessere. Per questo è necessario ascoltare il giovane escludendo ogni giudizio e colpevolizzazione, perché sia aiutato a comprendersi e ad individuarsi. Non dimentichiamo, infatti, che l’adolescenza e la giovinezza non sono caratterizzate solamente da un grande bisogno di originalità, ma anche di accettazione.
    Oltre la funzione contenitiva che l’ascolto esplica non deve comunque mancare, nel dialogo, anche l’intervento verbale diretto dell’adulto. Quando, infatti, il ragazzo si è sentito contenuto e riconosciuto dall’adulto, perché ascoltato, è in grado di realizzare dentro di sé uno spazio mentale ed affettivo dove può riconoscere l’importanza del pensiero altrui utilizzandolo come elemento organizzatore della propria ricerca o del proprio disagio.
    Oltre a tutto questo è importante che l’adulto sappia esprimere nei confronti del giovane un atteggiamento di interesse e di vicinanza, funzione così profonda per la quale lo stesso silenzio può bastare. Per i ragazzi e le ragazze il semplice «stare» l’uno accanto all’altro, in una vicinanza gratuita, non funzionale ad alcuno scopo, ha una grande importanza.
    Il riconoscimento dell’altro, dice Lévinas, richiede anche una accoglienza incondizionata della persona come capacità di cogliere nella sua unicità e diversità un valore e un appello alla propria coscienza. Cosa non facile perché richiede il superamento dei propri naturali pregiudizi come la ricerca degli elementi di risorsa che sono presenti in ciascun individuo. Così accanto all’accoglienza occorre la disponibilità a credere e a scommettere nelle capacità che sono nel giovane, anche solo a livello potenziale. Una fiducia che l’adulto deve manifestare visibilmente anzitutto riconoscendo gli interessi propri dei ragazzi e delle ragazze. Ogni interesse, infatti, anche quello giudicato dall’adulto come infantile, rappresenta un potenziale tema generatore del processo di maturazione. Ciò richiede all’adulto di andare al di là dei propri gusti e delle proprie aspettative. Riconoscere i giovani significa, infatti, scegliere di partire dal loro livello di maturazione e di interesse iniziando ad affrontare anzitutto i bisogni più immediati o a provocare l’impiego delle risorse attuali.

    Favorire il protagonismo dei giovani

    Per Lévinas l’altro rappresenta una dimensione sacra non assoggettabile ai propri bisogni e alla propria realizzazione. Una caratteristica dell’alterità sta proprio nell’impossibilità dell’io di catturare il tu dentro il proprio progetto. In altre parole riconoscere l’altro significa evitare ogni sua manipolazione perché possa esprimere la propria originalità. Più concretamente l’accoglienza e la fiducia, nel nostro caso, dovranno tradursi nel riconoscimento della libertà del giovane di progettare il proprio futuro in modo personale.
    Se si pensa all’intervento educativo come ad un aiuto discreto, di cooperazione e di proposta, questo deve essere ancor più vero quando si ha a che fare, come nell’adolescenza e nella giovinezza, con soggetti in ricerca della propria identità e dei significati della vita. La rilevanza delle soggettività in formazione deve essere in queste fasi evolutive più che evidente. Gli adulti che operano con gli adolescenti e i giovani devono favorire in quest’ultimi una presa di posizione attiva rispetto alla propria crescita, agli stimoli interni ed esterni, perché possano così passare, sempre più consapevolmente e sempre più integralmente, dall’etero-educazione all’auto-educazione.
    I giovani non possono che essere intesi come i primi responsabili della propria formazione. Non devono essere considerati solo oggetti o recettori di norme o proposte. La loro maturazione avviene solo se con l’educatore si stabilisce una collaborazione attiva e consapevole. L’adulto da parte sua, per favorire il protagonismo del giovane, dovrà impegnarsi a scoprire e a valorizzare la sua originalità, le sue potenzialità ed attitudini, nella consapevolezza che il fine del cammino educativo sta, appunto, nel portare il giovane ad una propria autonomia, a camminare da solo, a fare proprie scelte.
    La ricerca d’identità e di senso è un processo per tentativi. Il giovane non è in grado di articolare di colpo un suo progetto personale. Per farlo ha bisogno di sperimentarsi e fare esperienze. Solo così può capire chi è e cosa vuole. Per questo, pur continuando ad essere affiancato con discrezione dagli adulti, il sentirsi protagonista gli permette di vivere ciò che fa come frutto delle proprie capacità e della propria originalità piuttosto che del condizionamento che gli adulti esercitano su di lui. La possibilità di provare a realizzare propri sogni, di progettare proprie iniziative, di agire in prima persona per trasformare la realtà, di negoziare con le altrui diversità, di assumere proprie responsabilità, permette all’adolescente e al giovane di costruire una biografia sentita veramente come propria.
    Perché tutto ciò sia possibile, come faceva don Bosco, occorre favorire le nuove generazioni nella sperimentazione di ruoli e compiti all’interno della propria comunità. Occorre che la società civile ed ecclesiale offra alle stesse maggiori possibilità di espressione e di interazione, perché possano impegnarsi e compromettersi responsabilmente. Diciamo questo perché ci sembra ancora attuale la categoria della marginalità con la quale Milanesi [34] anni fa connotava la realtà giovanile. Una definizione che esprime bene il meccanismo strutturale di esclusione degli adolescenti e dei giovani dal godimento delle risorse, dei diritti e delle opportunità che il sistema offre, invece, agli adulti. Intendiamo parlare non solo del ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma anche delle quasi inesistenti possibilità che questi possano partecipare con più protagonismo alla vita politica, delle poche occasioni di autogestione loro offerte, della scarsa considerazione in riferimento alle loro capacità espressive ed innovative utili a tutta la comunità. La conseguenza è che la nostra società, non offrendo alle nuove generazioni sufficienti possibilità per sviluppare le proprie possibilità e le proprie qualità, non solo si priva di una forza viva ma non aiuta le stesse a crescere e a portare a piena maturazione le proprie potenzialità, rischiando che tali energie vengano stornate verso strade sbagliate.
    Anche i luoghi educativi a loro destinati non poche volte si presentano come rigidi e direttivi, incapaci di offrire possibilità di protagonismo e di esercitare la propria autonomia. Il problema centrale non sta tanto nella quantità delle opportunità offerte, ma nel fatto che tali occasioni siano realizzate dagli adulti secondo quell’immagine di gioventù deviante, in crisi e turbolenta che essi si portano dentro. In altre parole un’idea di ragazzi e di ragazze bisognosi di qualcuno che dica loro che cosa fare, come farlo e quando farlo. Così si diffondono sempre più servizi, centri di aggregazione e oratori assai preoccupati di guidare e contenere e assai diversi dagli adolescenti e dai giovani per poter interessare gli stessi. Spazi nei quali i destinatari hanno una posizione periferica e di semplice utenza rispetto a chi al centro decide e progetta.
    Non poche volte ci si ferma a ritenere i giovani un insieme di bisogni a cui la società deve dare una risposta offrendo servizi «preconfezionati». È la logica dell’intrattenimento e dell’offerta di prestazioni in risposta ai bisogni quotidiani (sport, divertimento, musica, teatro, ecc.) piuttosto che una logica che veda i giovani come soggetti in grado di co-produrre piccoli e grandi beni collettivi, che scommetta sulla loro capacità/desiderio di inserimento e di partecipazione, che sollecita il loro protagonismo perché possa crescere il loro senso di appartenenza. La scommessa sta nell’offrire ai giovani degli spazi per partecipare in prima persona e non solo per lasciarsi passivamente coinvolgere. Una partecipazione democratica che percorra trasversalmente tutti i livelli, da quello della relazione educativa, a quello dell’interazione all’interno del gruppo, sino a quello che coinvolge tutti i gruppi nella realizzazione della comunità.

    * A livello dell’interazione col gruppo
    Gli adolescenti e i giovani realizzano la propria ricerca di identità e di senso confrontandosi con la cultura e la società a cui appartengono. In questo cammino i ragazzi e le ragazze, più o meno sommessamente, mettono in discussione i modelli di vita sui quali sono stati educati verso la composizione di un proprio originale disegno. È una ricerca fatta in modo del tutto speciale col proprio gruppo di amici, che a questa età si trasforma in un vero e proprio laboratorio sociale e culturale dove poter riconoscere nuovi significati utili alla propria autodefinizione.
    Nel gruppo l’immaturità e l’incompiutezza di ciascuno possono, in un confronto paritario, generare quei processi creativi che aiutano i ragazzi e le ragazze nella loro ricerca e crescita. Le attività comuni rappresentano la possibilità di sperimentare e conoscere i propri limiti e le proprie risorse. Le relazioni amicali gli offrono l’opportunità di conoscere le strategie che gli altri usano per fronteggiare problemi simili ai propri.
    Il gruppo dei pari, importante agente di socializzazione, rappresenta un vero e proprio ponte tra l’individuo e la società. È al suo interno che l’adolescente e il giovane, in una dinamica interattiva tra eguali, negozia un proprio spazio di autonomia, rinuncia al proprio narcisismo assumendo proprie responsabilità, sperimenta norme e nuovi valori, può guadagnare la propria affermazione.
    Se il gruppo è indispensabile per la crescita dell’adolescente e del giovane, è importante che al suo interno e attraverso di esso quest’ultimi possano esprimere il proprio protagonismo.
    In questo paragrafo ci riferiamo ai gruppi educativi dell’Oratorio (aggregazioni guidate da un preciso progetto formativo e seguite da uno o più animatori) approfondendo quale tipo di rapporto di potere debba stabilirsi tra i ragazzi e l’educatore.
    Perché i giovani possano vivere il proprio gruppo con senso di protagonismo, occorre che l’animatore non assuma ruoli deteriori come quello di un «padre padrone» che decide sugli altri, o di un «mammone» che evita ogni difficoltà ai propri piccoli, o di un «compagnone» che non è disposto ad andare contro i propri destinatari per la paura di essere rifiutato.
    Il tipo di animatore a cui pensiamo è, invece, quello di un facilitatore in grado di suscitare e far emergere le potenzialità dei giovani, capace di incoraggiare e sostenere ma anche di provocare. Un «adulto di riferimento» preoccupato di animare e promuovere le risorse, di favorire la riflessività, di informare e orientare piuttosto che decidere e organizzare lui in prima persona. Un educatore che lavora per la sua progressiva inutilità, che quando il gruppo tende a delegargli troppo potere non accetta tale lusinga ma è disposto a fare un passo indietro perché siano i giovani ad appropriarsi dello stesso.
    È bene chiarire a questo proposito, scacciando ogni possibile fantasma, che favorire il protagonismo non significa lasciare che i giovani facciano quello che vogliono. Tutt’altro. Pensiamo al protagonismo come ad una precisa modalità di mettere alla prova i giovani e il gruppo affinché possano sperimentare le proprie capacità e i propri limiti, possano saggiare il sacrificio che il conseguimento di un proprio progetto comporta, possano, tra prove ed errori, smussare il proprio idealismo scendendo a patti con la realtà. Significa fare in modo che i giovani e il gruppo possano confrontarsi con i vari punti di vista. Per questo l’animatore non deve nascondere le proprie idee e i conflitti presenti nella relazione educativa. Un passo che naturalmente, affinché non assuma i caratteri di una profonda lacerazione, richiede che quest’ultimo contratti fin dal principio con i suoi giovani le regole del gioco a cui essere reciprocamente fedeli. Il cammino verso l’autonomia altro non è, infatti, che un percorso attraverso il quale il gruppo si dà delle regole al fine di conseguire con più efficacia gli scopi comuni.
    In ultimo è necessario che l’Oratorio offra spazi e tempi ai gruppi per rendere visibile alla comunità quanto hanno realizzato. Questo permetterà agli stessi di compromettersi fino in fondo e di essere riconosciuti. In questo modo l’Ora­torio, attribuendo significato alle esperienze degli adolescenti e dei giovani, integrerà quanto realizzato dagli stessi nel proprio patrimonio culturale.

    Favorire la circolarità educativa

    Conseguenza dei due punti appena visti è che l’incontro dell’adulto con il giovane si realizzi nella consapevolezza che l’intervento educativo richiede sempre una circolarità. A questo proposito Lévinas parla dell’altro come rivelazione dell’io.[35] È l’altro che ci pone nella condizione di scoprire la nostra identità. Con la sua presenza appellante ci risveglia ad una nuova realtà. Tutto ciò vale non solo per l’educando ma per lo stesso educatore. La ricerca, infatti, non è solo una caratteristica dell’adolescenza e della giovinezza, ma una dimensione trasversale a tutto l’arco della vita. In questo quadro la relazione educativa, pur nel rispetto delle diversità di situazioni vitali e di bisogni formativi, spinge gli individui a vedersi in un comune processo di sviluppo e di formazione.
    Nell’incontro per il solo fatto di esserci, al di là della propria età, dell’esperienza e della formazione acquisita, ciascuno è risorsa per l’altro. Il pedagogista Freire diceva: «nessuno libera nessuno; nessuno è liberato da nessuno; ci si libera insieme». Come dire che mentre l’Oratorio aiuta i giovani a cambiare, quest’ultimi contribuiranno a modificare il primo. Il risultato non può che consistere in un arricchimento reciproco. Nello scambio ciascuno porta qualcosa di sé ed accetta qualcosa dell’altro. Gli adolescenti e i giovani crescono rimodellando i propri orizzonti in dialogo con quelli dell’Oratorio e modificano lo stesso grazie al loro contributo innovativo. Il criterio sotteso è evidente: costruiscono se stessi partecipando attivamente alla costruzione dell’ambiente al quale appartengono.

    * A livello dell’interazione tra i gruppi
    All’interno dell’Oratorio oltre ai gruppi educativi, di cui abbiamo già parlato, ve ne sono altri che, a vari livelli, non si sentono parte dello stesso e che, a loro volta, sono percepiti come un intralcio verso la creazione di un ambiente connotato educativamente. Sono giovani e gruppi collocabili metaforicamente alla soglia dell’Oratorio. Stanno fisicamente dentro il suo spazio ma mentalmente ed affettivamente fuori. Se con la loro presenza è come se chiedessero di essere riconosciuti e, quindi, di appartenere, con il loro comportamento non si lasciano coinvolgere più di tanto. Non sono, infatti, disposti ad adeguarsi fino in fondo alle regole e alle proposte dell’ambiente ritenendo troppo alto il costo del tesseramento rispetto alle proprie esigenze di autonomia. Sono i ragazzi che vengono solo per tirare due calci al pallone, quelli che utilizzano l’Oratorio per ottenere il permesso di uscita dai propri genitori, quelli che semplicemente frequentano il suo bar, quelli parcheggiati sui motorini, quelli seduti sulle gradinate della chiesa, quelli che compongono una vera e propria bay-gang e taglieggiano i più piccoli, distruggono le cose e cercano di fare del cortile la propria piazza. Ragazzi e ragazze solitamente descritti da chi guida l’Oratorio come perditempo, vuoti, a disagio, pericolosi.
    Non poche volte vengono così a costituirsi due grandi partiti contrapposti: quello di chi si identifica con la cultura oratoriana, formato dai preti e dalle suore, dagli animatori, dai giovani dei gruppi educativi, ecc., e quello di chi rappresenta la cultura alternativa, costituito dai giovani e dai gruppi di cui abbiamo appena parlato. Tra le due fazioni è facile che si verifichino delle reciproche scaramucce che col tempo vengono a consolidare i ruoli e a irrigidire i punti di vista. Una distanza che, inconsapevolmente, come avviene nella costruzione di un capro espiatorio, aumenta proprio nei momenti di crisi della stessa cultura oratoriana, quando si fa più debole la capacità propositiva ed aggregativa dell’ambiente.
    La caratteristica di don Bosco è stata, invece, quella di credere che anche in chi rappresenta una cultura alternativa vi sia un punto di accesso verso il bene:[36] vi siano, in altre parole, delle risorse e si possano trovare elementi comuni sui quali poter costruire un dialogo. Per questo è disposto a mescolarsi con questi ragazzi. Rispetto ai giovani con i quali un prete dell’ottocento aveva a che fare in chiesa o al catechismo o nella scuola, quelli che stavano sulla strada costituivano sicuramente una novità. Come abbiamo visto, è proprio ponendosi in relazione con loro che don Bosco, oltre a dar corpo ad una nuova immagine di prete capace di divenire padre, fratello ed amico di qualsiasi giovane, modella il suo progetto di Oratorio.
    Similmente alle sue origini, forse, anche oggi, sono proprio i giovani o i gruppi che mettono in crisi l’Oratorio a rappresentare la sua risorsa. È, in altre parole, importante il riconoscimento di questi stessi ragazzi e dei loro gruppi perché portatori di una domanda di senso, nei confronti dello stesso Oratorio, che necessita di essere compresa e valorizzata. È solo costruendo con gli stessi un rapporto di reciprocità, e non una condotta fluttuante tra l’evitamento e lo scontro, che l’Oratorio può riscoprire la sua identità. Un riconoscimento che chiede di guardare alla reciproca distanza e al disagio che questa provoca non come ad una minaccia ma come ad un’autentica possibilità di cambiamento. La paradossale sfida sta proprio nel pensare il disagio o il conflitto come ad una potenzialità che, se bene affrontata e ben gestita, può favorire e accelerare il cambiamento di ciascuna delle parti.[37]
    Dalla circolarità relazionale e comunicativa tra le due culture non potranno che emergere specifiche domande e specifici feedback che concorrono a orientare il mutuo cambiamento.
    I giovani e i gruppi, sentendosi riconosciuti e potendo accedere agli spazi dell’Oratorio, confrontandosi con la comunità, avvieranno un percorso che gli permetterà di prendere coscienza di sé e delle proprie risorse. Allo stesso tempo l’Oratorio sarà costretto a ripensare se stesso progettando e sperimentando strade diverse per dialogare anche con chi si mostra indifferente nei confronti della fede, chi deve ancora ascoltare il primo annuncio, chi è culturalmente e socialmente emarginato e a disagio.
    A questo proposito, avendo a che fare con giovani e gruppi culturalmente distanti dall’Oratorio può essere utile adottare i criteri dell’animazione di strada. È comunque importante, in questo caso, accogliere i ragazzi partendo da ciò che a loro piace ed interessa. Non è possibile infatti incentivare un cambiamento in qualcuno se non dando spazio in primo luogo ai vantaggi personali che lo stesso può comportare e solo successivamente proporre i vantaggi, per esempio, dell’Oratorio. Se ci pensiamo bene, don Bosco non ha fatto altro che offrire opportunità di cambiamento ai suoi giovani nelle direzioni da questi avvertite come positive per se stessi. Partire dalla prospettiva dell’Oratorio significa al contrario operare in modo impositivo o autoritario calando sui giovani le prerogative dell’istituzione senza coinvolgerli sulle scelte del cambiamento o sulle modalità d’attuazione. Tale impostazione, oltre che essere inefficace, è antitetica ai principi del riconoscimento, del protagonismo e della corresponsabilità di cui abbiamo sino ad ora parlato.

    NOTE

    [1] P. Gambini, L’animazione di strada. Incontrare i giovani là dove sono, (Elledici, Leumann – TO 2002).
    [2] P. Braido, «Memorie» del futuro, in «Ricerche Storiche Salesiane» 11 (1992) 97-127; cf Estudio introductorio di A. Giraudo alla recente traduzione spagnola del documento di don Bosco: Memorias del Oratorio de san Francisco de Sales de 1815 a 1855, (CCS, Madrid 2003), pp. xi-xl.
    [3] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Introduzione, note e testo a cura di Antonio Ferriera (LAS, Roma 1991), 2, nn. 707-708.
    [4] P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, vol. 1, (LAS, Roma, 2003), p. 166.
    [5] Testimonianza di Michele Rua al processo di beatificazione di don Bosco, citata da M. Wirth, Da don Bosco ai giorni nostri. Tra storia e nuove sfide, (LAS, Roma, 2000), p. 48.
    [6] «Il Conciliatore Torinese. Giornale Religioso Politico Letterario». I (1848), p. 15.
    [7] G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Giovanni Bosco, vol. 2 (Scuola Tip. Salesiana, S. Benigno Canavese 1906), capitolo 6.
    [8] Cf G.M. Bravo, Torino operaia. Mondo del lavoro e idee sociali nell’età di Carlo Alberto, Fondazione Einaudi, Torino 1968; U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale 1814-1848, Comitato di Torino per la storia del Risorgimento, Torino 1988.
    [9] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio…, cit., 2, nn. 747-757.
    [10] Ivi, 2, nn. 757-761.
    [11] G. Bosco, Cenno storico dell’Oratorio di S. Francesco di Sales del 1854, in P. Braido, Don Bosco per i giovani: l’«oratorio» – una «Congregazione degli oratori». Documenti, (LAS, Roma, 1988) p. 35.
    [12] G.B. Lemoyne, Memorie biografiche…, vol. 9 (Scuola Tip. Salesiana, S. Benigno Canadese 1903), p. 69.
    [13] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio, cit., 2, nn. 768-770.
    [14] Ivi, nn. 896-905.
    [15] F. Motto, L’«oratorio» di don Bosco presso il cimitero di S. Pietro in Torino. Una documentata ricostruzione del noto episodio, in «Ricerche Storiche Salesiane», 9 (1986) pp.199-220.
    [16] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio…, cit., 2, nn.139-140.
    [17] Ivi, 2, nn. 147-153.
    [18] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio…, cit., 2, nn. 223-224.
    [19] «Il Conciliatore Torinese. Giornale Religioso Politico Letterario» I (1849) 4, s.p.
    [20] «Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione» I (1849), pp. 459-460.
    [21] Dal profilo biografico del sacerdote Domenico Ruffino (1840-1865), in Memorie biografiche di salesiani defunti raccolte e pubblicate dal sac. G.B. Francesia, (Tipografia Salesiana, S. Benigno Canavese, 1904), pp. 114-118.
    [22] Ivi, pp. 114-118.
    [23] J.E. Vecchi, L’Oratorio salesiano: memoria e profezia, in «Note di Pastorale Giovanile», 5 (1988), p. 7.
    [24] Cf P. Stella, Don Bosco e le trasformazioni sociali e religiose del suo tempo, in La Famiglia Salesiana riflette sulla sua vocazione nella Chiesa di oggi, (LDC, Torino, 1973), p. 151.
    [25] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio…, cit., 3, nn. 132-133.
    [26] Ivi, 3, 290-299.
    [27] Ivi, 3, nn. 429-438.
    [28] Ivi, 3, nn. 25-29.
    [29] Ivi, 3, nn. 151-153.
    [30] Testimonianza di don Albera, secondo successore di don Bosco.
    [31] E. Viganò, Un «cuore» oratoriano, in «Note di Pastorale Giovanile» (1988) 5, 19-22.
    [32] Atti del Capitolo Superiore della Pia Società Salesiana 1, (1920), n. 1, 24 Giugno, pp. 40-48. Il corsivo è nostro.
    [33] E. Lévinas, Nomi propri, (Marietti Casale, Monferrato, 1984), p. 22.34) G. Milanesi, Giovani (voce in) Dizionario di Pastorale Giovanile, (Elledici, Leumann-Torino, 1989).
    [34] G. Milanesi, «Giovani» (voce in) Dizionario di Pastorale Giovanile, (Elledici, Leumann-Torino, 1989).
    [35] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, (Jaca Book, Milano, 1983) p. 143.
    [36] G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Giovanni Bosco, vol. 5 (Scuola Tip. Salesiana, S. Benigno Canavese, 1906), p. 367.
    [37] Chiaramente ammettiamo che vi siano casi estremi in cui l’Oratorio, in quanto struttura educativa, non può venire a patti. Casi di particolare devianza che interpellano comunque la comunità oratoriana sul senso del proprio servizio nel territorio.


    T e r z a
    p a g i n A


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