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    L'oratorio per la

    salvezza dei giovani

    Riccardo Tonelli

    In R. 12 si dice che «le attività propriamente formative e apostoliche prevalgono su quelle ricreative».
    Richiama C. 31 «La promozione integrale», che è meta da perseguire con impegno in ogni ambiente salesiano, e C. 34 «Evangelizzazione e catechesi» in cui siamo invitati a camminare «con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria vita, crescano uomini nuovi».
    «L'oratorio per la salvezza dei giovani» è la riflessione con la quale don Riccardo Tonelli ci aiuta a pensare alla salvezza in modo «salesiano», a creare un clima oratoriano per assicurare la maturazione della propria identità di uomo e di credente, e ad avviare un processo verso la salvezza, per ricostruire uomini «maturi».

    Il titolo della relazione che mi è stata affidata può suonare in due modi, abbastanza diversi.
    Ci si può chiedere come deve funzionare l'Oratorio se vuole essere un luogo impegnato per la salvezza dei giovani. Si dà così per scontato l'esito del processo (la salvezza) e cí si interroga sugli interventi necessari per abilitare l'Oratorio a svolgere il suo compito.
    E. possibile però un'altra prospettiva, molto più impegnativa. La relazione tra Oratorio (in quanto Oratorio: con una sua configurazione molto precisa) e salvezza, mette in questione prima di tutto la figura di salvezza. La ricerca, in questo caso, non riguarda prima di tutto il metodo. Interessa invece la qualità dell'esito.
    Preferisco la seconda lettura, più complessiva e impegnativa. Ho l'impressione, infatti, che progetti e responsabilità si giochino fondamentalmente attorno alla figura di «salvezza». Essa sta alla radice del pluralismo che attraversa oggi la comunità ecclesiale e solo a partire da una sua rivisitazione è possibile indicare i compiti di un Oratorio capace di essere «sacramento di salvezza» per i giovani d'oggi.
    Per questo, prima di tutto, cerco di precisare una figura di salvezza tra le molte oggi in circolazione. Solo dopo, ricordo qualche esigenza di rinnovamento per l'Oratorio. Prima di entrare nel merito, ci tengo a sottolineare un dato che stimo importante. La nostra ricerca supera l'ambito della Famiglia salesiana. Non siamo qui a rivisitare qualcosa che riguarda solo noi, nel circolo ristretto e un poco entusiasta degli addetti ai lavori. Con l'affermazione messa a titolo, ci sentiamo impegnati nella Chiesa per il Regno di Dio su un progetto emblematico.

    1. Un modo «salesiano» di pensare alla salvezza

    Ci sono dei temi che sembrano fatti apposta per scatenare le posizioni più disparate. Quello della «salvezza cristiana» è uno dei piu rilevanti.

    1.1. Parole umane per dire l'indicibile

    L'annuncio della salvezza in Gesù Cristo è il centro dell'evangelo che la Chiesa proclama. Proclamando, a voce forte, che Gesù è il Signore e il Salvatore, i credenti fanno proprie, nel modo più autentico, le gioie e le tristezze dell'uomo e piantano nel cuore di questo grido l'offerta di un fondamento insperato e gratuito.
    La coscienza ecclesiale attuale è consapevole però di dire il suo vangelo di vita e di speranza in parole umane. Il mistero dell'uomo che cerca pienezza di vita e del Dio della vita che spalanca l'abbraccio accogliente della croce per la vita piena e abbondante di tutti, si fanno volto e parola nel volto dell'uomo e nella parola dell'uomo, come in Gesù di Nazareth il Dio ineffabile si è fatto vicino e incontrabile (DV 13).
    Per questo ogni espressione in cui i credenti dicono la salvezza resta, per forza, povera e parziale, rispetto al mistero che è chiamata ad esprimere.
    Il pluralismo è, in questo caso, una esigenza insuperabile della struttura stessa della verità. Nessuna figura di salvezza la può dire in modo esauriente, perché l'evento che la comunità ecclesiale proclama è più grande di ogni parola con cui tentiamo di esprimerlo.

    1.2. Il limite delle parole con cui abbiamo detto la salvezza

    Lungo il corso della storia abbiamo usato tante «parole» per dire la salvezza. Oggi facciamo davvero poca fatica a riconoscere loro limite.
    Ci siamo accorti che le parole utilizzate si trascinavano modelli antropologici tutt'altro che neutrali: l'individualismo, una visione mercantilistica di Dio, tanto vicino al signorotto che cerca di difendere i suoi diritti a tutti i costi, uno spiritualismo che ha reso Dio lontano e impassibile, sprofondato nella sua gloria, insensibile al rumore della lotta e della morte.
    Per disfarci di schemi che andavano ormai molto stretti alla sensibilità acquisita, abbiamo cercato altre parole. Abbiamo però corso il rischio di svuotare l'evento della salvezza di gratuità e di radicalità. Il Dio che ci chiama a vita nuova è diventato un compagno di giochi, che non ha nulla di speciale da regalarci, se non qualche buon consiglio e un incoraggiamento per i momenti duri.
    Le difficoltà di una volta e quelle più recenti ce le sentiamo premere tutte addosso, quando cerchiamo le espressioni per dire, a parole e con i fatti, l'evento della salvezza. Il contributo di chi ci ha preceduto nella fede si accumula sul nostro cammino, come una ricchezza preziosa e un condizionamento pericoloso. Siamo davvero in una stagione difficile e affascinante: costretti a scegliere tra eccessive risorse.

    1.3. Cosa c'entra l'Oratorio con tutto questo?

    Il problema non riguarda solamente gli addetti ai lavori. La figura teologica di salvezza si traduce immediatamente in una prassi pastorale congruente. Si può fare la storia dell'Oratorio e rileggere le pagine più ripetute della nostra tradizione, proprio a partire da questa prospettiva.
    I modi con cui è stato progettato, le polemiche che l'hanno investito, i gesti e le preoccupazioni che hanno acceso gli animi... sono legati a giro stretto con questi modelli antropologici e teologici. Lo sono di fatto, anche se i loro difensori non ci pensavano neppure.
    Impegnati a progettare l'Oratorio, siamo costretti a misurarci con le diverse figure di salvezza, progressivamente maturate nella coscienza ecclesiale e con il pluralismo che ne attraversa l'attuale.
    In qualche modo, il pluralismo ci costringe a scegliere.
    In che direzione?
    Sarebbe bello trovare qualcosa di sicuro, collocato al di sopra della mischia delle opinioni e delle interpretazioni. Ma è un sogno proibito, anche se magari qualcuno lo tenta o lo pretende.
    Non c'è un'oasi tersa, in cui il vento del pluralismo non soffi. Ho già ricordato il limite invalicabile di ogni espressione della fede, anche di quelle più solenni e consolidate: la parola di Dio, per farsi parola per l'uomo, si è fatta parola d'uomo.
    L'elaborazione di criteri capaci di orientarci nella trama complessa del pluralismo sembra l'unico modo per superare le secche pericolose della soggettività, senza arroccarsi in un impossibile oggettivismo.
    L'orizzonte dentro cui cercare i criteri è dato dalla collocazione globale di una persona e di una istituzione: quella scelta di vita che dice il modo concreto di vivere il vangelo, fatta da alcuni nel nome di una «vocazione».

    1.4. Il CG23 come criterio

    Per trovare criteri che ci permettano scelte precise e concrete in tempo di pluralismo, propongo di confrontarci disponibilmente con il documento conclusivo del CG23. Rappresenta la consapevolezza più alta della Congregazione proprio in ordine alle questioni che ci stanno a cuore in questo contesto. Per dire qualcosa di concreto sull'educazione dei giovani alla fede, il capitolo ha dovuto infatti ricostruire una immagine comune e condivisa di «salvezza». Anche se non ci sono pagine del CG23 dedicate esplicitamente all'argomento, esso le percorre tutte come in filigrana.
    Per questo non mi è difficile tentare di interpretare quello che è scritto, alla ricerca dei criteri che l'hanno ispirato.
    Ne ricordo tre, da assumere in modo complessivo, per avere una figura di «salvezza cristiana» capace di fare da riferimento ad ulteriori progetti.

    1.4.1. Attenzione alla vita quotidiana
    Il CG23 si caratterizza per un'attenzione ampia e disponibile alla vita concreta e quotidiana dei giovani e al contesto, sociale e culturale, in cui essa si esprime.
    L'indicazione va compresa bene, però, per raccogliere il contributo di novità che racchiude.
    La «vita quotidiana» non è il Pierino da «conoscere», se gli si vuole insegnare il «latino», come recitava il vecchio assioma metodologico. Non ci voleva un capitolo, per convincerci di un orientamento pedagogico, ormai pacifico. Né ci voleva proprio un capitolo per dirci come sono fatti i giovani con cui vogliano dialogare.
    C'è, a mio avviso, molto di più.
    La «vita quotidiana» è riconosciuta come il luogo da cui emergono i problemi, quelli veri, su cui misurarsi: la grande sfida, da cui lasciarsi disponibilmente inquietare nel nome di Gesù e per farlo sperimentare veramente come il Signore.
    Nello stesso tempo, essa viene scoperta come la grande risorsa, carica ormai dei germi di novità, da raccogliere con amore disponibile e da portare a pienezza con impegno rinnovato. Nella vita l'evento del Crocifisso risorto ha già lasciato il segno: è «già» a portata di mano, anche se «non ancora» pienamente realizzato.
    La reazione contro ogni processo di educazione alla fede che sfugga alle provocazioni della vita quotidiana è tanto trasparente nel CG23 che non ha mancato di suscitare polemiche, dentro e fuori la Congregazione.

    1.4.2. Il dono dall'alto
    Il CG23 ricorda, nello stesso tempo e con la stessa forza, un'altra dimensione della salvezza cristiana, complementare a questa appena sottolineata: la pienezza di vita, verso cui tende ogni impegno di crescita nella fede, è un dono, imprevedibile e misterioso, l'esito di un cammino, la cui trama complessiva si perde nella croce del Risorto.
    Lo ricorda contro ogni pretesa di ridurre l'educazione alla fede ad una impresa solamente educativa, come se la pienezza di vita fosse raggiungibile quando la persona porta a compimento le sue potenzialità, e si trattasse solo di sostenerla e incoraggiarla in questo sforzo.
    Anche questo e un modo di chiamare per nome la «salvezza» in Gesù Cristo. È dono, imprevedibile e gratuito: trasforma la nostra quotidiana esperienza nell'esaltante costatazione di essere ormai «creature nuove» per una presenza, offerta alla libertà e alla responsabilità, che è tutto radicalmente «dono».
    Per questo, nella logica della pienezza di vita entrano strumenti e prospettive, le cui dinamiche sfuggono ad ogni pretesa di «buon senso comune», di efficienza, di misurazione programmabile.

    1.4.3. La verifica: la novità nella vita quotidiana
    Anche la terza indicazione mi sembra davvero preziosa, in questa affannosa ricerca di criteri per elaborare il pluralismo.
    La salvezza in Gesù Cristo ci fa «creature nuove». Lo dicono tutti i credenti, con la presunzione della fede.
    Per misurare la sensatezza dell'affermazione, abbiamo bisogno di elementi di verifica. Dove verificare operativamente la novità di esistenza che ci ha trasformato?
    Anche a questo livello il pluralismo riaffiora inquietante. Le risposte sono molte. Vanno da quelle giocate solo nella dimensione «spirituale» dell'esistenza, alla fuga, attuata o sognata, dalle spirali del «mondo», alla ricerca di un impegno etico, capace di «meritare» quello che è stato offerto per dono...
    Il CG23 parla un linguaggio molto diverso. Rilancia la fede sui temi della maturazione di coscienza, nell'impegno sociale e politico, nell'espressione matura della propria libertà e responsabilità, in una affettività capace di raccogliere senza egoismo ogni mano tesa.
    Ritorna così al centro la «vita quotidiana» nelle sue dinamiche abituali. Essa è il luogo della vocazione del credente, perché la novità sperimentata nell'incontro salvifico con il Signore si traduce in una condivisione appassionata della sua causa per la vita «piena e abbondante» di tutti.
    La novità non modifica il luogo di abitazione, trascinando lontano dalle case di tutti. Sollecita verso una qualità provocante di vita, nella compagnia gioiosa con la vita di tutti.

    2. Quale salvezza?

    I criteri servono da mappa, per orientarci nella trama intricata del pluralismo. Ci aiutano così a porre al centro della rivisitazione dell'Oratorio una figura di salvezza molto precisa.
    Sento il dovere di ripeterlo, prima di fare una rapida proposta. Questo modo di pensare alla salvezza non è l'unico nel panorama ecclesiale. Forse, per molti aspetti, non è neppure quello che riscuote oggi il consenso più ampio. È criticato da coloro che vorrebbero rilanciare tutta la speranza cristiana oltre la vita quotidiana e da quelli che temono ancora il disimpegno se si accentua eccessivamente l'alterità del dono.
    La coscienza della relatività serve per sottolineare la necessità di scegliere: per ritrovare nella fedeltà alle nostre radici la qualità di un servizio pieno alla vita dei giovani, soprattutto dei píù poveri tra essi.

    2.1. Attorno alla vita quotidiana

    La salvezza che Dio ci dona in Gesù Cristo è pienezza di vita, restituzione all'uomo di quella vita che aveva progettato per lui.
    Lo so che vita è una espressione per lo meno ambigua; e non è questo di certo l'ambito dove possiamo permetterci il lusso di espressioni vaghe e disimpegnate. D'altra parte, però, vita è una espressione di grande compagnia, che introduce nella passione salvifica della comunità ecclesiale la stessa passione verso tutti che ha coinvolto l'esistenza di Gesù di Nazareth.
    Per mettere ordine e collocare nella giusta prospettiva l'impegno per la vita, penso spesso a quell'episodio bellissimo, tutto carico di simboli, che Luca racconta: «Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C'era anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio». Di fronte alle proteste del capo della sinagoga «nel nome di Dio» (perché Gesù l'aveva guarita di sabato), Gesù risponde: «Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato?» (Lc. 13, 10-17). Di fronte al dolore e alla sofferenza Gesù interviene. Restituisce alla vita chi vive ín situazione di morte.
    La povera donna, gravemente incurvata sotto il peso della malattia, era «morta» per diverse ragioni. La malattia la teneva piegata in due, lontana dalla possibilità di esprimere la sua esistenza secondo i ritmi normali della vita. Erano pieni di morte i due indemoniati di Gadara, costretti a dimorare tra i sepolcri e ridotti a mettere solo paura agli altri.
    L'intervento di Gesù restituisce ad una situazione «normale» di vita: guarisce la donna, rimanda a casa gli indemoniati e i lebbrosi, li fa amici degli altri e non più nemici pericolosi.
    La sua azione raggiunge anche le dimensioni culturali e strutturali dell'esistenza, almeno a quel livello in cui si riconosceva la sensibilità corrente più matura. Libera la donna da quella immagine di Dio che altri volevano depositata nella sua esperienza: il Dio che preferisce l'osservanza del sabato alla guarigione è un Dio dei morti, non dei vivi, come incalza Gesù a chi tenta di opporsi nel nome di Dio al suo intervento.
    L'ha capito bene Paolo che restituisce lo schiavo Onesimo al suo padrone Filemone, con la raccomandazione di amarlo con lo stesso amore con cui Dio ci ama. Non poteva mettere in questione lo stato sociale della schiavitù. Restituisce libertà allo schiavo, ricostruendo logiche di amore serio e operoso.
    Questo è importante, ma non è tutto.
    La donna guarita, gli indemoniati liberati, lo schiavo che ritrova l'affetto del padrone... tutti siamo minacciati continuamente di morte. Non basta la guarigione fisica. La morte ci incombe come l'ultimo nemico, il più aggressivo di tutti.
    Anche noi gridiamo con Paolo «Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?» (Rom. 7, 24).
    Fariseo, zelante e impegnato, sí fidava ciecamente della legge. Ma si è trovato presto deluso. Confrontato con esigenze impegnative, Paolo costata la sua fragilità. Ne ha paura, perché s'accorge quanto questa incoerenza sia radicata in lui. Fa ormai parte del suo vivere: ci vede chiaro di fronte agli obblighi della legge, ce la mette tutta per osservarli fedelmente; e si trova a fare i conti continuamente con i suoi tradimenti. «Io sono un essere debole, schiavo del peccato. Non riesco nemmeno a capire quello che faccio: quello che voglio non lo faccio, faccio invece quello che odio» (Rom. 7, 17).
    L'esperienza del peccato e del tradimento si collega profondamente con quella della morte «fisica». E la vita sembra di nuovo sconfitta: non basta la salute momentanea, la coscienza della propria dignità, la ricostruzione di condizioni che permettano di godere di libertà e responsabilità. Tradimento e morte ributtano tutto in crisi. Per essere vivi, dobbiamo trovare un fondamento che ci aiuti a possedere anche questa esperienza ultima, la più tragica e drammatica di tutte.
    Ci aiuta ancora l'esperienza di Paolo, l'uomo che ha sperimentato fino in fondo la salvezza di Dio: «Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro» (Rom, 7, 25).
    In Gesù, il suo Signore, è vivo, tanto vivo da non aver più nessuna paura né della morte né del peccato. La ragione è il dono dello Spirito di Gesù: «la legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rom. 8, 2). Lo Spirito di Dio è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio, che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazareth.

    2.2. I problemi, quelli veri

    Questa è la salvezza: vita piena e abbondante, nonostante l'esperienza della morte.
    Per questo l'annuncio di salvezza chiama in causa, in una stessa parola, il Crocifisso risorto e i problemi, quelli veri, che salgono nel cuore della vita quotidiana.
    Annunciamo il dono di Dio che è Gesù per la vita di tutti per restituire un orizzonte di senso, insperato e provocante. Certo non possiamo pensare che quello del senso sia il primo problema nella gerarchia dell'esistenza concreta di una persona. Chi è deprivato della possibilità fisica di vita, non ha questioni sul senso, ma sull'esistenza. A lui non basta trovare un perché alla vita; ha il diritto di essere restituito alla possibilità di vita. Ma vita è anche il suo senso. La vita ha un senso quando la si ritiene degna di essere vissuta, quando essa è abitata da uno scopo, che le si dà o le si riconosce.
    Dare vita e restituire il senso di essa è un impegno e una responsabilità comune ad ogni uomo appassionato per la vita. Su questo terreno comune, però, la fede in Gesù Cristo e l'impegno di evangelizzazione hanno un loro ambito specifico.
    Annunciamo una persona che è salvezza per tutti: per coloro che sono inquietati sul senso, dopo aver raggiunto la possibilità di una vita a misura d'uomo, e per coloro che invece annaspano ancora tra le onde della morte, perché non basta certamente la soluzione dei problemi strutturali per rassicurarci sulla consistenza della speranza.
    Questa consapevolezza impegna fortemente l'Oratorio che annuncia la salvezza in questa prospettiva.
    Esso è attento ai problemi, quelli veri, che salgono dalla vita quotidiana. Sa che può parlar bene del Signore solo collocato dentro essi e impegnato, con tutti, per la loro soluzione. Deve restituire forza alle gambe rattrappite e dignità a chi se l'è vista rubare, per dire in autenticità la salvezza di Dio.
    Si impegna però a riportare tutti i problemi al livello più profondo, dove c'è in gioco la qualità della vita e il suo senso, perché solo a questo livello, intenso e coinvolgente, dove morte è l'incontro violento con la morte fisica e dove tradimento è il peccato, il rifiuto di progettare la propria esistenza nel progetto di Dio, l'Oratorio testimonia il dono insperato e radicale della vita nello Spirito del risorto: la salvezza cristiana.

    2.3. La dimensione sacramentale della salvezza

    Un terzo aspetto merita una particolare sottolineatura, proprio per i compiti speciali che da esso ricadono sull'Oratorio.
    La salvezza si realizza nell'incontro tra Dio e l'uomo. Questo processo salvifico è' un atto di gratuita accondiscendenza da parte di Dio e di libertà, responsabilità, decisione personale da parte del-1' uomo .
    Il modello teologico tradizionale pensava questo incontro in uno schema molto dualista che partiva dalla distinzione tra mondo sacro e mondo profano. Il mondo sacro è quello di Dio, tutto avvolto nella sua grazia •di salvezza. Il mondo profano è il nostro mondo quotidiano, quello che in cui si svolge l'avventura della vita di tutti i giorni. Si fa salvezza perché viene travalicato il confine, sotto la spinta potente del gesto divino.
    Abbiamo imparato a vedere le cose in modo molto diverso, a partire dalla riscoperta dell'Incarnazione.
    La distinzione tra mondo sacro e mondo profano è vera, ma ormai vecchia e definitivamente superata, almeno come dato di fatto in cui siamo costituiti oggettivamente e come possibilità aperta alla responsabilità personale. Il mondo profano è diventato, in qualche modo, la tenda in cui Dio ha preso dimora, per essere il Dio-con-noi, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Con questo gesto, gratuito e imprevedibile, l'ha trasformato in mondo sacro, luogo della sua presenza ed evento della sua grazia che salva.
    Il processo ha due protagonisti: Dio e l'uomo. Si incontrano in una esplosione di libertà. Tutto il resto (Gesù stesso, la vita quotidiana, la Chiesa e i sacramenti) sono manifestazioni concrete e storiche in cui l'evento di salvezza si fa appello alla decisione personale, invitando ad accogliere il dono contenuto nella manifestazione stessa. Il segno sacramentale «contiene» veramente l'evento di salvezza e lo comunica come appello ad una decisione personale.

    3. Sognando oratorio

    Ho dedicato molto tempo alla riflessione sulla salvezza, perché non potevo di certo dare per scontato proprio quello che fa più problema, in una stagione di pluralismo come è la nostra.
    Su questi punti di riferimento suggerisco qualche condizione per fare dell'Oratorio una esperienza dove i giovani possano incontrare il dono della salvezza di Dio.
    Certo, la proposta va verificata a partire dalle premesse che l'hanno orientata. E, nella misura in cuí è condivisa, va concretizzata sul ritmo quotidiano della vita dell'Oratorio. Una cosa non può essere dimenticata. Parlo di Oratorio, affidandogli compiti e responsabilità come se fosse una persona fisica. Di certo, essi ricadono sulle spalle degli educatori in servizio attivo. L'Oratorio, però, come tutte le istituzioni, fa proposte prima di tutto producendo «cultura»: significati e orientamenti per la vita, valori, modelli di comportamento.
    Per questo, l'Oratorio educa alla salvezza anche attraverso i mille frammenti che fanno la qualità della sua struttura: il fatto di gestire attività a carattere religioso e attività di tipo culturale e sportivo, con la stessa intensità e fuori da ogni ombra di strumentalizzazione; i cartelloni e i manifesti che coprono di colore le sue pareti, dove risuona una incondizionata fiducia nella vita quotidiana dell'uomo e un amore appassionato per il suo Signore; le battute e i commenti dei responsabili, che punteggiano il ritmo della giornata, nei momenti destrutturati e in quelli programmati; il prestigio riconosciuto agli adulti che attraversano la giornata oratoriana; quel mondo, effervescente ed affascinante, che è il mondo dello spettacolo e della musica: canzoni, cantanti, concerti, moda...
    Le proposte formative esplicite e quella proposta pervasiva che scaturisce dalle scelte culturali, economiche e organizzative costituiscono la concreta capacità dell'Oratorio di diventare luogo dove i giovani sperimentano e accolgono la salvezza di Dio.
    Il mio sogno sull'Oratorio coinvolge questo doppio livello di responsabilità operative in tre direzioni:
    – la costruzione di un ambiente capace di assicurare identificazione, per assolvere la dimensione sacramentale della salvezza;
    – la restituzione ad ogni giovane di un amore alla vita che sa aprirsi verso l'invocazione;
    – la proposta di una intensa esperienza della vita nuova, donata nella salvezza.
    Come si vede, ritornano i punti di riferimento in cui ho compreso un modo «salesiano» di pensare alla salvezza.

    4. Il clima per assicurare identificazione

    Il primo suggerimento si collega direttamente ad una delle scelte più qualificanti della figura di salvezza su cui ho cercato di creare consenso.
    Se la comunità ecclesiale opera per la salvezza secondo un modello sacramentale, è indispensabile costruire e consolidare istituzioni che siano jn grado di sollecitare le persone ad una decisione libera e responsabile per il dono di vita nuova che è offerto.
    La questione permette, tra l'altro, di affrontare lo spinoso problema del significato dell'Oratorio.

    4.1. Il significato dell'Oratorio

    Qualcuno discute sulla validità o meno dell'Oratorio in termini teorici, cercando magari, per farlo meglio, un'oasi felice e protetta dove essere poco disturbati dal rumore della realtà. A me sembra, invece, che il problema non sia teorico, ma pratico. In una situazione come è quella che stiamo vivendo, possiamo riconoscere quanto il vangelo di Gesù riguardi la vita e la sua qualità solo se esistono «luoghi ecclesiali» dove sperimentare la vittoria della vita sulla morte nel nome del Signore e in diretto coinvolgimento della comunità di coloro che lo confessano il Salvatore.
    Sappiamo tutti infatti che le proposte possono essere accolte e vissute solo se sono espressione di una istituzione riconosciuta come significativa: prima sta l'identificazione con l'istituzione e poi viene il riconoscimento delle sue proposte.
    L'Oratorio è una realizzazione concreta di Chiesa a livello giovanile, soprattutto per i giovani più poveri e meno fortunati, sulla forza della sua «popolarità». Esso quindi dà un volto alla Chiesa, in una situazione di diffusa crisi di significatività e, di conseguenza, rende sperimentabile la proposta della salvezza e sostiene la possibilità di accoglierla nella verità. Per i giovani e soprattutto per i più poveri tra essi, l'Oratorio diventa la Chiesa vicina e concreta.
    Non lo dico in astratto, per inventare magari un'alternativa ai luoghi tradizionali di ecclesialità. Lo affermo con forza perché sono convinto che non basti riaffidare alle comunità ecclesiali tradizionali una responsabilità che ad esse compete radicalmente.
    Quando penso alle condizioni culturali e strutturali in cui la proposta cristiana e la decisione relativa viene risolta, mi sembrano indispensabili esperienze precise, capaci di assicurare quella identificazione che è pregiudiziale a tutta l'operazione.
    Non solo non è finito il tempo dell'Oratorio; al contrario, i profondi cambi in atto ne riaccendono l'urgenza proprio in ordine al processo di salvezza.

    4.2. Gli elementi che assicurano identificazione

    Nell'Oratorio ci sono attività chiaramente sbilanciate sul versante dell'educazione alla fede. E ce ne sono altre collocate nel versante formalmente educativo. Le une e le altre sono importanti e decisive per la capacità salvifica dell'Oratorio, proprio perché assicurano quel clima di identificazione che fa dà sostegno sacramentale al processo di salvezza.
    Non possiamo più pensare a quelle educative come strumentali rispetto a quelle formalmente collocate nella sfera dell'educazione esplicita alla fede. Ma neppure possiamo contrapporle, invitando magari a scegliere le une contro le altre o innescando la spirale di una divisione tra i tempi e le azioni «sacre» e quelle «profane». Si tratta invece di assicurare identificazione, per rendere praticabile in situazione la funzione sacramentale. Per questo ogni attività è importante, da «prima della classe». Le attività sportive, culturali, sociali e religiose si compenetrano reciprocamente in un intreccio sacramentale di cui l'una diventa trasparente dell'altra.
    La verifica non corre più su cosa fare e cosa evitare a partire da criteri funzionali. Il punto di valutazione è la trasparenza.

    4.3. L'identificazione in un tempo di pluralismo

    Il clima di pluralismo attraversa anche il senso di appartenenza e le istituzioni che cercano di assicurarla. Sono molte quelle che coinvolgono la vita dei giovani e diventa davvero impensabile e impraticabile ogni tentativo di controllarle, fino a decidere quali meritano frequenza e quali no. Anche se tentiamo di farlo, la forza pervasiva del clima che respiriamo vanifica raccomandazioni e controlli.
    Inoltre, penso ad un Oratorio piegato verso i problemi «veri» proprio a partire dalla sua collocazione per la salvezza. Per questo lo desidero immerso nella vita quotidiana, profondamente inserito nel territorio. Un Oratorio così non è di sicuro un luogo immune dal pluralismo...
    L'identificazione, in una situazione di pluralismo, richiede la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad una appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.
    Una ragione in più per riaffermare tutta la fiducia nell'Oratorio, alla condizione di ripensano globalmente in questa logica e di progettare tempi e momenti di riferimento. La catechesi e le celebrazioni liturgiche (di cui parlerò tra poco) hanno una funzione preziosa anche in questa logica.

    5. Il processo verso la salvezza

    È importante l'identificazione con una struttura che funzioni come mediazione del processo di salvezza. Ma non è sufficiente.
    Si richiedono interventi espliciti di tipo propositivo. In quale direzione?
    La figura di salvezza proposta colloca al centro, in un'unica indivisa passione, il Signore della vita e la vita quotidiana dei giovani.
    Riconosciamo, da una parte, che può incontrare in autenticità il Signore Gesù solo colui che ha appreso a prendere tanto sul serio la propria vita, da volerla «piena e abbondante» per sé e per gli altri. Per questo il servizio pastorale verso la salvezza si gioca nell'impegno di restituire a ciascuno la vita, il suo amore, la gioia e la responsabilità del vivere.
    Dall'altra, proprio il sogno di una vita piena e di una felicità radicata sulla roccia spingono ad alzare le braccia nel gesto dell'invocazione. Siamo aiutati ad amare la nostra vita da gente matura. Per questo l'amiamo anche se sappiamo che non ci basta. Proprio perché l'amiamo appassionatamente e la sogniamo piena, cerchiamo con rinnovata passione un fondamento capace di riconsegnarci alla speranza, dentro le provocazioni del limite che l'attraversa.
    Questo doppio compito è tutt'altro che facile. Chiama in causa un modo di progettarsi come uomini e chiede di verificare come viene annunciato il vangelo del Signore.
    Nella nostra cultura l'amore alla vita è troppo spesso legato alla pretesa dell'autosufficienza e della soggettivizzazione sfrenata, come se la vita fosse un oggetto da manipolare a piacimento. Ma purtroppo nelle comunità ecclesiali resistono ancora modelli e progetti che hanno paura della vita e si impegnano con tutte le risorse a controllarla e a reprimerla.
    Per aiutare chi opera nell'Oratorio a verificare il suo servizio per la salvezza dei giovani, suggerisco qualcosa su questa doppia frontiera.

    5.1. Ricostruire uomini «maturi»: uomini capaci di «invocazione»

    Incomincio dalla prima: la ricostruzione di un intenso amore alla vita aperto verso l'invocazione.
    Non voglio fermarmi a commentare né il senso dell'affermazione né la sua esigenza. Ci abbiamo pensato a lungo in questi anni di lavoro comune.
    Mi preme soprattutto suggerire alcuni criteri che ci permettano di verificare le scelte concrete, in un ambito così decisivo come è questo.
    La produzione di una cultura per la vita, segnata da una sua intensa passione e dalla tensione verso quel livello di maturazione piena che è data dall'invocazione, non è un dato spontaneo nella nostra cultura. La diffusa attenzione alla vita si frammenta spesso in espressioni che, alla prova dei fatti, di vita non hanno più nulla. Molto spesso si tratta di andare contro-corrente. La compagnia con tutti che persegue chi ama la vita e la vuole piena e abbondante, diventa presto «scontro» duro sulla sua qualità, nelle piccole cose che fanno il ritmo della vita quotidiana e in quelle solenne che qualificano gesti e attività programmate
    Basta pensare al modo di fare sport, per stare ad un terreno caratteristico dell'Oratorio. C'è spazio, riconosciuto e condiviso, per lo sport, contro ogni assurda pretesa di manicheismo spiritualista: perché l'uomo in Gesù è un uomo amante della vita. Cerchiamo però uno sport capace di assicurare la solidarietà contro la competitività, il primato degli ultimi e dei più poveri contro la sopraffazione dei potenti, la ricerca di responsabilità contro ogni delega, la corretta gerarchia delle dimensioni antropologiche contro l'esagerato professionismo, l'umorismo e la capacità creativa contro il fanatismo...
    Il richiamo allo sport è solo un esempio. Serve a mostrare come alla radice della qualità di vita che vogliamo perseguire nel nome della vita nuova che il Signore ci dona, stanno scelte coraggiose e dure. Esse si collocano nel cuore della vita stessa.
    Per dire tutto questo in modo concreto, penso alla necessità di inventare un rapporto nuovo con gli elementi che la caratterizzano: le cose, le persone, la legge, il senso.
    Su questi rapporti nuovi l'Oratorio qualifica la sua capacità di educare ad un autentico amore alla vita.

    5.1.1. Un rapporto nuovo verso le cose
    Le cose che manipoliamo quotidianamente non sono indifferenti rispetto all'amore globale alla vita che perseguiamo con affanno quotidiano.
    L'Oratorio lo sa e lo condivide. Per questo moltiplica il contatto con le cose e inventa ogni giorno occasioni nuove per renderle disponibili, soprattutto a chi ne è stato più ingiustamente deprivato.
    Ci chiediamo però: cosa significa «possedere»?
    Attorno a noi tutto ci suggerisce che per possedere dobbiamo «avere», tener stretto, difendere con i denti. Più cose abbiamo e più riusciamo a stringerle forte, strappandole magari agli altri, più deboli, e più siamo vivi.
    Gesù di Nazareth propone una logica molto diversa.
    Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che «dare la vita» è la condizione fondamentale perché la vita sia piena e abbondante per tutti.
    Perdere per condividere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti. E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
    Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del nostro distacco. Ci priviamo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possediamo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po'.
    Una costatazione così impegnativa si traduce in gesti e scelte concrete. Ripropongo ancora una volta l'esperienza sportiva. Qui davvero chi è convinto di possedere pienamente (la vittoria, per esempio...) solo se sa condividere, cerca un modo diverso di realizzare le selezioni per le squadre, equilibra risorse, modifica la gerarchia dei valori e í simboli di prestigio.
    Davvero si pone violentemente contro-corrente...
    Si pensi ancora all'uso del tempo (una delle cose a disposizione veramente di tutti) e al fascino che alcuni giovani possiedono per doti naturali o per opportunità economiche...
    L'esperienza di salvezza e la sua proposta si misura intensamente a questi livelli.

    5.1.2. Un rapporto nuovo verso le persone
    Un secondo ambito di verifica è dato dalla qualità dei rapporti che intessiamo con le persone.
    Questo rappresenta il modo più serio per imparare a «possedere» tanto la vita da riuscire ad anticipare nel quotidiano anche l'esperienza dura della morte.
    La morte ci strappa dalle persone, con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienze originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
    Lo sappiamo e ne soffriamo. Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce di spegne: per noi e per gli altri.
    Ma non è tutto solo così.
    Ci sono amici che sentiamo vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
    Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità.
    Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
    Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Sí arriva persino a dire: per fortuna, non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
    Ho suggerito due situazioni opposte.
    Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere, solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
    Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiede un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
    Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a «dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza», anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo «resta», forte come l'amore.
    L'Oratorio è il luogo delle amicizie facili in una situazione di anonimato diffuso. È il luogo dei gruppi: da quelli amicali a quelli programmati verso impegni più precisi.
    Qui affiora una dimensione qualificante. Va ritradotta in indicazioni operative, anche grazie alle informazioni tecniche fornite dalla dinamica di gruppo. Lo spirito, però, non può essere che questo appena indicato, se vogliamo dare verità all'esperienza di salvezza e alle celebrazioni liturgiche che chiedono il supporto di autentiche «comunità» ecclesiali.

    5.1.3. Un rapporto nuovo verso la «legge»
    Siamo in un tempo di larga crisi di legalità. Lo si grida da tutte le parti e stiamo cercando rimedi sicuri, spesso con l'affanno disperato di chi si sente ormai l'acqua alla gola. Nei nostri Oratori, collocati in genere in zone difficili di periferia e aperti, per tradizione, a tutti i giovani, lo si sperimenta continuamente.
    Qualcuno vuole leggi sicure e punizioni ferree per i trasgressori. Istituzioni educative e, magari, qualche Oratorio si buttano nella stessa logica. Si discute sui criteri di accoglienza e si è tentati di moltiplicare le chiusure o, almeno, i controlli di riconoscimento.
    La logica sembra giustificatissima. In fondo, fanno tutti così...
    C'è di mezzo invece un forte problema educativo verso la pienezza in umanità e, di conseguenza, qualcosa che investe direttamente l'esperienza della salvezza.
    L'Oratorio non persegue atteggiamenti rinunziatari né si accontenta di quelli permissivi, solo per non perdere gli interlocutori. Al contrario, inventa, con una decisione educativa e teologica nello stesso tempo, alternative, capaci di recuperare le esigenze della legalità, traducendo nel vissuto quotidiano lo spirito del Vangelo.
    La Legge è una sola: dare vita dove c'è morte, perdendo la propria perché tutti possiamo averne piena e abbondante.
    Questo va gridato come esito della scelta di vita che porta a confessare che solo Gesù è il Signore. Le altre leggi – tutte, anche se a livelli diversi – sono importanti. Spesso rappresentano la via obbligata per far nascere vita. Qualche volta le esigenze della vita sono tali da costringerci alla libertà della trasgressione. Sempre, sono così urgenti da sollecitare a trapassare l'osservanza della legge: fino, veramente, a dare la vita.

    5.1.4. Un rapporto nuovo verso il senso della realtà
    Un quarto punto di verifica è determinato dalla capacità di accogliere e rispettare il «mistero» della vita stessa.
    Viviamo in una cultura che ha la pretesa di manipolare tutto, a fatti o a parole. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    Certamente, le cose non vanno tutte per il verso giusto. Ogni tanto l'ingranaggio si inceppa. Ma anche di questo dato, pretendiamo di gridare forte le colpe e i meriti.
    Quello che non riusciamo a manipolare, ce lo teniamo nascosto, per un senso di pudore. Capita così persino per la morte, quella improvvisa che si affaccia alla nostra esistenza senza rispettare il calendario delle previsioni. La rimuoviamo con caparbietà o la trasformiamo in spettacolo, per riconquistarla dopo che ne eravamo restati sconfitti ad un primo impatto.
    Questa non è la vita, di cui cerchiamo la pienezza e la maturazione.
    Essa si porta dentro, come in filigrana, il mistero. L'imprevedibile e il limite invalicabile sono dimensioni della sua qualità. Abbiamo un ardore sconfinato di sfondare questo limite. L'abbiamo assicurato ormai su tanti livelli; e ne siamo giustamente fieri. Ma il limite resta: un passo più avanti dei nostri passi più avanzati.
    Lo accogliamo e ci conviviamo. Anzi lo restituiamo alla sua dimensione di verità. La realtà non è quella che manipoliamo. È quella che riconosciamo dal mistero che si porta dentro, gridando forte la nostra insuperabile capacità di «possederla» fino in fondo.
    Viviamo con gioia dell'esperienza del limite e del mistero. Per questo diventiamo uomini «invocanti», man mano cresciamo come adulti, responsabili e sapienti.

    5.2. La proposta (che è esperienza) di Gesù il Signore

    Attraverso mille concreti interventi e il clima che da essi scaturisce, l'Oratorio ha la pretesa di restituire l'uomo a se stesso.
    Tutto questo è molto importante nella figura di salvezza che condividiamo. Ho già ricordato però che non è sufficiente.
    La vita fiorisce piena e abbondante, nonostante il limite invalicabile della morte, quando accettiamo di immergerci nel Dio di Gesù, accogliendo la sua proposta di vita nuova. L'Oratorio, consapevole di questa esigenza, cerca con coraggio e fantasia tutto ciò che permette di annunciare in modo adeguato, l'evangelo di Gesù il Signore.
    Le modalità concrete sono molte e differenziate e non è certo possibile suggerire vie obbligate alla passione operosa di chi crede all'Oratorio e vi gioca tutta la sua speranza. Posso solo sottolineare alcune preoccupazioni generali, che nascono dalla figura di salvezza che ho posto come riferimento della mia ricerca.

    5.2.1. Il rispetto della logica educativa
    L'evangelo è sempre una proposta. Può essere realizzata però in diversi modi.
    L'Oratorio, impegnato per la salvezza, avverte fortemente questa esigenza; e la assolve con coraggio e fantasia. Lo fa però con un profondo rispetto della logica educativa: partendo dalle domande dei giovani, interpretate e approfondite verso la loro autenticità; con progressiva gradualità; mediante processi di animazione e mai sulla forza dell'imposizione o del ricatto; aiutando i giovani a conservarsi maturi e critici anche nell'entusiasmo religioso; facendo fare esperienze.
    Questo non è lo stile più diffuso, nel panorama frastagliato della Chiesa italiana. Stanno ritornando modelli forti, centrati su una strana preoccupazione di oggettivismo formale, quasi che bastasse la corretta proposta del dato per assicurare la sua dimensione salvifica.
    Chi crede invece alla educazione anche nell'ambito specifico dell'educazione alla fede, sa resistere a queste tentazioni. Lo fa con il timore di chi si ritrova a compiere gesti dalla risonanza vitale e in profondo atteggiamento di dialogo. Lo fa però senza nostalgie e false rassegnazioni: per rispettare la qualità carismatica dell'Oratorio e per servire meglio la causa del Regno di Dio tra i giovani di oggi.

    5.2.2. La catechesi
    La catechesi è uno dei punti di forza irrinunciabili per un Oratorio impegnato per la salvezza.
    Non...ho intenzione di rubare il mestiere a chi è molto più competente di me per suggerire modalità e compiti concreti.
    Ricordo l'esigenza non solo perché una riflessione sulla salvezza non ne può evitare il richiamo; ma anche perché, ancora una volta, il modello di catechesi, perseguito e realizzato, sul piano dei contenuti e dei metodi, si lega intensamente a quello di salvezza che fa da orizzonte.
    Quale catechesi, dunque, nella logica della figura di salvezza proposta?
    Sono convinto che l'Oratorio è uno degli ambienti ecclesiali privilegiati per la riscoperta, la sperimentazione e la prassi di un modello «narrativo» di catechesi.
    Questa è la mia proposta: fare catechesi, raccontando una storia che produce vita e dà speranza, all'interno di una catena di «narratori» e coinvolgendo nell'unico annuncio l'esperienza di chi narra e di coloro a cui la narrazione è rivolta. Proprio per questo intreccio di differenti storie attorno alla vita, la catechesi diventa un luogo di continua identificazione e di insistita revisione critica dei modelli che circolano, magari per venderci morte nel nome della vita.
    Questo modello ci riporta alla prassi di Gesù e dei suoi primi discepoli, superando gli schemi scolastici e indottrinanti che hanno devastato per troppo tempo la catechesi.
    Gesù di Nazareth, infatti, ci ha parlato di Dio, suo Padre, della sua passione per la vita e la felicità degli uomini, raccontando storie tanto sconvolgenti e coinvolgenti che l'hanno condannato e ucciso «come bestemmiatore».
    La sua morte violenta non ha spento il ricordo della bella storia. Era tanto carica di vita e di speranza che ha suscitato un «movimento» di narratori, testimoni della vittoria di Gesù sulla morte e del suo invito a continuare la sua missione.
    Per questo gli apostoli hanno continuato a raccontare la storia di Gesù il Vivente, con una passione che li ha portati fino alla morte. Giovanni lo dice a nome di tutti: «La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Siamo i suoi testimoni e perciò ve ne parliamo» (1 Gv. 1, 1-2).
    Hanno continuato a raccontarla i cristiani di tutti i tempi, collegandosi all'esperienza fatta quando altri gliel'hanno raccontata.
    Fin dai primi passi della vita della Chiesa, la storia dell'amore di Dio per l'uomo si è intrecciata con la storia di Gesù il Signore: le due storie sono ormai un'unica grande esperienza di salvezza.
    Nell'Oratorio molti continuano a raccontare questa storia di vita. Raccontano quello che hanno vissuto, scoperto e compreso. Cercano di farlo con i fatti; e si fanno aiutare con le parole, per sostenere i fatti e per interpretarli nella direzione giusta.
    Chi fa catechesi sa che raccontare una storia del genere è fatica e responsabilità. Non spiega ad altri cose che solo lui conosce. E neppure cerca di fare dei proseliti, smerciando di sottobanco prodotti raffinati.
    Racconta perché gli è nata dentro una gioia grande. Non la può soffocare. Ha incontrato un amico e tanti amici; e ha scoperto prospettive meravigliose per promuovere la vita e consolidare la speranza.
    Racconta con timore e tremore, perché sa di parlare prima di tutto di sé e per sé. Non riesce più a dire le cose in modo freddo,sicuro della competenza che gli viene da quello che ha imparato prima. Ma non tace: le sue parole hanno la potenza della sua debolezza (2 Cor. 12, 9) e hanno la forza dei tanti testimoni che hanno già giocato tutta la loro esistenza, affascinati dalla storia incontrata.
    Racconta con una sola grande passione: vuole che tutti riscoprano vita e felicità, quella vera e autentica che Gesù ha regalato al mondo, raccontando la storia di Dio, il Padre buono e accogliente.
    Sogno un Oratorio che faccia catechesi così. Non so bene cosa tutto questo comporti. Lo dobbiamo inventare, in fedeltà e fantasia. Per farlo però dobbiamo giocare ricerche e risorse in questa direzione.
    Molte esperienze sono in atto. Sono convinto però che la strada sia ancora lunga e impegnativa. Nessuno meglio dell'Oratorio ha le carte in regola per tentarla.

    5.2 3. Le celebrazioni liturgiche
    Il conflitto tra morte e vita è duro. La vittoria piena della vita è tutta nel futuro, intessuta solamente di attesa trepida. Facciamo i conti con la morte, dentro e fuori di noi. E ci viene la voglia di arrenderci. Anche se non passiamo dalla parte dei mercanti di morte, ci rassegniamo a sperare la vita solo per un dopo lontano e nebuloso, dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata.
    Per non cedere e per rendere operosa la nostra speranza, abbiamo la necessità di sperimentare i segni del futuro nel tempo duro della necessità.
    La comunità ecclesiale possiede l'esperienza gratuita del futuro per il tempo presente, quei gesti che sembrano sottratti al duro conflitto che attraversa la vita: la preghiera, le celebrazioni liturgiche e sacramentali, la meditazione della Parola di Dio, l'esperienza della comunione ecclesiale.
    L'Oratorio impegnato per la salvezza li propone, con coraggio e decisione, come momenti celebrativi dell'evento della salvezza in atto nella storia personale e collettiva.
    Anche a questo proposito non è sufficiente richiamare l'urgenza. Vanno invece ripensati, a partire, ancora una volta, dalla figura di salvezza che vogliono assicurare e celebrare.
    Tra le tante cose che potrebbero essere dette, ne ricordo solo una che mi sta molto a cuore. Lo faccio con forza perché ho paura che sia proprio questo uno degli ambiti in cui prende la rivincita la nostalgia per modelli élitari e rassicuranti. Il rischio è grave: l'Oratorio diventa il luogo dove stanno a proprio agio solo i giovani bravi e buoni, quelli che ci danno sconfinate soddisfazioni, perché sono riusciti ad estirpare dal loro campo... persino la radice della zizzania.
    Il giovane cristiano ha il diritto di essere aiutato a pregare da uomo che gioca la sua giornata prevalentemente in compiti culturali, sportivi, sociali e politici, e non come un «monaco di formato ridotto». Non è detto da nessuna parte (seria) che il monaco sia un cristiano «migliore» degli altri, impegnati direttamente nella storia quotidiana.
    Non è questione prima di tutto di dosaggio o di quantità. In gioco c'è invece un ripensamento profondo sul piano della qualità: dell'intonazione, dello stile, del ritmo, del contenuto stesso degli atti liturgici. Questo comporta un tipo speciale di preghiera, più vibrante della sua quotidianità, più vicino alla sua responsabilità, contemporaneo alla sua esperienza.
    Il lungo processo di maturazione che ha attraversato ormai l'ambito della catechesi deve poter investire anche l'esperienza liturgica: tipo, senso e qualità delle celebrazioni. Pensiamo, per esempio, ai momenti di preghiera che generalmente aprono o concludono le giornate oratoriane, al significato e alla celebrazione dei sacramenti della riconciliazione, della confermazione, del matrimonio e dell'ordine, soprattutto al tipo di celebrazione eucaristica «oratoriana», alla scelta di quali modelli di preghiera sono proposti e praticati dai giovani più impegnati, nei campi e nelle giornate di spiritualità...
    Anche in questo settore, tanto centrale e delicato, l'Oratorio diventa un dono concreto a tutta la comunità ecclesiale, perché chi riesce ad essere significativo per i giovani ha buone speranze di poterlo essere per tutti.

    5.2.4. L'esperienza liturgica come «verifica» dell'Oratorio
    Le celebrazioni liturgiche sono una festa: il ricordo del passato e un frammento di futuro tra le pieghe del presente.
    Memoria solenne ed efficace del passato, riscrivono nell'oggi i grandi eventi della nostra salvezza. Restituiscono così il presente alla sua verità per la forza degli eventi. E immergono nel futuro la nostra piena condivisione al presente: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Per questo sono una grande esperienza trasformatrice. Aiutano a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. Sono un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
    Le celebrazioni liturgiche sono la festa del passato e del futuro, che ci dà il diritto alla festa nel presente.
    Attraverso le celebrazioni liturgiche l'Oratorio si immerge più profondamente sul territorio, facendo propri, con la stessa passione del Signore Gesù, i problemi, quelli «veri», che lo attraversano. Nella celebrazione dei segni del futuro, ritrova le ragioni dell'impegno e della speranza. Dice forte la certezza della vittoria della vita, della riconciliazione, dell'amore che sa servire fino a dare la vita, per la potenza di Dio e nella solidarietà della Chiesa.
    Vive sul territorio testimoniando, con fatti e con parole, la salvezza che è già presente, anche se l'attende con tutti in una speranza operosa.
    In questa immersione nel mistero, che dona la verità della fede, i giovani cristiani imparano a cantare i canti del Signore anche in terra straniera.
    Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l'unica terra di tutti.
    Cantando i canti del Signore, la «terra straniera» diventa la nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.

    (FONTE: CISI, L'oratorio via per educare i giovani al vangelo della carita. Atti convegno 1992, pp. 137-163)


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