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    L'oratorio salesiano:

    sintesi originale e attuale

    tra educazione

    e educazione alla fede

    Riccardo Tonelli

    Il titolo, posto a riferimento della mia relazione, propone la qualità costitutiva dell'Oratorio salesiano e prende posizione sulla sua ragion d'essere.
    Lo fa riaffermando, con una formula felice, una consapevolezza diffusa a livello di Congregazione (cfr. art. 11).
    Questo modo di vedere le cose risuona innegabilmente un po' provocatorio alla sensibilità raffinata di molti operatori di pastorale giovanile.
    Tre affermazioni ricorrono infatti con tono sicuro: la necessità di cercare una sintesi tra educazione e educazione alla fede, l'originalità della proposta suggerita dall'Oratorio salesiano rispetto ai modelli diffusi, la sua attualità nonostante i grossi cambi, culturali e strutturali, che hanno investito la vita sociale ed ecclesiale. Su questi problemi, centrali in ogni processo pastorale, avanza così la pretesa di suggerire prospettive di azione per chiunque è impegnato nell'ambito della pastorale giovanile.
    La nostra ricerca supera quindi l'ambito della Famiglia salesiana. Non siamo qui a rivisitare qualcosa che riguarda solo noi, nel circolo ristretto e poco entusiasta degli addetti ai lavori. Con l'affermazione messa a titolo, ci sentiamo impegnati nella Chiesa per il Regno di Dio su un progetto emblematico.
    Lo so che ci muoviamo in prospettiva di dover-essere. Non raccontiamo cioè il nostro vissuto quotidiano; ma diciamo la sua ragione più profonda e il suo progetto ricercato e sognato.
    Ma, in fondo, è corretto sognare così l'Oratorio salesiano? Non hanno forse ragione quegli amici che lo contestano proprio a partire da queste logiche? Sappiamo che sono ancora parecchi: qualcuno all'interno della Congregazione e molti fuori di essa.
    Sono convinto che l'Oratorio salesiano è davvero una sintesi, originale e attuale, tra educazione e educazione alla fede. Per questo ho accettato volentieri di analizzare il problema con la calma e l'attenzione necessaria.
    Confesso che la mia riflessione non riesce a restare fredda e distaccata. Molto della mia storia salesiana si intreccia con la storia degli Oratori; il desiderio che l'esperienza continui, come dono ad altri, appassiona la mia ricerca.

    1. A confronto con problemi

    Chiunque si mette a fare pastorale giovanile si scontra, presto o tardi, con una serie di problemi che riguardano il rapporto tra educazione e educazione alla fede.
    Quando diciamo che la pastorale giovanile è «educazione» alla fede, prendiamo sul serio la voce «educazione», disposti a misurarci, nelle dimensioni di fondo, con i contributi delle scienze dell'educazione; oppure quando si dice «educazione alla fede», l'educazione è solo un modo di dire analogico, che ha poco da spartire con il mondo concreto dell'educazione, in senso tecnico? Ammessa una eventuale dimensione educativa per la pastorale giovanile, possiamo parlare veramente di «educabilità» della fede? Educabilità vuol dire possibilità di intervenire attraverso processi di educazione. Qui parliamo di educabilità della fede: possiamo intervenire sulla maturazione della fede?
    Sappiamo che la fede è un dono di Dio, segno della sua bontà e del suo amore, che supera ogni nostro impegno e progetto. Educazione esprime invece lo sforzo attraverso cui l'uomo aiuta sé e gli altri a costruirsi progressivamente.
    A prima vista i due elementi non vanno proprio d'accordo. Si escludono a vicenda; o si influenzano tanto da rovinarsi.
    Se insistiamo troppo sulla educazione, salta la gratuità della fede; se insistiamo troppo sulla fede, l'educazione perde la sua carica di competenza umana, di progettualità e responsabilità personale.
    Il problema è certamente serio. In che direzione possiamo muoverci?
    Il rapporto tra educazione e educazione alla fede non è prima di tutto un dato di teoria pastorale. Esso è una qualità del vissuto concreto delle comunità ecclesiali. La sua definizione teologica è una interpretazione critica della prassi ecclesiale.
    Purtroppo il confronto con il vissuto pastorale dà oggi più problemi di quanti non aiuti a risolverne.
    Il vissuto delle nostre comunità ecclesiali si presenta infatti molto pluralista e diversificato. Riesce persino difficile tentarne una classificazione, capace di andare oltre la semplice recensione fenomenologica dei dati di fatto.
    Per procedere nella ricerca devo però superare l'ostacolo: non posso avanzare ipotesi senza verificare seriamente la prassi. Per questo tento la via dei «modelli». Risulta l'unica praticabile. Raccolgo perciò gli elementi più rilevanti del vissuto ecclesiale attuale in uno schema di comodo per far risultare meglio le linee di tendenza.

    1.1. Primo modello: le forti proposte

    Il modello teologico tradizionale, che per tanto tempo ha dominato il dibattito circa il rapporto tra teologia e pedagogia, propone una prospettiva di netta dipendenza: l'atto pastorale «comanda» all'atto educativo sia nelle procedure che nelle strumentazioni. In questa prospettiva si parla molto di educazione alla fede e si insiste sugli interventi necessari per attuarla. La voce «educazione» è assunta però solo in una visione molto analogica, rispetto a quella caratteristica delle scienze dell'educazione; il suo contenuto viene derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Viene così, in ultima analisi, svuotata ogni seria preoccupazione educativa nell'azione pastorale.
    Queste prospettive teologiche ispirano e orientano un modo concreto di fare pastorale giovanile.
    In questo modello l'azione educativa e pastorale con i giovani viene strutturata secondo uno stile di forte proposta. Le esigenze più decisive dell'esperienza cristiana sono messe in primo piano. In fondo, al modello interessano più i contenuti e gli eventi che il confronto con i destinatari. Dalla cultura dominante ci si preoccupa di prendere le debite distanze, ritrovando la carica alternativa e critica dell'esperienza cristiana.
    È facile giungere al rifiuto dei processi educativi o alla loro strumentalizzazione per l'educazione alla fede.

    1.2. Secondo modello: la prevalenza dello «spirituale»

    Come reazione alla eccessiva pedagogizzazione della fede e della vita cristiana, sotto la spinta della «teologia dialettica», è sorto un modello che distingue drasticamente il momento educativo da quello pastorale. Alla base di questa concezione sta l'affermata irriducibilità del mondo della fede con il mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazione c'è solo un discorso soteriologico, estraneo ad ogni interesse educativo.
    Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All'assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l'estrema e infinita inferiorità dell'uomo.
    Tra Dio e l'uomo non esiste nessuna possibilità di passaggio. In Gesù Dio si è fatto vicino all'uomo; l'evento è però unico e irripetibile. Nulla ha modificato della struttura costitutiva dell'incontro tra Dio e l'uomo.
    Questo modello è segnato da una visione pessimistica nei confronti della cultura e di ogni produzione umana.
    Esso rifiuta, di conseguenza, in termini abbastanza duri, ogni mescolamento dell'educativo nell'ambito dell'evangelizzazione. L'accesso al mistero di Dio e alla sua salvezza è un dono che irrompe nella storia dell'uomo. Bisogna solo invocarlo ed accoglierlo con piena disponibilità.
    Le cose da fare sono poche e relativamente semplici: moltiplicare i contatti tra Dio e l'uomo. Di qui l'insistenza sui momenti di preghiera, sulle celebrazioni liturgiche e sacramentali, sull'ascolto della Parola di Dio, sulle esigenze di una esistenza tutta nello Spirito.
    In questa ipotesi i giovani non hanno uno spazio speciale: il problema della salvezza non è loro, ma dell'uomo in genere. Tutto viene perciò risolto nel clima, accogliente e pervasivo, della comunità di fede e di vita ecclesiale.

    1.3. Terzo modello: la scelta educativa

    Esistono modelli pastorali che preferiscono invece misurarsi sulle modalità storiche mediante le quali Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. Essi sottolineano così la convergenza e complementarità tra atto pastorale e atto educativo.

    La logica di fondo è quella della «sacramentalità»: di quel rapporto tra «visibile» e «mistero» che caratterizza l'Incarnazione, la qualità della presenza tra noi di Dio in Gesù di Nazareth.
    La Parola di Dio, offerta dalla Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana, per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all'uomo, in vista della fede. C'è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell'uomo. Esiste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell'invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato.
    In questa prospettiva è facile riconoscere nell'educazione un contributo irrinunciabile anche per l'educazione alla fede: il visibile è il luogo di presenza del mistero e via privilegiata per accedervi.
    Lo stile pastorale è molto realistico. Evita i discorsi e le proposte troppo elevate, giocate sulle idealità astratte del solo dover-essere. Preferisce fare proposte, rispettando il primato dell'esperienza. Si cercano occasioni per far toccare con mano ai giovani che sono accolti e considerati per quello che sono.
    Gli educatori sono alla ricerca di «domande» in cui riformulare e da cui far reagire la fede. L'attuale diffusa «domanda di senso» rappresenta un luogo privilegiato per questa operazione. Dove è già vivace, lì l'azione pastorale si trova a proprio agio, anche se riconosce l'esigenza di «educare» continuamente anche questa domanda. Dove è assente o non viene posseduta riflessamente, la presenza, amorevole e costante, dell'educatore e l'accoglienza degli interessi quotidiani dei giovani sono finalizzati a farla fiorire.
    Anche i contenuti tipici dell'esperienza cristiana sono riscritti per renderli significativi ed espressivi, all'interno del modello antropologico che è stato privilegiato. Sorge così un modo nuovo di pregare, di celebrare, di realizzare l'impegno etico, di vivere da uomini spirituali.

    1.4. Quarto modello: l'educativo prima del pastorale

    Qualche esperienza attuale preferisce affermare il primato dell'educativo, compreso in termini di totale autonomia, sul pastorale.
    Da questa ipotesi nasce un modello pastorale che mette al centro la prassi quotidiana nelle sue dimensioni più immediate e concrete.
    Tutti sanno che le cose si portano dentro un mistero più grande. Lo chiamiamo di solito con i nomi relativi della nostra esperienza credente: presenza di Dio, peccato, salvezza, fede. Su esso la pastorale gioca le sue preoccupazioni e le sue operazioni.
    Questa dimensione profonda è immersa però in dati e fatti sperimentabili e manipolabili, in cui sono in gioco responsabilità precise e concrete. A questo livello, si pronunciano le scienze dell'educazione. Qui è indispensabile chiamare le cose con i loro nomi, accettare i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi, programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati.
    Realizzata così, la pastorale giovanile possiede una intensa carica di coinvolgimento. Diventa aggressiva e inquietante. Crea una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti. La risonanza politica attraversa anche i gesti ritenuti abitualmente più «sacri» (eucaristia, salvezza, Parola di Dio...).
    Affiora la consapevolezza che fare bene educazione è già in ultima analisi fare educazione alla fede.

    2. La prospettiva salesiana

    Tra queste diverse posizioni, l'attuale sensibilità pastorale della Congregazione sembra privilegiare quella prospettiva che nella tipologia precedente ho legato all'evento dell'Incarnazione. Molti documenti recenti richiamano spesso la logica dell'Incarnazione per dire lo stile della nostra azione pastorale.
    Non mi attardo a motivare la scelta. Fa parte ormai del nostro patrimonio comune e condiviso.
    Mi soffermo invece sugli esiti operativi, rispetto al problema che stiamo analizzando.

    2.1. Il primato della evangelizzazione: quale evangelizzazione?

    Stiamo cercando un rapporto tra educazione e educazione alla fede a partire dalla consapevolezza della priorità carismatica affidata alla evangelizzazione. Questa va sottolineata senza mezzi termini. Lo ricorda il dettato costituzionale: «La vocazione salesiana ci situa nel cuore della Chiesa e ci pone interamente al servizio della sua missione. Fedeli agli impegni che don Bosco ci ha trasmesso siamo evangelizzatori dei giovani, specialmente dei più poveri (...). Contribuiamo in tal modo a edificare la Chiesa come Corpo di Cristo affinché, anche per mezzo nostro, si manifesti al mondo come sacramento universale dí salvezza» (Cost. 6).
    «Evangelizzazione» è però un'espressione tanto ricca di significati da diventare equivoca. La comunità ecclesiale, quando oggi parla di evangelizzazione, si riferisce normalmente alle prospettive che l'Evangelii nuntiandi ha presentato come punto di riferimento normativo (cfr. EN 17-24).
    Le ricordo, a veloci battute, perché non è assente il rischio di sottolineare il primato della evangelizzazione, pensando secondo schemi mentali superati.
    Solo da una visione matura e articolata è invece possibile ritrovare quelle dimensioni operative che esprimono un preciso modello di rapporto tra educazione e educazione alla fede.
    L'Evangelii nuntiandi definisce l'evangelizzazione come un processo complesso, articolato in differenti interventi.
    Con una schematizzazione utile, gli interventi possibili sono riassunti in tre: la testimonianza, l'annuncio, la celebrazione. Il documento propone chiaramente una descrizione di ciascuno, per evitare cattive letture.
    Testimonianza è un modo di essere presenti nella realtà e la qualità dell'impegno per trasformarla. In questo, si propone come una modalità di vita e di responsabilità, condivisa e compartecipata con tutti gli uomini di buona volontà. È una dimensione «laica».
    Secondo i riferimenti che noi privilegiamo, testimonianza è l'atto educativo e la produzione della cultura, realizzati come espressione concreta di promozione dell'uomo.
    La testimonianza fa nascere domande attorno al senso dell'esistenza, personale e collettiva. A queste domande, l'evangelizzazione risponde attraverso l'annuncio. Nell'annuncio il credente dà le ragioni dei gesti di testimonianza che ha posto. Li colloca in un orizzonte di definitività, li interpreta, e, soprattutto, li collega esplicitamente con il mistero del Dio di Gesù Cristo, nella comunità ecclesiale.
    L'annuncio, nella proposta offerta da Evangelii nuntiandi, non è perciò la diffusione di parole, ma la giustificazione attraverso la parola proclamata («dare le ragioni») di un impegno promozionale.
    La terza dimensione dell'evangelizzazione è costituita dalla celebrazione. Certamente il documento pensa alle celebrazioni liturgiche e sacramentali, momento vertice di tutto il processo. Ricorda però anche l'esperienza globale di vita nuova: un clima, respirato e vissuto, che assicura, nell'oggi e per connaturalità, della verità di quanto è proposto per il futuro.
    È importante ricordare che l'Evangelii nuntiandi propone questi tre momenti come dimensioni dell'unico processo di evangelizzazione. Sembra ricordare che solo nella articolazione complessiva il processo è vero. Nessun elemento è previo o va interpretato solo come successivo quasi ci fossero gesti di semplice preevangelizzazione o si potessero progettare interventi con scadenze logiche o valoriali.
    Questa importante prospettiva restituisce alle singole comunità ecclesiali la responsabilità di essere soggetto di evangelizzazione. Al loro interno, tutti collaborano all'unico compito, con interventi e presenze differenziate.
    La diversità non dice mai subordinazione; esprime invece- qualità di presenza.
    In questa visione teologica viene suggerita una soluzione molto stimolante del rapporto tra educazione e educazione alla fede. Rispetta le diversità degli approcci, anche se li colloca nell'unica intenzionalità globale.

    2.2. La «scommessa» dell'educazione

    Realizzando così il suo impegno di evangelizzazione, il salesiano riconosce la portata «salvifica» dell'educazione, la sua capacità di rigenerare veramente l'uomo e la società.
    Impegnato al servizio della causa di Dio nella causa dell'uomo, fa dell'educazione la sua passione, lo stile della sua presenza, lo strumento privilegiato della sua azione.
    Scegliendo di giocare la sua speranza nella educazione, sente di essere fedele alla sua vocazione.
    È vero che l'evangelizzazione non può essere ristretta ai soli processi di educazione. Senza l'annuncio di Gesù Cristo e senza la celebrazione del suo incontro personale, l'uomo resta chiuso e intristito nella sua disperazione. Per restituirgli veramente felicità e speranza, siamo invitati ad assicurare l'incontro con il Signore Gesù, la ragione decisiva della nostra vita.
    La «scommessa dell'educazione» non esclude queste esigenze, ma suggerisce la modalità e l'intenzione con cui esprimere anche gli interventi qualificati in un orizzonte che si sporge nel mistero di Dio (come sono, per esempio, liturgia e sacramenti).
    Chi crede all'educazione sa che solo all'uomo restituito alla coscienza della sua dignità e alla passione per la sua vita, possiamo annunciare il Signore Gesù, come la risorsa risolutiva del suo desiderio di felicità e di vita, da invocare e incontrare nella verità e nella profondità della sua esistenza umana.
    L'annuncio dell'evangelo mette perciò l'uomo al centro, lo vuole protagonista anche quando gli sollecita l'obbedienza accogliente di un dono. Le esigenze della gradualità, della progressività, il rispetto della soggettività anche nella sua elaborazione, rappresentano i criteri obbligati su cui misurare il servizio pastorale.

    3. L'Oratorio salesiano come cassa di risonanza privilegiata

    Meditando sugli orientamenti globali della Congregazione, ho suggerito un modello teorico di rapporto tra educazione e educazione alla fede. Questa prospettiva si esprime e si concretizza in strutture pastorali. Al loro interno essa si fa operativa: diventa un modo concreto di offrire l'evangelo come buona notizia per la vita quotidiana.

    3.1. Gli elementi che fanno l'Oratorio salesiano

    Noi realizziamo questo modello in tutte le strutture apostoliche che animiamo. L'Oratorio salesiano rappresenta però un'attività privilegiata perché gli elementi che lo costituiscono sono collocati quasi strutturalmente su queste logiche.
    Per convincersene, basta fare la fotografia dell'Oratorio salesiano, come emerge dai documenti e dal vissuto.

    3.1.1. L'Oratorio salesiano è prima di tutto un ambiente concreto e definito. Esistono quasi dei confini fisici che permettono di definire chi è dentro e chi è fuori. Qualche volta questi confini sono rigidi: chi li varca sa di compiere una decisione verificabile e spesso quantificabile. Altre volte, invece, sono molto duttili e labili: il passaggio dal fuori al dentro è a prevalente carattere intenzionale e qualitativo.
    In tutti i casi, però, l'ambiente specifico resta sempre un po' alternativo rispetto al contesto.
    Il passaggio di ciò che non è ancora l'Oratorio salesiano allo spazio educativo dell'Oratorio è sostenuto e sollecitato dalla sua capacità di creare identificazione. I confini sono superati sotto la spinta della curiosità; la permanenza nell'ambiente è assicurata invece dal processo di identificazione che esso scatena.

    3.1.2. La forza identificativa e propositiva dell'Oratorio salesiano è assicurata in genere dalle diverse attività realizzate al suo interno. La tradizione salesiana è ricca di proposte.
    È inutile elencarle: direi cose scontate e soprattutto correrei il rischio di dimenticare qualcosa.
    Ricordo invece una loro tipologia complessiva.
    Nell'Oratorio salesiano ci sono attività chiaramente sbilanciate sul versante dell'educazione alla fede. E ce ne sono altre collocate nel versante formalmente educativo.
    Le attività a carattere educativo riguardano l'ambito della produzione e della comunicazione della «cultura», attraverso l'esercizio progressivo di una razionalità critica, in vista della personale crescita in umanità. Hanno come preoccupazione sostanziale e specifica la maturazione della persona nella società, attraverso la proposta di valori, in confronto con modelli e scelte di vita, la gestione equilibrata degli interessi personali e dei rapporti intersoggettivi.
    Le attività relative all'educazione alla fede invece hanno come oggetto la proposta, esplicita e tematica, dell'evangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza. La struttura comunicativa specifica di questo annuncio è la testimonianza di vita, l'interpretazione di questa esperienza, fino a tradurla in messaggio, e la celebrazione dell'esperienza vissuta nei sacramenti della Chiesa. Il linguaggio utilizzato è quello della fede vissuta e confessata.
    Lo so che la distinzione è di comodo. Ricorda che non esistono attività «neutrali», di semplice consumo del tempo. Tutte al contrario investono i dinamismi maturativi della persona. E ricorda i due poli estremi di una specie di continuo ideale: molti interventi riguardano nello stesso tempo l'educazione e l'educazione alla fede; altri invece sono orientati in modo più esplicito verso una delle due preoccupazioni.

    3.1.3. Una terza qualità caratteristica dell'Oratorio salesiano è la sua «apertura» verso tutti i giovani. Si tratta di un doppio tipo di apertura: la potenziale capacità di dialogare con tutti senza distinzioni di livelli di maturazione e la compresenza di soggetti in età diverse. Il primo tipo di apertura è pacifico e viene spesso ricordato, contro tentazioni discriminanti. Il secondo ha percorso stadi diversi. Ho l'impressione però che, almeno nel contesto italiano, la distinzione introdotta dai nostri Regolamenti (art. 11 e 12) tra Oratorio e Centro giovanile (che dalla variabile «età» riportava a quella della «qualità») non abbia trovato riscontro operativo.
    Questa apertura esprime lo stretto rapporto dell'Oratorio salesiano con il «territorio». Il «dentro» dell'Oratorio salesiano non è qualcosa di separato rispetto alla realtà. Dice solo uno spazio protetto e controllabile per sperimentare e produrre una qualità diversa di vita e una specifica dimensione cristiana per la vita di tutti. L'Oratorio salesiano si misura sul territorio come presenza trasformatrice.

    3.2. La sintesi tra educazione e educazione alla fede

    Nell'Oratorio salesiano l'atto educativo e l'atto pastorale (quello relativo cioè alla educazione alla fede) si richiamano e si ricoprono in una relazione speciale.
    Nell'Oratorio salesiano le differenze sono riconosciute e rispettate sul piano delle intenzioni, delle strumentazioni e della struttura comunicativa. È innegabile però che le attività di educazione e quelle di educazione alla fede sono proposte come espressioni diversificate dell'unica globale intenzione evangelizzatrice. Per questo sono accentuati gli elementi di contatto. L'Oratorio salesiano opera così certamente per ragioni pragmatiche. I due processi sono realizzati dagli stessi agenti, godono di strumenti e spazi comuni, riguardano i medesimi destinatari. La sintesi operativa rispecchia però, in qualche modo, una più decisiva sintesi teologica. L'Oratorio salesiano infatti, nella fedeltà a quella preoccupazione fondamentale che qualifica la vocazione salesiana, propone la convergenza tra educazione e educazione alla fede come concreta condizione per dialogare veramente con tutti i giovani, senza discriminazioni o preclusioni previe.

    4. Prospettive operative

    Ho ritagliato una ipotesi salesiana per definire il rapporto tra educazione e educazione alla fede e ho costatato come l'Oratorio salesiano possa rappresentare, nella sua struttura costitutiva, una proposta concreta e privilegiata.
    Tutto questo però è vero solo a precise condizioni.
    Nella mia ipotesi esprimono la qualità da assicurare nell'insieme degli elementi che fanno l'Oratorio salesiano. Sono il suo modo di esistere, la sua definizione operativa.
    Un Oratorio, capace di realizzarsi secondo queste esigenze, rappresenta per me una sintesi, attuale e originale, tra educazione e educazione alla fede: attuale, perché collocata nello sfondo dei problemi dell'oggi; originale perché risolta in quella prospettiva carismatica che ha molto da proporre a tutti coloro che operano nella pastorale giovanile.

    4.1. L'ambiente per l'integrazione fede/vita

    L'Oratorio salesiano è costitutivamente un ambiente particolare, inserito e distinto rispetto il territorio. È importante ricordarlo, come reazione a quei modelli che tentano di collocare i processi educativi nel crocevia disarticolato in cui scorrono le proposte le più disparate.
    Per questo la sintesi tra educazione e educazione alla fede è offerta dell'Oratorio salesiano prima di tutto nella sua struttura, in quanto «ambiente».
    Ripercorrendo temi che hanno orientato la ricerca pastorale della comunità ecclesiale italiana in questi ultimi anni, si può dire che l'Oratorio salesiano è un ambiente dove si respira un clima di integrazione tra fede e vita.
    Con questa formula felice siamo abituati a declinare il rapporto tra educazione e educazione alla fede. Parla infatti di «integrazione fede/vita» colui che crede nell'educazione e opera in termini educativi per aiutare ogni persona a formarsi una struttura solida di personalità, integrata attorno all'esperienza di fede, in modo che i suoi criteri valutativi e operativi si rifacciano a Gesù e al suo messaggio, testimoniato nella Chiesa, non come ad un dato imposto dall'esterno, ma come ad esigenza e a risposta connesse con l'esperienza della vita stessa e dei valori umani che la caratterizzano.
    L'Oratorio salesiano assicura un clima di integrazione fede/vita quando tutto sollecita a verificare il rapporto tra esperienza quotidiana ed esistenza cristiana in termini di riconciliazione e di confronto, perché alla fede viene affidata la funzione di risignificare e di riorganizzare gli interessi e i valori della vita, in un confronto che resta, per forza, dialettico e critico. Propone questo clima attraverso i mille frammenti che fanno la qualità della sua struttura: il fatto di gestire attività a carattere religioso e attività di tipo culturale e sportivo, con la stessa intensità e fuori da ogni ombra di strumentalizzazione; i cartelloni e i manifesti che coprono di colore le sue pareti, dove risuona una incondizionata fiducia nella vita quotidiana dell'uomo e un amore appassionato per il suo Signore; le battute e i commenti dei responsabili, che punteggiano il ritmo della giornata, nei momenti destrutturati e in quelli programmati; il prestigio riconosciuto agli adulti che attraversano la giornata oratoriana, valutati importanti proprio sul livello dell'integrazione fede/vita; la gestione (anche economica) di quella grossa impresa che è ogni Oratorio salesiano, realizzata secondo logiche tali che sia possibile sperimentare quel rapporto tra fede e vita di cui si parla tanto nei momenti istituzionali.

    4.2. Una cultura risignificabile dalla fede

    L'Oratorio salesiano è un ambiente, capace di assicurare identificazione, soprattutto sulla forza delle attività che programma e propone.
    L'originalità e l'attualità della sintesi tra educazione e educazione alla fede è assicurata strutturalmente per il fatto che nell'Oratorio si riconosce pari dignità e reciproca importanza alle attività a carattere educativo e a quelle formalmente pastorali. Questo dato, importante, non è però sufficiente.
    La novità sta nel reciproco rapporto: solo così è assicurato il raggiungimento e il consolidamento dell'integrazione fede/vita. L'Oratorio salesiano attraverso le sue attività produce cultura: significati e orientamenti per la vita, valori, modelli di comportamento. Questa cultura apre verso la fede e si integra nel suo orizzonte quando è orientata verso uno stile di esistere come uomini, capace di corrispondere, almeno tendenzialmente, a quell'umanità vera e autentica, che riconosciamo nel Signore Gesù.
    Dette così le cose, sembrano troppo solenni e poco concrete. Basta però un minimo di riferimenti spiccioli per verificarne tutta la portata.
    Pensiamo al modo di fare sport, per stare ad un terreno caratteristico dell'Oratorio salesiano. C'è spazio, riconosciuto e condiviso, per lo sport, contro ogni assurda pretesa di manicheismo spiritualista: perché l'uomo in Gesù è un uomo amante della vita. C'è spazio però per uno sport capace di assicurare la solidarietà contro la competitività, il primato degli ultimi e dei più poveri contro la sopraffazione dei potenti, la ricerca di responsabilità contro ogni delega, la corretta gerarchia delle dimensioni antropologiche contro l'esagerato professionismo, l'umorismo e la capacità creativa contro il fanatismo... Molte dimensioni di uno sport così, integrabile nell'esperienza di fede in quanto profondamente umano, sono da inventare, assumendosi magari il compito di andare contro corrente. Quello che nei nostri Oratori si sta già facendo indica, a chiare tinte, una esigenza irrinunciabile e qualificante.
    La stessa cosa si può dire di quel mondo, effervescente ed affascinante, che è il mondo dello spettacolo e della musica: canzoni, cantanti, concerti, moda... Anche qui l'Oratorio salesiano fa cultura: dice un modo di riconoscere la qualità della vita e di sostenere la sua rilevanza anche in rapporto all'esperienza di fede.
    L'Oratorio salesiano inoltre fa cultura sostenendo, con i mille mezzi di cui dispone, un modo nuovo di essere uomini, in questo tempo, felice e impegnativo, di profondi cambi culturali. Penso, per esempio,-allo spinoso problema della ricerca sul senso dell'esistenza, in un momento in cui è entrata in profonda crisi la proposta di un senso oggettivo, capace di orientare la personale soggettiva tensione. E penso alla quotidiana fatica che investe tanti giovani, impegnati a decidere un modello di identità personale, in una società complessa e articolata, che sembra ricercare solo identità deboli e frammentate.
    Anche su queste frontiere l'Oratorio salesiano gioca la qualità del suo fare cultura e la possibilità di assicurare l'integrazione fede/vita. La direzione è quasi tutta da inventare. Non è detto che l'unico uomo, capace di vivere di fede, sia quello sicuro, coerente, tutto d'un pezzo... Possiamo però confessare che Gesù è il determinante della nostra personalità, in espressioni esistenziali tutte sbilanciate verso la soggettivizzazione e accettando come pacifica ogni frammentazione interiore?
    Chi educa nell'Oratorio salesiano si misura su questi interrogativi drammatici. Nelle cose che dice, nella relazione che intesse, nei modelli che propone, offre, per forza di cose, una sua ipotesi, in dialogo, più o meno critico, con la cultura dominante.

    4.3. I momenti dell'esperienza cristiana

    L'Oratorio salesiano assicura un modello originale di rapporto tra educazione e educazione alla fede anche nella proposta, esplicita e formale, di interventi ed esperienze a carattere evangelizzatore: la catechesi, i momenti liturgici, i tempi di preghiera e di espressione religiosa.
    Lo fa, senza mezzi termini, perché è sempre luogo di educazione alla fede. Lo fa però in un certo stile, coerente e concretizzante il modello teorico che intende incarnare.
    Se volessi riprendere a fondo questi temi, dovrei fare un lungo discorso. Si tratta però di prospettive già analizzate in molti altri contesti. Qui è sufficiente davvero ricordarne l'esigenza.
    L'evangelo è sempre una proposta. Non possiamo immaginare che la decisione per Gesù Cristo sia la conclusione di un buon processo di educazione. Gesù va annunciato coraggiosamente. La vita nuova del cristiano va celebrata nei sacramenti. Le scelte concrete dell'esistenza vanno elaborate, ascoltando la parola normativa della fede.
    Nell'Oratorio salesiano questa proposta viene realizzata sempre nel rispetto della logica educativa: partendo dalle domande dei giovani, interpretate e approfondite verso la loro autenticità; con progressiva gradualità; mediante processi di animazione e mai sulla forza dell'imposizione o del ricatto; aiutando i giovani a conservarsi maturi e critici nell'entusiasmo religioso; facendo fare esperienze.
    Questo non è lo stile più diffuso, nel panorama frastagliato della Chiesa italiana. Stanno ritornando modelli forti, centrati su una strana preoccupazione di oggettivismo formale, quasi che bastasse la corretta proposta del dato per assicurare la sua dimensione salvifica.
    Chi crede invece alla qualità del rapporto tra educazione e educazione alla fede, finalizzato all'integrazione fede/vita, sa resistere a queste tentazioni. Lo fa con il timore di chi si ritrova a compiere gesti dalla risonanza vitale e in profondo atteggiamento di dialogo. Lo fa però senza nostalgie e false rassegnazioni: per rispettare la qualità carismatica dell'Oratorio salesiano e per servire meglio la causa del Regno di Dio tra i giovani di oggi.

    5. Sognando oratorio...

    Ho tracciato una ipotesi di Oratorio salesiano, intrecciando in un unico modello dati che ritornano dalle nostre quotidiane prassi e suggerimenti che si sporgono un po' più avanti, verso quel progetto normativo che ci giudica da lontano e ci sollecita a procedere.
    Su questi parametri è facile concludere: davvero l'Oratorio salesiano rappresenta una soluzione del difficile rapporto tra educazione e educazione alla fede.
    La sua prospettiva è anche originale? Già le cose dette possono confermare che un po' lo è di certo.
    Qualcosa si può però aggiungere. Lo colloco dalla parte dei sogni perché faccio mia la stessa convinzione di un coraggioso testimone dell'evangelo: «Beati coloro che sognano: porteranno speranza a molti cuori e correranno il dolce rischio di vedere il loro sogno realizzato» (H. Camara).
    L'Oratorio salesiano rappresenta una sintesi originale tra educazione e educazione alla fede se nel ritmo quotidiano della sua vita le esigenze, che scaturiscono dalla crescita in umanità e dalla decisione di consegnare tutta la propria esistenza al Signore della vita, in una passione sconfinata per la sua causa, rappresentano ormai un'unica globale esperienza, diffusa come una dolce brezza serale, e respirata con la stessa gioiosa facilità. Nella parte operativa ho suggerito le condizioni per assicurare questa integrazione. Altri svilupperanno in modo analitico la ricerca sulle diverse attività.
    Voglio ricordare tre esigenze globali. Dicono la qualità dell'Oratorio salesiano, un modo originale di declinare educazione e educazione alla fede. Sono il mio sogno sull'Oratorio salesiano.

    5.1. Dalla parte della vita

    L'Oratorio salesiano ha una intenzione ultima e decisiva: assicurare e consolidare la vita, quella piena e abbondante che tutti sogna-no.
    Crede così tanto alla vita e al suo spessore teologale che, quasi quasi, non parla più di finalità evangelizzatrice. Ha paura di essere frainteso; teme che un'intenzione tanto grande sia interpretata come una subdola pretesa di proselitismo. Preferisce invece parlare di impegno comune per la vita e di lotta perché si allarghino i confini della vita contro quelli della morte. Nel profondo della loro esperienza credente i salesiani sanno che in questa passione realizzano pienamente la loro vocazione evangelizzatrice.
    Certo, questa meta conclusiva viene assicurata a tappe progressive, con momenti e documenti meno solenni. Diventa capacità di prendere seriamente le decisioni, scambio di informazioni, acquisizione di nozioni indispensabili, ricerca di responsabilità, assunzione di impegni. Sono però tutti frammenti di un'unica grande realtà: la gioia di vivere e la capacità di sperare nella libertà e nella responsabilità. Sono i germi e i segni della «vita», per la cui promozione e il cui consolidamento l'Oratorio salesiano esiste.
    Impegnato per la vita, l'Oratorio salesiano suggerisce anche un modo di intendere vita e morte.
    Vita è dominio dell'uomo sulla realtà, creazione di una comunità fraterna, comunione filiale con Dio. Morte è il suo contrario. Il dominio dell'uomo sulla realtà implica la liberazione dell'uomo dal potere schiavizzante delle cose per impadronirsi di tutte le potenzialità insite in esse.
    Costruire vita significa perciò restituire ogni persona alla consapevolezza della propria dignità. Significa rimettere la soggettività personale al centro dell'esistenza, contro ogni forma di alienazione e spossessamento. Comporta di conseguenza un rapporto nuovo con se stesso e con la realtà, per fare di ogni uomo il signore della sua vita e delle cose che la riempiono e la circondano.
    Questo obiettivo richiede però un impegno fattivo, giocato in una speranza operosa, perché tutti siano restituiti alla piena soggettività. Lavorare per la vita significa di conseguenza lavorare perché veramente ogni uomo si riappropri di questa consapevolezza e perché il gioco dell'esistenza sia realizzato dentro strutture che consentano efficacemente a tutti di essere «signori».
    La creazione di una comunità fraterna tra tutti gli uomini esige che scompaiano dal mondo gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture non fraterne, per crearne altre che siano espressione e sostegno della fraternità.
    L'Oratorio salesiano vuole inoltre favorire anche l'incontro con il Dio di Gesù Cristo nel nome della verità dell'uomo che intende servire e ricostruire. Chi vive in Dio è nella vita; chi lo ignora, chi lo teme, chi lo pensa un tiranno bizzarro, è nella morte. Per questo si impegna a sradicare ogni forma di paura e di irresponsabilità nei suoi confronti e ogni tipo di idolatria: solo in questo spazio liberato è possibile poi far crescere adeguati rapporti affettivi e operativi.

    5.2. La continua «presenza» dell'educatore

    Chi ama la vita, vuole certamente sollecitare tutti a crescere verso una maturazione in pienezza. Rifiuta però la tentazione di cercare modelli forti, autoritari, espressi in termini di astratta oggettività. Neppure preferisce i mezzi più immediatamente efficaci, quelli che sembrano richiedere meno risorse.
    Propone invece la condivisione e l'accoglienza incondizionata come strumento privilegiato per assicurare il cammino e la trasformazione continua.
    Molti modelli educativi partono da una esigenza di «presenza». L'educatore può svolgere adeguatamente il suo compito solo se si rende presente di una presenza tanto incondizionata, da rifiutare ogni specifico ruolo propositivo. Questo orientamento è generalmente motivato da presupposti relativistici ed agnostici per quanto riguarda i valori o su una analisi del rapporto educativo fatto quasi esclusivamente in termini di distribuzione e di potere. Nell'Oratorio salesiano la motivazione è invece esplicitamente religiosa.
    L'accettazione incondizionata ha una ragione profonda, di natura teologica. L'educatore credente riconosce la creazione come espressione della fiducia di Dio nei confronti dell'uomo e la potenza della salvezza di Dio in Gesù Cristo, per ricostruire quello che il peccato aveva distrutto.
    La presenza dell'educatore che si fa accoglienza ricorda la priorità del giudizio di fede sopra ogni giudizio etico, la priorità del dono di Dio che fa nuove le persone, sopra la fragile e incompleta risposta dell'uomo.
    Per questo la sua presenza è un gesto d'amore, radicato su una esperienza più grande, che avvolge e fonda quello che viene posto nell'atto educativo. Anche quando l'educatore fa fatica a fidarsi dei suoi giovani, egli si esprime in una accoglienza incondizionata «nel nome di Dio». E così egli va alla radice, verso una esperienza di verità più grande di quella che riusciamo a possedere con i nostri strumenti di analisi.
    L'educatore non dà dignità alle esperienze dei giovani perché si sforza di considerarle benevolmente. Riconosce invece una dignità che preesiste, fondata sul progetto operoso di Dio. Riconoscendola, la libera da tutto quello che la minaccia e la restituisce ad ogni giovane, contro ogni forma discriminatrice.
    Questa presenza, accogliente e promozionale, si esprime in uno stile di relazione educativa.
    Certamente non ne esiste uno per tutte le stagioni. Risente invece dei modelli culturali che l'educatore fa propri.
    Nel secolo scorso, un grande educatore come Don Bosco ha espresso tutto questo con una preoccupazione di presenza continua, di convivenza fraterna, di vigilanza amorosa.
    Oggi preferiamo parlare di rispetto e fiducia, di presenza viva e vitale, di sforzo costante di comprensione, di impegnativo atteggiamento di dialogo.
    Il linguaggio espressivo (e cioè il modo pratico di realizzare la relazione educativa) cambia, sull'onda dei modelli linguistici e culturali diffusi. La realtà invece deve restare, solenne e impegnativa, perché i giovani possano sperimentare la disponibilità, l'aiuto, l'incoraggiamento e lo stimolo degli educatori e, nello stesso tempo, il rispetto per la loro persona e per le loro decisioni, la stima sincera e l'accettazione incondizionata.

    5.3. La forza liberatrice della fede

    Per concludere, ricordo un terzo dato.
    Lo stimo qualificante e urgente, perché rappresenta una prospettiva oggi un po' in crisi.
    Don Bosco ha affidato anche la sua missione educativa ai «mezzi soprannaturali», come diceva lui con le parole del suo tempo. Ha educato i suoi giovani, affermando la potente forza umanizzatrice della grazia. Per questo ha insistito molto sulla partecipazione ai sacramenti, sulla intensa vita di preghiera, sulla «buona condotta» motivata nello svelamento della dignità di figli di Dio. Noi oggi, giustamente, ricordiamo che parola di Dio, comunione ecclesiale, sacramenti e preghiera sono «celebrazioni» di una salvezza che si fa quotidianamente nella storia. Siamo consapevoli che la potenza salvifica di Dio opera prima di tutto nei dinamismi della vita umana. Per questo l'Oratorio salesiano crede profondamente all'educazione e alla sua forza rigeneratrice.
    L'educazione ha la pretesa di restituire l'uomo a se stesso. Lo rende così artefice, serio, competente, coraggioso, della trasformazione. Per questo la consideriamo una forza politica, incidente ed efficace.
    Questa fiducia sull'educazione sembra esprimere quasi una posizione opposta a quella di don Bosco, ricordata sopra. Lui sottolineava l'importanza della grazia per educare. Noi ricordiamo l'esigenza educativa per rispondere responsabilmente al dono della grazia e crescere nella salvezza.
    Non credo che le due posizioni debbano essere contrapposte. Si tratta di affermazioni egualmente vere, che trovano nella qualità dell'Oratorio salesiano una accoglienza in modo complementare.
    L'Oratorio salesiano è consapevole che annunciando Gesù Cristo, con coraggio e fermezza, salva l'uomo, lo umanizza. Per questo, al suo interno, ogni giorno viene inventato un modo adeguato per proclamare questo evangelo.
    Sa perciò di non poter concludere il suo servizio in un impegno educativo neutrale, non orientato positivamente a Gesù Cristo. E sa di non poter affidare la sua missione alle sole risorse delle scienze dell'educazione. I responsabili dell'Oratorio salesiano sentono di essere sempre sollecitati a coinvolgere la loro fede e i segni di questa fede in ogni azione promozionale.
    Don Bosco ha espresso tutto questo con la sua decisione di essere «sempre e dappertutto prete», perché pensava al prete come a colui che fa incontrare Gesù Cristo e che solo in questo incontro promuove veramente l'uomo.
    Noi lo possiamo dire nell'Oratorio salesiano, traducendo nella prassi educativa il contenuto di questa testimonianza: «Da parte mia dirò che la parola urgente, bruciante, dimenticata è: Uomo, Dio è la tua vera vita, nello spirito della seconda parte, così raramente citata, del famoso distico di Ireneo "Gloria Dei homo vivens; vita autem hominis visio Dei". Non la sola vita, non la sola felicità, ma la vera vita, vera come nessun'altra può diventare, per quanto felice e autentica sia. E questo che bisogna gridare: questa seconda parte. Ma non è possibile dirla né viverla negando in teoria e in pratica la prima parte. Ciò significherebbe condannarsi, letteralmente, all'insignificanza» (J. P. Jossua).
    Gridando, in uno stesso gesto e nella stessa parola, che la gloria di Dio è la felicità dell'uomo e che la vita felice dell'uomo sta nell'immergersi fiduciosamente nell'abbraccio misterioso di Dio, l'Oratorio salesiano propone oggi davvero una sintesi originale e attuale tra educazione e educazione alla fede.

    6. Dibattito

    6.1. DOMANDA - Quale modello per educare alla fede in modo salesiano.
    RISPOSTA - È bene che nella Chiesa ci siano modelli diversi di pastorale. Mi chiedo fino a che punto un modello, che non distingue i due fatti (educazione ed evangelizzazione), rispetti veramente la dimensione educativa.
    Secondo me non la rispetta, al di là delle parole.
    Io credo che sia decisivo misurarsi sui contenuti che le parole veicolano. Non basta dire che c'è un unico modello pastorale, che è quello orientato a Cristo.
    Bisogna che si verifichi come un modo di vedere e di operare nella pastorale giovanile rappresenti un modello salesiano, cioè un modello fedele a quello che don Bosco ci ha insegnato di più radicale.
    Occorre trovare alcuni criteri, che per lo più saranno estrinseci, e che ci riportano a una fedeltà a don Bosco, a quelle intuizioni per cui ha sofferto e che noi non possiamo tradire.

    6.2. DOMANDA - Educazione ed evangelizzazione: quale rapporto.
    RISPOSTA - Parto da due indicazioni che esprimo con decisione e forza.
    1. Quando noi salesiani ci mettiamo a riflettere sulla nostra azione e sui problemi che nascono, lo facciamo riconoscendo sempre il primato costitutivo dell'evangelizzazione, cioè riconoscendo che noi ci siamo, perché vogliamo essere i segni e i portatori dell'amore di Dio ai giovani, soprattutto a quelli più poveri.
    Questa collocazione dice la prospettiva a partire dalla quale è possibile vedere i problemi e risolverli, sapendo che lo stesso problema potrebbe essere visto e quindi risolto a partire da preoccupazioni e prospettive diverse.
    2. È necessario cercare di comprendere che cosa è la evangelizzazione. Oggi, quando si dice evangelizzazione nella Chiesa, non si dice la stessa cosa da parte di coloro che pronunciano questa parola impegnativa.
    Il modo con il quale intendere evangelizzazione nella Chiesa è quello prospettato dalla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI.
    Tutto ciò che si suggerisce può essere compreso soltanto se ci si colloca dentro questo orizzonte.

    6.3. DOMANDA - Educazione e suo significato.
    RISPOSTA - Parlare di educazione dentro il quadro pastorale tratteggiato significa:
    1. Riconoscerne l'importanza decisiva in ordine alla nostra missione carismatica che è quella di essere segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani. Noi offriamo la testimonianza dell'amore di Dio ai giovani, giocandoci dalla parte della educazione. È possibile annunciare l'amore di Dio soltanto ponendo gesti nella direzione di una vita nuova, una vita che si fa nuova.
    A me sembra di capire che don Bosco ci ha insegnato a scegliere la strada dell'educazione come modo per costruire una vita nuova.
    2. Dire educazione è dire una esperienza che va compresa nella sua specificità e competenza tecnica, che chiamo «laica», cioè un fatto squisitamente umano. Dire educazione non significa indicare un fatto generale, ma vuol dire il modo di fare sport, il modo di porsi rispetto al mondo della comunicazione, della musica, della cultura...
    3. Fare educazione vuol dire riuscire a progettare prima e a realizzare poi un tipo di educazione, che permetta all'uomo di crescere nella sua verità più costitutiva, cioè come uomo, consegnato al trascendente, come uomo, che si sente signore della vita.
    Questo è l'obiettivo della educazione: riconoscere che la signoria dell'uomo è legata al fatto che c'è un solo Signore e solo consegnandosi a questo Signore si può essere davvero signori della propria vita in pienezza.
    In questo senso non è possibile parlare di educazione neutra, cioè non è possibile parlare di un modo di pensare lo sport, di un modo di fare musica, che sia compreso solo all'interno delle logiche dello sport, delle logiche del fare musica, perché il processo educativo va compreso all'interno di una logica più grande, quella in cui l'uomo si misura con la verità più incisiva di se stesso.

    6.4. DOMANDA — Educazione e ricomprensione del Sistema Preventivo.
    RISPOSTA — Questo modo di concepire l'educazione comporta una ricomprensione del Sistema Preventivo?
    Penso che, in questo tempo in cui viviamo, sia decisivo scoprire che testimoniare ai giovani i segni dell'amore di Dio significa far nascere vita.
    Io credo che sarebbe un fatto importante se noi cominciassimo a dire pubblicamente che scegliamo lo spazio educativo, perché abbiamo un'unica preoccupazione: quella di volere che attorno a noi nasca vita, anche perché constatiamo che purtroppo attorno a noi c'è troppa morte e ci sono troppe persone che portano morte.
    Noi vogliamo che nasca la vita e giochiamo tutte le nostre risorse perché ci sia vita, consapevoli che è possibile far nascere vita soltanto se questo crescere della vita è dentro la morte e la risurrezione del Signore. Per cui noi che siamo per la vita, proprio perché siamo per la vita, vogliamo che questa vita cresca dentro il mistero della Pasqua del Signore. Per cui siamo in affanno finché la crescita di vita non si realizzi pienamente dentro il mistero della morte e della risurrezione del Signore.
    In questo senso reinterpreto il Sistema Preventivo e recupero due sensibilità:
    1. La prima sensibilità è quella che mi fa affermare, nella fedeltà a quello che don Bosco diceva con altre parole: «voglio che ci sia vita; voglio che i giovani scoprano di essere accolti, di essere degni di accogliere se stessi; di essere nel diritto di avere restituito tutto quello di cui sono stati depredati e di cui hanno bisogno per crescere nella vita in pienezza».
    2. La seconda sensibilità è affermare che tutto questo è possibile dentro quell'orizzonte, che don Bosco chiamava, nella sua teologia, del soprannaturale, e che io preferisco chiamare dell'incontro appassionato con il Signore della vita.
    Quindi è possibile che ci sia vita soltanto se si arriva alla decisione di vivere la propria passione della vita in Gesù.
    Questo significa riconoscere che c'è vita anche quando la vita la perdo, quando la perde l'innocente. Anche lì c'è vita per tutti, ma questo lo diciamo solo in Gesù Cristo.
    Allora credo sia possibile ridire tutti quei valori in cui siamo cresciuti, che riempiono la nostra speranza e che possiamo celebrare nelle eucarestia quotidiane, ma in modo tale che tutti, anche i lontani, sentano che noi siamo in loro compagnia senza discriminazioni, perché ho paura di quei cristiani che, per poter confessare il Signore, vogliono dividere il mondo in buoni e cattivi, e ho paura di tutti quelli che per essere vivi vogliono cacciare il Signore fuori dalla porta.
    Tra i miei sogni, e invito tutti a sognare con me, c'è quello di riuscire a costruire un grande incontro di giovani attorno alla voglia di essere vivi, ma pienamente.

    6.5. DOMANDA — Quale dialogo oggi.
    RISPOSTA — A proposito di come dialogare e collaborare, io credo che ci debba essere un dato sul quale la convergenza è questione essenziale: tutti dobbiamo volere che ci sia la vita, anche se la realizzeremo in modi diversi.
    Ci saranno interventi diversi, perché abbiamo sensibilità diverse e perché abbiamo fatto esperienze diverse. La diversità a mio avviso dice ricchezza verso la costruzione della vita, per cui io credo che nella Chiesa si debba costruire un confronto dialettico, non fra coloro che operano in modo diverso, ma fra le cose che si fanno e il servizio alla vita. La dialettica è tra il progetto che vogliamo assicurare e il modo con cui cerco di assicurarlo. Invece tra le diverse realizzazioni, fra i diversi movimenti, fra le diverse sensibilità, fra le diverse persone non ci può essere che il dialogo, perché in fondo vogliamo tutti la stessa cosa, e solo mettendoci in dialogo possiamo volerla bene.
    È necessario e urgente usare le energie non per combatterci reciprocamente ma perché nasca e cresca la vita.
    Questo impegno potrebbe essere fatto proprio in modo specifico dai nostri Oratori. Cercando di realizzare questo tipo di dialogo e di collaborazione si farebbe un grande dono a tutti coloro che ci incontrano e con i quali dobbiamo convivere.

    (FONTE: CISI, Oratorio tra società civile e comunità ecclesiale. Atti Conferenza nazionale 1987, pp. 121-146)


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