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    Gioco e Vangelo

    Marco Mori, Forum degli Oratori Italiani

    Congresso Eucaristico - 7 settembre 2011

    Mi sono permesso di cambiare il titolo. Originariamente, infatti, il titolo di questa relazione suonava così: “Gioco e trascendenza”. Io l’ho cambiato: “Gioco e Vangelo”. Ovviamente vi devo una spiegazione, perché questo non è semplicemente un gioco da Settimana enigmistica o tanto meno una ricerca del titolo più accattivante. Dietro c’è una questione abbastanza seria.
    Quando si pensa al gioco nei nostri ambienti c’è il rischio di un approccio soltanto teorico (importante e fondamentale, ma decisamente insufficiente): cioè si riconosce la validità di un discorso sul gioco di stampo pedagogico, psicologico, sociologico e via dicendo… Si citano tutte le fonti possibili. Si fanno le considerazioni più precise da un punto di vista scientifico. Ma poi non si gioca. In pastorale non si gioca, o più precisamente il gioco è “sopportato”, a tratti banalizzato, ritenuto al massimo un riempitivo dell’azione pastorale. Avete presente la frase che sugli oratori spesso si sente: “Sì, i ragazzi voi lo fate giocare e divertire… Ma poi quello che conta è altro: i contenuti della fede, le decisioni sulla vita…”?. Questa critica è seria e va presa in massima considerazione. Ma occorre, appunto, uscire da un’ambiguità pastorale, che considera il gioco come una premessa. In realtà ciò che conta, nella nostra testa, sono le riunioni, gli incontri, le catechesi, la preghiera, i momenti “esplicitamente” formativi… Qualcuno potrebbe essere disposto a far giocare e ad investire sul gioco magari con la più o meno celata speranza che quei ragazzi poi vengano in Chiesa, si accostino ai sacramenti: un uso un po’ strumentale, spesso squisitamente etico.
    Ecco perché ho cambiato il titolo: dire “gioco e trascendenza” significa un po’ essere figli di questa impostazione, in cui il gioco rimane teoricamente collegato ad una vaga idea di trascendenza. Invece no! “Gioco e Vangelo” dice un’altra cosa: la concretezza del gioco dentro l’annuncio del Vangelo, nella scoperta di Gesù e nella costruzione di una comunità cristiana. Vale la pena, se dobbiamo farlo ad un Congresso eucaristico, chiederci se è possibile che il gioco diventi via di evangelizzazione, rispetto il gioco e il Vangelo insieme. Non sto ovviamente dicendo che il gioco sia il primo mezzo per evangelizzare: sto solo dicendo che ha senso porci la domanda se il gioco permette a noi e ai nostri ragazzi di scoprire di più il Signore Gesù. Non se aiuta i ragazzi ad andare a Messa (perché ciò non rispetta né il gioco né l’Eucaristia) ma se li aiuta a respirare la logica del Vangelo perché da questa nasca la voglia di continuare ad alimentarsi di questa esperienza anche con altre azioni (compresi i sacramenti!).
    Sono abbastanza convinto che il gioco possieda questa capacità e sono altrettanto convinto che, nella pratica, i nostri oratori agiscano bene in questa direzione. Probabilmente manca un passaggio più deciso sulla consapevolezza piena e matura di noi educatori per offrire ai ragazzi e a noi stessi una lettura dello spessore evangelico del giocare in oratorio.
    In quest’ottica vi offro alcune sollecitazioni, che sintetizzo in alcuni passaggi: la considerazione di alcune vicinanze tra il gioco e il Vangelo; la possibilità concreta che il gioco offre per l’annuncio del Vangelo in oratorio; i messaggi che il gioco rimanda all’intera città, perché la tradizione dei nostri oratori è di svolgere un servizio all’intera umanità; infine, un paio di citazioni “illustri”, tanto per chiudere giocando.
    Possiamo scoprire delle caratteristiche comuni tra il gioco e il Vangelo? Ritengo di sì. Ne ho pensate alcune che sono riconducibili al tema eucaristico. Ce ne possono essere altre e ciascuno, probabilmente, all’interno della propria esperienza di educatore può farsene un elenco personale. L’importante è averlo.
    La prima vicinanza è la logica del “per tutti”: tutti giocano e crediamo che il Vangelo sia un buon annuncio per tutti (“il Sangue versato per voi e per tutti”). Il gioco è, forse, rimasta una delle poche attività che accomuna la gente, che fa sentire le persone realmente insieme, che permette di dimenticare differenze e distanze e di costruire una logica di rispetto comune. Anche il Vangelo è grammatica che esprime una vita piena e bella offerta a tutti. La tensione del “per tutti” che esprime la voglia di Gesù di donare se stesso fino in fondo si sposa bene con un’esperienza come quella del gioco dove c’è bisogno di tutti se si vuole arrivare a qualche risultato.
    La seconda assonanza: entrambi (gioco e Vangelo) insistono su un’area della persona che dice riferimento a valori come la gratuità, la libertà, la totalità, la corporeità (il giocare, come il Vangelo, include il giocarsi). Non si costringe nessuno a giocare; come ad ascoltare il Vangelo, in verità. Ma se si vuole giocare (e ascoltare il Vangelo) bisogno mettercela tutta, a livello di testa e di muscoli, di cuore e di intelligenza. Il gioco non produce immediatamente risultati visibili, spesso non rende né più ricchi né più poveri da un punto di vista di cose e di beni materiali: ma può produrre beni altrettanto urgenti e necessari per la vita, come l’accoglienza, la relazione, lo stare bene insieme (sembra di risentire Pietro al Tempio: “non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù cammina!”).
    La terza familiarità: gioco e Vangelo contengono il simbolico come anima e logica. Il di più a cui possiamo arrivare e dobbiamo continuamente a tendere è racchiuso in un gesto-incontro-parola-momento che non lo esaurisce ma che apre a possibilità nuove e diverse. Il gioco non finisce mai e tutte le volte, anche se fatto con le stesse regole, produce qualcosa di diverso e, se è vero, diventa sempre più affascinante e coinvolgente; il Vangelo lo si gusta ricominciando sempre da capo ad accoglierlo, lasciandosi alimentare e dissetare senza smettere dio avere fame e sete. Non vivono della logica del tutto e subito ma penetrano nella persona attraverso una familiarità continuamente da rinnovare ed incentivare.
    Infine scorgo un’ultima assonanza: entrambi vivono della logica dell’Incarnazione. Il gioco assume un linguaggio che mette alla pari e permette scambi senza banalizzare e in un orizzonte di quotidianità (il Vangelo contiene per lo più parole capibili e immagini vicine). Il gioco permette una reale centralità dei piccoli, perché è fatto a loro misura e obbliga i grandi a mettersi in ascolto, a cedere il comando, a partire dagli altri (vi ricorda qualche pagina di Vangelo?). Il gioco è dei piccoli perché porta in sé la semplicità come necessità e criterio fondativo: non semplifica la realtà, ma ci offre un approccio diverso ad essa, basato sulla comunione, sul confronto, sulla cooperazione, sull’invenzione, sulla fantasia, sul divertimento (noi forse non insistiamo con i nostri ragazzi nel dire che il Vangelo è fonte di pienezza e di felicità? che libera da una visione parziale della realtà, figlia più dell’interesse che non della vita stessa?).
    Mi pare un bel servizio educativo questo accostamento: non ci dona immediatamente soluzioni operative ma ci fa respirare un’aria un po’ meno tecnica e un po’ più umana e cristiana. Ci offre una logica sul gioco non solo di animazione e ci obbliga un po’ di più all’attenzione che in tutte le azioni che facciamo con i più piccoli entri il respiro del Vangelo.
    Ora mi permetto, invece, un passaggio un po’ più concreto, con qualche riflessione che entra più decisamente nel vissuto delle nostre comunità e dei nostri oratori. La domanda diventa: in concreto cosa offre il gioco all’oratorio e all’annuncio del Vangelo? Anche qui l’elenco è da completare e probabilmente ogni comunità deve fare la sua parte. Mi interessa di più la logica del ragionamento e mi limito ad offrire un paio di concretizzazioni.
    Prima di tutto il gioco ci offre la possibilità di educare non solo con le riunioni o con la testa. Spesso tendiamo a far coincidere l’educativo con il discorsivo: il gioco ha il pregio di non escludere il discorsivo ma di collocarlo dentro un’esperienza, un vissuto concreto. Riesce a far emergere il discorso sulla vita a partire dalla vita, e non prima o sopra.
    Inoltre il gioco è una grande scuola educativa per l’oratorio perché permette, nella sua semplicità e immediatezza, di toccare anche gli aspetti più concreti della vita e dell’educazione: sporcarsi le mani con alcune dimensioni più prosaiche dei nostri ragazzi, come la rivalità, la competizione, la gestione delle emozioni… C’è, per esempio, la possibilità di aiutare i più giovani ad avere una bussola su alcuni sentimenti: ciò risulta particolarmente decisivo dentro un tempo come il nostro che mette al centro l’emozione ma poi non riesce a dare criteri di vita effettivi e valorizzanti (il Vangelo, invece, educa ad un’emozione che diventi gesto concreto di accoglienza e di amore, suggerisce una rivalità che si faccia cooperazione, una competizione finalizzata alla costruzione di un mondo più bello e giusto, non dominato esclusivamente dall’io…).
    La tradizione dei nostri oratori ha visto nel gioco un reale ponte verso tutti. Tanto che anche in alcune espressioni di cronaca sportiva ogni tanto scappa qualche simpatico riferimento al “giocare come all’oratorio”. È giusto, allora, affrontare un ultimo passaggio, che riguarda la città, cioè che si allarga dall’oratorio al mondo. L’oratorio in questo riesce a proporre all’intera società la sottolineatura di alcuni aspetti della vita educativa non in modo arrogante ma, attraverso la passione per i ragazzi, come un servizio vero e proprio per tutte le persone, dal nostro punto di vista molto vicino al Vangelo.
    Il primo servizio che il gioco offre alla città è quello di non dimenticare gli spazi e i tempi dei più piccoli. Aiuta tutti a riportare il nostro vissuto alle loro esigenze e ad adeguare il nostro ritmo e le nostre abitudini ai bisogni di quelli che crescono, con la reale consapevolezza che non bastano le parole per dire che i piccoli sono importanti, occorre anche pensare una città e un mondo a loro misura.
    Inoltre, riprendendo una sottolineatura già fatta ma adeguandola al contesto della città, il gioco offre la concretezza della realtà come primato e grammatica fondamentale per interpretare e muoversi nella virtualità. Cioè trasmette la convinzione che nella tensione tra mondo reale e mondo virtuale (della comunicazione, della fantasia, dell’elettronica…) l’ordine da costruire è quello che va dalla realtà alla virtualità, e non viceversa: ordine che, soprattutto i più piccoli, rischiano di possedere esattamente al contrario (questa, a mio avviso, è la vera problematica educativa che investe il mondo della virtualità oggi). È solo da un approccio concreto che si innestano valori come la cittadinanza, la solidarietà, anche la trascendenza e il Vangelo: perché l’Eucarestia non è qualcosa di fantastico, ma di sfacciatamente concreto (quel corpo è veramente donato e non è un film!).
    Mi avvio verso al conclusione e riprendo due pagine memorabili della nostra tradizione sul gioco, perché appaiono come la miglior sintesi del rapporto tra gioco e Vangelo che ho tentato di descrivere con veloci pennellate.
    La prima citazione (d’obbligo!) è di S. Giovanni Bosco. Nella Lettera da Roma del 10 maggio 1884 viene descritta dal Santo educatore una situazione surreale, in cui in oratorio c’è meno felicità di un tempo. Eppure ci sono molte più competenze educative, ci sono molti più ragazzi. Cosa manca? La ricreazione! Più precisamente il fatto che gli educatori si giochino con i ragazzi non solo nei momenti di insegnamento formali ma in quelli informali. La ricreazione appare come il luogo di ascolto e di rivelazione della ricerca sincera del bene delle anime. Lì si vede se sei educatore solo per mestiere o anche per vocazione. Chi non gioca con i suoi ragazzi non li conosce né li ama.
    La seconda citazione ci riporta ad un insegnamento di Giovanni Paolo II. Nell’udienza durante il Grande Giubileo del 2000 alla FIFA (11 dicembre 2000), il papa usò un’espressione che mi ha sempre colpito. La riporto testualmente: “Avete scelto come vostro motto: “Per il bene del gioco”. Senza dubbio il bene del gioco può essere anche una parte importante del bene del mondo!”. Esattamente come l’Eucarestia, che è uno dei beni più preziosi che abbiamo. Ma non è mai scontata la possibilità di vedere e gustare il bene, perché va coltivata e fatta scoprire, sempre educata: anche il gioco può fare la sua parte di bene.


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