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    L’Oratorio nella mens

    di don Bosco

    Aldo Giraudo


    “Rilanciate gli oratori, adeguandoli alle esigenze dei tempi,
    come ponti tra la chiesa e la strada …”
    (Giovanni Paolo II)

    Il mio compito è quello di richiamare lo spirito, la passione, l'intelligenza che ha mosso D. Bosco, rilevando alcune dinamiche profonde che possono innescare una riflessione sulle scelte e sull'impegno di chi opera oggi in un oratorio salesiano. Preferisco evitare una descrizione o un elenco dei tratti essenziali, dei criteri e delle scelte strategiche attuate da D. Bosco. Su questi aspetti abbiamo avuto il sostanzioso convegno nazionale dello scorso anno.

    Due stimoli iniziali

    Il primo stimolo me lo offre Robert Darnton, uno storico che indaga «sui modi di pensare» della Francia del Settecento, ponendo «domande nuove a materiale vecchio», per mostrare «non solo che cosa pensava la gente, ma come pensava - come interpretava il mondo, gli dava un senso e conferiva un significato emotivo». Invece di fare una storia descrittiva o intellettuale, si muove sul versante dalla storia della "mentalità".
    «Una cosa sembra chiara a chiunque sia reduce da una ricerca sul campo: gli altri sono altri. Non pensano come noi. E se vogliamo capire il loro modo di pensare dobbiamo partire dall'idea di catturarne l'alterità. [...]. Vale la pena di ripeterlo, perché nulla è più facile che adottare inavvertitamente la comoda idea che gli europei pensassero e sentissero due secoli fa esattamente come noi oggi - a parte le parrucche e le scarpe di legno. Abbiamo continuamente bisogno di qualcosa che ci scuota da un falso senso di familiarità col passato, di ricevere dosi di shock culturale» (R. Darnton, Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, Milano, Adelfi 1988, pp. 13-18).
    Di fronte alle frequenti semplificazioni, estrapolazioni e manipolazioni di parole e intuizioni di D. Bosco, noi dovremmo fare uno sforzo per prendere coscienza di quanto diverso dalle nostre convinzioni e dai nostri quadri mentali fosse il suo modo di interpretare la vita e gli eventi, di agire e di esprimersi, anche se in molti casi il linguaggio ci pare lo stesso.
    Partire dalla consapevolezza che la sua apparente semplicità nasconde una interiorità e un'operatività ricca e complessa, vissuta in parametri mentali e culturali molto lontani dai nostri. Cosa vuol dire questo per chi, nel contesto di un'esperienza oratoriana, oggi voglia riflettere sugli stimoli e i criteri che hanno determinato D. Bosco a dar vita all'Oratorio? Quando noi parliamo di oratorio, siamo sicuri di intendere la stessa cosa di cui parlava D. Bosco?
    Il secondo stimolo lo colgo da un recente evento ecclesiale. Lunedì 30 settembre i quotidiani italiani commentavano i discorsi di insediamento del nuovo arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. Marco Politi su «Repubblica» (30.09.2002, p. 21) scriveva:
    «Tettamanzi ha proclamato dal pulpito il suo programma. Preghiera e santità, unità fra le diverse componenti della Chiesa, impegno ecumenico, forte slancio missionario a fronte di una fede "minacciata da secolarizzazione e scristianizzazione". Molti cristiani, sottolinea, "pensano e vivono come se Dio non esistesse". E perciò diventa importante rendere la fede in Cristo visibile attraverso una testimonianza concreta che sia credibile anche per i lontani, anche per i non credenti.
    L'altra nota, che il cardinale ben temperato suona sia nel discorso alle autorità sia nell'omelia ai fedeli, è quella della solidarietà, dell'accoglienza, della sollecitudine nei confronti dei poveri e degli immigrati ... Tettamanzi non da oggi, guardando all'Italia e al mondo globalizzato, proclama che i diritti dei deboli non devono essere affatto diritti deboli, ma eguali ai diritti dei forti».
    La forte tensione missionaria, la proposta di un modello di vita cristiana integrale come via di santità da vivere e da proporre a tutti, la testimonianza fattiva della carità, la solidarietà, l'accoglienza e la sollecitudine nei confronti dei giovani poveri, immigrati e più deboli, sono state fin dall'inizio le istanze e i tratti caratterizzanti dell'Oratorio di D. Bosco. Come si collocano, da questa particolare visuale, i nostri oratori reali nell'oggi del Triveneto salesiano, al di là delle usurate e spesso retoriche espressioni da noi ripetute ("giovani poveri e abbandonati")?
    Tenendo sullo sfondo queste due provocazioni, vi propongo alcune riflessioni.

    Oratorio: una vocazione-missione che scaturisce da un itinerario di spiritualità

    Generalmente, parlando di Oratorio, si parte dall'istituzione e dalla sua storia, dalla sua organizzazione e attività, dal metodo e dal modello, dalla sua collocazione ecclesiale e civile, dalla sua pedagogia... Non si può fare a meno di notare che l'Oratorio, pur nella continuità di determinati parametri, ha avuto (ed ha tutt'oggi) volti diversi a seconda dei periodi storici e delle società in cui si è costituito.
    Di fronte agli interrogativi che oggi ci poniamo e al mandato che la Chiesa ci affida, io credo che si debba scavare più in profondità, andare alla radice dell'esperienza interiore stessa di D. Bosco. Infatti, le definizioni che egli ha tentato di elaborare del suo oratorio sono piuttosto descrittive e tutto sommato povere, incapaci a restituire quella potenza carismatica che ha retto e reso feconda la sua istituzione nella storia e nelle realtà culturali più diverse: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa» (Introduzione al Piano di regolamento per l'Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, 1854); «si possono definire luoghi destinati a trattenere ne’ giorni festivi i giovanetti pericolanti con piacevole ed onesta ricreazione dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa» (Cenni storici intorno all'Oratorio di S. Francesco di Sales, 1861). D. Bosco ha sempre avuto una certa difficoltà a formulare definizioni teoriche, pensiamo all'opuscolo Il sistema preventivo nell'educazione della gioventù.
    Quando invece si addentra i narrazioni egli appare molto più convincente ed efficace. Bisognerà aspettare fino agli anni 1873-75 per avere quel capolavoro di spiritualità e di pedagogia narrativa (che è anche una bilancio e un testamento) che sono le Memorie dell'Oratorio.
    Ma basta leggere alcune testimonianze dei contemporanei, che lo osservano nei suoi primi anni di attività, per trovare qualcosa di molto ricco e stimolante. In quei testi l'oratorio era descritto non come istituzione, ma come frutto della tensione spirituale e pastorale di D. Bosco e dei suoi amici preti. L'oratorio si identificava con D. Bosco.
    Scriveva un anonimo articolista sull'Armonia il 2 aprile 1849:
    «Uno zelante sacerdote ansioso del bene delle anime si è consecrato interamente al pietoso ufficio di strappare al vizio, all'ozio ed all'ignoranza quel gran numero di fanciulli, i quali abitanti in quei contorni, per le strettezze o l'incuria dei genitori, crescevano purtroppo sprovvisti di religiosa e di civile coltura. Quest’ecclesiastico, che ha nome D. Bosco, prese a pigione alcune casuccie ed un piccolo recinto, si è recato ad abitare in quel sito, e vi ha aperto un piccolo Oratorio sotto l'invocazione del gran vescovo di Ginevra, S. Francesco di Sales; egli ha cercato di attirarvi quei poveri giovani...».
    Qualche giorno dopo, il 7 aprile, Lorenzo Gastaldi scriveva della casetta e della cappella Pinardi sul Conciliatore torinese:
    «un umile prete fornito di nessun'altra ricchezza che d'una immensa carità, già da più anni vi raccoglie ogni dì festivo da cinque a seicento giovinetti per ammaestrarli nelle virtù cristiane, e renderli a un tempo figliuoli di Dio, e ottimi cittadini».
    Ma è soprattutto nelle Memorie dell'Oratorio che troviamo una riflessione di grande importanza per noi. Qui l'autore non si limita a raccontare la storia di una realizzazione e a descrivere le componenti tipiche della sua istituzione. Fa una lettura più profonda: vuol dimostrare che «Dio ha guidato ogni cosa in ogni tempo» e che l'Oratorio si è potuto attuare soltanto a seguito di un cammino spirituale di «confidenza in Dio», di abbandono in lui, di obbedienza alla sua chiamata, di docile costruzione interiore, di lavorio ascetico su di sé.
    Le allegre riunioni giovanili nei prati dei Becchi o nelle strade di Chieri sono descritte come «una specie di oratorio», soltanto una prefigurazione, di una realtà che fiorirà al culmine di un esigente itinerario di consegna a Dio, iniziato con le promesse della prima Comunione e col docile affidamento nella mani di don Calosso; approfondito nel discernimento vocazionale al termine degli studi umanistici; celebrato solennemente nell'evento della vestizione - raffigurata come una consacrazione, una consegna totalitaria a Dio, un «vestire l'abito di santità, per darsi tutto al Signore» -; consolidato con l'esigente ed insieme gioioso lavoro ascetico di distacco del cuore, di «ritiratezza», di «esatto adempimento» dei doveri, negli anni di seminario, con riprese e correzioni di rotta, quando era necessario («Questi tre fatti mi hanno dato una terribile lezione, e d'allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole darsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani...»); completato sotto la guida e gli esempi di carità apostolica del Cafasso e degli altri formatori del Convitto («Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del Clero Torinese... dipendeva solo da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù»).
    Certo, ci sono i catechismi domenicali durante i tre anni del Convitto, c'è l'evidenza crescente di una spiccata propensione a lavorare con i giovani abbandonati e c'è una grande capacità comunicativa che gli rende spontaneo e facile il rapporto con i ragazzi. Ma tutto partirà soltanto nel 1844 con la passività - che a noi pare esagerata - nell'obbedienza di fede al Cafasso per la scelta di una occupazione, preoccupato unicamente di «riconoscere la volontà di Dio» e di non «voler mettere niente del mio volere». E col traferimento come cappellano del Rifugio e dell'Ospedaletto - occupazione che «a prima vista sembrava ... contrariasse le mie inclinazioni» -, l'incontro col Borel e con le istituzioni caritative della Barolo gli permetterà di attuare quell'Oratorio sognato, anche se in forma ancora provvisoria. Sarà infine con la preghiera angosciosa nel prato Filippi, che somiglia tanto al sacrificio di Isacco, alla consegna del figlio della promessa per ubbidienza a Dio («Mio Dio, esclamai, perché non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere o ditemi che debbo fare», MO e Cenno storico 1854), e col passo estremo e coraggioso della rinuncia ad ogni stipendio che l'Oratorio decollerà, nella collaborazione con la semplice e coraggiosa madre, capace di sacrificare tutto con gioia, per fare la volontà del Signore, anche il ricordo carissimo del lontano amore simboleggiato nel «corredo sposalizio, che fino allora aveva gelosamente conservato intero» («Una sera mia madre, che era sempre di buon umore, mi cantava ridendo: Guai al mondo se ci sente | Forestieri senza niente»). Solo a questo punto l'Oratorio diventa realtà carismatica, completa di tutte le sue componenti.
    Insomma, D. Bosco non ci sta raccontando dei cari ricordi e degli aneddoti simpatici e commoventi. Ci sta dicendo con molta chiarezza che l'Oratorio è una dimensione interiore e spirituale di pastori-educatori chiamati innanzitutto alla sequela del Signore e al rendersi idonei per la salvezza dei fratelli. E che soltanto in un fattivo itinerario interiore di discernimento, di consegna totale, di tensione teologale (fede, speranza, carità), di obbedienza e distacco estremi e totali, può trovare la sua dimensione effettiva, incarnata nella situazione del momento, la lucidità nella lettura dei fenomeni sociali e nella ricerca delle soluzioni pastorali e la sua apertura duttile e poliedrica capace di presentarsi in forme, attività e modi adatti alle mutevoli esigenze pastorali e sociali.
    Vi sembrerà scontata questa sottolineatura, esagerata in linea spiritualizzante e un po' riduzionista rispetto ai problemi concreti dei nostri oratori. Ma mi pare che da un po' di decenni noi stiamo guardando all'oratorio e alla missione giovanile con categorie che ci confinano sul piano sociologico e strategico, realissimo e concretamente da affrontare - come fu di fatto anche per D. Bosco -, ma sganciato da quel fondamento interiore, così esasperatamente sottolineato nelle Memorie dell'Oratorio, senza il quale la nostra si riduce ad essere una strategia progettuale e imprenditoriale di operatori sociali, animatori culturali ed educatori che si comportano come se vita di fede e storia quotidiana si giocassero su campi completamente distinti, insomma nella logica di una mentalità secolarizzata. Così ci ritroviamo a distanza di circa quarant'anni di sforzi, di discorsi e di progetti a verificarne la risultanza spesso soltanto retorica.
    Ripartire da qui, concretamente e non solo virtualmente, significa ribaltare molte cose. Intanto mettere in questione noi stessi, le nostre motivazioni, la nostra interiorità e il rapporto con Dio, la qualità della nostra fede, le nostre relazioni all'interno della comunità di responsabili oratoriani, il nostro modo di pensare e discernere, di gestire il tempo, le riunioni, le scelte, le risorse... L'Oratorio, ci vuol dire D. Bosco, è una dimensione interiore intrecciata con la nostra vita spirituale, dalla quale scaturisce poi tutto il resto. In una lettera circolare del 1913 D. Albera riferisce un'espressione di D. Rua a un salesiano costernato di fronte alla assoluta mancanza di mezzi per fare oratorio: «Colà non v'è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l'Oratorio festivo è in te: se sei vero figlio di Don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere in albero magnifico e ricco di bei frutti».

    Le virtù del pastore d'Oratorio, i fini, i mezzi e il metodo

    Se, nella contemplazione di D. Bosco, vogliamo poi passare ai tratti essenziali dell'Oratorio, alle dinamiche che generano i criteri e portano alle scelte di fondo, vediamo che siamo proiettati ancora primariamente sulla persona del pastore-educatore.
    Gli osservatori che per primi informarono l'opinione pubblica sull'Oratorio di S. Francesco di Sales non fecero altro che mettere in risalto gli atteggiamenti e le caratteristiche di D. Bosco, rilevando come fossero la sorgente di ogni iniziativa, attività e scelte pratiche, ma anche di un metodo caratteristico.
    A cominciare dal prof. Casimiro Danna, pedagogista torinese, che nel Giornale della Società d'istruzione e d'educazione (1849), presenta la scuola domenicale di D. Bosco, «sacerdote che non posso nominare senza sentirmi compreso della più schietta e profonda venerazione. Fuori di Porta Susa ... egli stabilì un oratorio intitolato di S. Francesco di Sales. Non a caso e non invano. Perché più che il titolo, lo spirito di quell'apostolo ardente del diritto zelo che smisuratamente in cuore avvampa, trasfonde nel suo istituto quest'ottimo prete, il quale ha consacrato se stesso ad alleggerire i dolori del popolo misero, nobilitandolo ne' pensieri».
    Ciò che appare come sorgente dell'istituzione è lo zelo ardente del suo fondatore. «L'egregio sacerdote D. Bosco, che animato dalla più perfetta carità dedicò tutto se stesso all'istruzione ed educazione dei poverelli», si scrive il 4 maggio 1849 su L'Armonia. L'economo generale Ottavio Moreno, funzionario del ministero di Grazia e di Giustizia, presenta i tre fondatori degli oratori torinesi (Cocchi, Bosco e Saccarelli) come «zelantissimi sacerdoti, che con istraordinaria carità si occupano del ricovero, dell'istruzione, e dell'educazione di povere fanciulle, e di poveri ragazzi», poi si dilunga nel presentare l'opera del nostro fondatore: «Il sacerdote Gioanni Bosco si slanciò in più vasto campo, e si pose alla testa di tre riunioni di giovanetti, collocandole sotto il vessillo della religione, chiamandole, come già S. Filippo Neri, Oratori ... Sempre vi presiede il buon sacerdote Bosco assistito da alcuni suoi amici e confidenti sacerdoti, che con tutto l'impegno ne secondano lo zelo e la carità»; e conclude con una definizione singolarmente efficace di D. Bosco: «attivo e nella sua carità impaziente».
    La carità cristiana è il motore di tutto, la sorgente dello zelo e dell'intraprendenza, la suggeritrice delle iniziative, ma anche la matrice di ogni virtù e l'ispiratrice del metodo oratoriano. Lo nota con efficacia il Gastaldi nel Conciliatore torinese già citato:
    Questo egregio sacerdote ... era altamente accuorato al vedere ne' dì sacri al Signore, centinaia e centinaia di fanciulli, abbandonati a se stessi ... La vista di tanti garzoncelli, che ... crescevano nella più crassa ignoranza ... esposti a tutte le corruttele che nascono dall'ozio e da pessime compagnie ... il punse così vivamente nel cuore, che deliberò di porvi quel rimedio ch'ei sapesse migliore ... Consigliatosi col suo zelo, armatosi d'una pazienza a tutte prove, vestitosi di tutta la dolcezza e umiltà, che ben conosceva richiedersi all'alta sua impresa, diedesi a girare ne' dì festivi pei dintorni di Torino, e quanti vedesse crocchi di giovani intenti a' trastulli, avvicinarli... È facile il pensare con quanti scherni sarà stato assai delle volte ricevuto il suo invito, e quante ripulse avrà dovuto soffrire: ma la sua costanza e la sua dolcezza a poco a poco trionfarono in un modo prodigioso: ed i fanciulli più riottosi, i giovanetti più scapestrati, vinti da tanta umiltà e da tanta mitezza di modi, si lasciarono condurre all'umile recinto, che vi ho descritto.
    L'amore che scaturisce dalla carità si trasforma in amorevolezza e in esigenti virtù educative che connotano un metodo, rilevato con acume dal pedagogista Casimiro Danna:
    Egli raccoglie ne' giorni festivi, là in quel solitario recinto da 400 a 500 giovanetti sopra gli otto anni, per allontanarli da pericoli e divagamenti, e istruirli nelle massime della morale cristiana. E ciò trattenendoli in piacevoli ed oneste ricreazioni, dopo che hanno assistito ai riti ed agli esercizi di religiosa pietà, lui pontefice e ministro, maestro e predicatore, padre e fratello, colla più edificante santimonia compiti ... L'esca con cui attrae quella numerosissima schiera oltre i premi di qualche pia immagine, oltre le lotterie, e talvolta qualche colazioncella, si è l'aspetto sempre sereno, e sempre vigile nel propagare in quelle anime giovanette la luce della verità e del vicendevole amore [quasi a dire che il metodo è la persona stessa di D. Bosco].
    Quasi a dire che il metodo è la persona stessa di D. Bosco, così impastata di carità amorevole e sollecita, capace di aprire efficaci canali comunicativi e suscitare affetto e disponibilità che stupiscono Ottavio Moreno:
    Arriva la domenica, od il giorno festivo: allora que’ giovani, che egli collocò in una qualche bottega od officina tutti accorrono con brio ed impazienza all'Oratorio di S. Francesco di Sales, e là si stringono attorno all'amorevole D. Bosco, verso cui si mostrano pieno l'animo di riconoscenza, e di affetto. Là dopo la religiosa istruzione, ed il cantico delle divine laudi, si passa al divertimento della ginnastica, delle boccie, della giostra ... ed a ben altri trastulli, che trattengono l'ilarità, la buona armonia, ed il buon costume; perché mai non si ode parola villana o sconcia; mai un alterco; mai un insolente e sfacciato schiamazzo: tutto è regolato dalla presenza, dal rispetto, e dall'amore che ispira il benefico sacerdote, che nella sua propria ristrettezza, non esita a dare un pane a chi mostra d'averne bisogno, od anche un bicchiere di vino adacquato a chi tra l'agitazione dello trastullo prova la sete.
    Non bisogna però perdere di vista l'obiettivo di questa azione e di questo metodo, che D. Bosco denuncia fin dai primi momenti, anche in documenti alle autorità civili, come l'importante lettera al Vicario di Città Michele Cavour del 13 marzo 1846: il suo Catechismo «ha di mira il bene della gioventù», lo scopo è quello «di raccogliere nei giorni festivi quei giovani, che abbandonati a se stessi non intervengono ad alcuna Chiesa per l’istruzione, il che si fa prendendoli alle buone con parole, promesse, regali, e simili. L’insegnamento si riduce precisamente a questo: 1° Amore al lavoro. 2° Frequenza dei Santi Sacramenti. 3° Rispetto ad ogni superiorità. 4° Fuga dei cattivi compagni. Questi principii che noi ci studiamo d’insinuare destramente nel cuore dei giovanetti hanno prodotto effetti meravigliosi»; «la preghiamo a voler proteggere queste nostre fatiche, le quali, come ben vede, non tendono ad alcun'ombra di lucro, ma solo a guadagnar anime al Signore».
    Un obiettivo che si specifica in una proposta formativa che stupisce i suoi stessi collaboratori e confratelli, considerando i frutti che sa produrre in ragazzi tanto dissipati, rozzi e talvolta corrotti: «Tutti quei ragazzi, i più dei quali sarebbero cresciuti nell'ignavia e nel vizio, s'incamminano alla virtù e al lavoro» (L'Armonia 2 aprile 1849). Il Gastaldi, scende a particolari interessanti per noi: «Ella è una meraviglia il vedere l'affetto e la riconoscenza tenerissima che quei fanciulli nutrono in cuore verso il loro benefattore ... La sua parola ha una virtù prodigiosa sul cuore di quelle anime ancor tenere, per ammaestrarle, correggerle, piegarle al bene, educarle alla virtù, innamorarle anche della perfezione» (cf. Giovane provveduto: darsi a Dio per tempo, e tutto il discorso sulla santità che D. Bosco andrà sempre più insistentemente sviluppando a partire da quegli anni). Aggiunge poi una annotazione che apre spiragli per la riflessione sull'origine della vocazione oratoriana e salesiana dei discepoli di D. Bosco: «I primi giovinetti che vi furon chiamati, assaporate le dolcezze della pietà, provato l'ineffabile piacere d'un'anima, che sentesi o cavata dall'abisso della corruzione, o sollevata alla più ferma speranza d'un eterno premio, divennero altrettanti piccoli apostoli presso i loro compagni e colleghi nel vizio, o nella dissipazione».
    Il discorso si potrebbe dilungare, toccando le dimensioni e le attività e che caratterizzano l'oratorio, il sistema preventivo nelle sue tre linee di forza, le note tipiche della comunità oratoriana e il modello di pastore-educatore. Tutto rimanda ad una sorgente che non dovrebbe mai essere data per scontata o superata, ad una dinamica spirituale e ad un orizzonte missionario, ad una coscienza di fede che richiedono costante attenzione e riscoperta, proprio in situazioni socio-culturali di pluralismo come le nostre.
    Guardando a D. Bosco siamo tutti convinti che non si trattava di uno spiritualismo disincarnato, di un atteggiamento bigotto e intimista: ne vediamo la concretezza esigente e il dinamismo storico che ha generato.
    Non so che cosa possa comportare questo ritorno alla sorgente interiore che va operato nelle nostre realtà oratoriane oggi e nelle nostre più o meno perfette o scalcagnate comunità educativo-pastorali. Ma certo, se non vogliamo stemperare e perdere la nostra identità e il nostro cuore pulsante, non possiamo più separare il momento analitico e progettuale da quello spirituale, dal profondo personale coinvolgimento nella sequela esigente del Cristo pastore.

    Dal Convegno sull’Oratorio (Mestre 9-10 novembre 2002)


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