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    Prima catechesi
    Saldi nella fede
    Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano
     

    Carissimi giovani,
    la straordinaria stagione dell’esistenza che state attraversando è ricolma di domande e di attese, di sogni e di progetti, ma anche di sfide e di inquietudini: siete alle prese con il vostro presente e con il vostro futuro; siete alle prese con la vita, perché essa possa diventare sempre più compiutamente una vita buona e realizzata. Ogni vostra ricerca, ogni vostro sforzo, ogni vostra relazione e ogni vostra scelta sono orientati a questo obiettivo. Lo sguardo di ciascuno di voi si spinge lontano, nel domani, e poi, continuamente, si misura con la quotidianità: in questa duplice prospettiva, tra l’“oggi” e il “per sempre”, voi mettete in gioco le vostre risorse migliori, superate le paure paralizzanti, cercate i legami autentici e gli equilibri armonici; affrontate le domande serie dell’esistenza, sostenete le delusioni, lottate contro la fragilità e l’incertezza per poter trovare la felicità vera. Come ogni uomo, anche voi siete cercatori di gioia; ma perché il vostro impegno non vi deluda e perché il vostro cammino non si smarrisca, voi dovete diventare naviganti dell’infinito: dovete cioè diventare degli autentici e sinceri cercatori di Dio. Soltanto incontrando lui la vostra vita sarà piena e il vostro orizzonte abbraccerà l’eternità.
    Il punto di partenza di ogni cammino di ricerca è costituito dal luogo e dal tempo in cui si è posti. Dobbiamo chiederci: «Dove mi trovo?», e dobbiamo declinare questa domanda secondo prospettive molteplici. A livello personale: «quali sono le mie certezze e le mie relazioni, la mia vocazione e le mie prospettive?». A livello sociale e  culturale: «quali pensieri attraversano il mondo, e quali eventi stanno segnando la storia? Cosa mi offre e cosa mi chiede la società in cui abito?». In questo punto di partenza abbiamo già una certezza, importante e per nulla scontata: non siamo uomini per caso. Non siamo venuti al mondo e non lo abitiamo per una coincidenza fortuita o casuale; ciascuno di noi è ben più della somma degli elementi chimici che lo compone e della natura biologica che lo struttura. Intuiamo che all’origine sta un mistero che ci ha generato e che ci ha posto sulla terra con un disegno solido ed un progetto d’amore. È una certezza grande!

    L’ospite gradito

    L’uomo, cercatore di gioia, sa che può trovarne la sorgente nell’appartenere a qualcuno. La più grande tristezza è la solitudine; anche quella della propria origine. Essere frutto del caso significa non essere di nessuno, mentre sapersi creati da Dio per amore significa collocarsi dentro un pensiero ed un cuore grandi di Qualcuno che ci ha preceduto e che ci ha voluto. Fin dal primo istante della mia esistenza io sono un uomo che è stato pensato e che è stato posto nel mondo. Lo stesso concepimento da parte dei genitori e lo stesso parto della donna dicono questa verità: noi siamo stati attesi, desiderati e messi al mondo da altri. Con questa consapevolezza dobbiamo allora orientarci nel mondo e dobbiamo percorrere la nostra strada.
    Eppure la nostra società sembra aver dimenticato Dio o essere indifferente nei suoi confronti. Non ci sono solo un rifiuto positivo o un ateismo pratico, fatto di scelte e di criteri lontani dalla trascendenza; c’è piuttosto la presunta consapevolezza di poter fare a meno di Dio: un dio che non è più necessario, perché l’uomo può cavarsela da solo. La conseguenza di questa presunzione conduce l’uomo alla solitudine e alla rassegnazione dinnanzi al suo limite; l’uomo che si pensa semplice frutto del caso è destinato al fatalismo: la sua vita sarà affidata alle sole sue mani e alla benevolenza della sorte. Un rischio troppo grosso.
    Ma, nonostante tutto, nell’uomo contemporaneo permangono una nostalgia di Dio e un desiderio sincero di trascendenza. L’uomo ha bisogno di un respiro che lo porti oltre il proprio limite ed oltre il confine delle sue possibilità: possibilità intellettuali, di potere e di ricchezza. Lo scrittore Erri De Luca, nel breve romanzo Il peso della farfalla, fa dire al cacciatore di cervi, prossimo alla morte, che la sua vita «era da restituire, sgualcita dopo averla usata. Che creditore di manica larga era quello che gliela aveva prestata fresca e se la riprendeva usata, da buttare. Gli serviva credere che c'era un capomastro e che il mondo era il suo manufatto? Non serviva per parlargli, per crederlo in ascolto, però era un pensiero che teneva compagnia. […] L'uomo prosperava in sua assenza. Aveva imparato il bene e il male servendosi da solo. Era impossibile un padrone di tutto, però quell'impossibile teneva compagnia. Gli piaceva dire di fronte al cielo che calava in terra per la sera, un grazie al capomastro».[1]
    Per l’uomo in ricerca, Dio è, inizialmente, un pensiero che tiene compagnia; ma questo pensiero ha bisogno di un volto, e questa compagnia ha bisogno di un legame di reciprocità.
    Gli esperti di sociologia e psicologia sostengono che le nuove generazioni sono abitate dall’ospite inquietante del nichilismo che «penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui».[2] Sono certo, invece, che i giovani siano abitati anche da un ospite gradito, capace di riempire di senso i loro giorni, di dare ragione della propria origine e di svelare un futuro affascinante ma non utopico e praticabile; un ospite in grado di soddisfare le domande serie sulla vita e sulla morte, sul dolore e sulla giustizia, sugli affetti e sulla vocazione. Questo ospite gradito è Dio, il Padre di Gesù Cristo, il Padre di tutti gli uomini. È un ospite discreto che si nasconde nell’intimo di ciascuno e parla al cuore; lo fa, però, senza alzare la voce e senza imporsi con arroganza. Così aveva fatto con Elia sull’Oreb: il profeta, perseguitato ed angosciato, si era rifugiato sul monte in cerca di speranza e di salvezza; lì Dio gli parla e gli indica il suo futuro, non attraverso la voce forte del vento impetuoso, del terremoto o del fuoco, ma attraverso «il sussurro di una brezza leggera» (1Re 19, 12).
    Tra tante parole urlate per imporsi e tra molti brusii logoranti c’è ancora il sussurro di una brezza leggera che domanda di essere accolta ed ascoltata; c’è un ospite gradito che cerca lo spazio di un incontro e la promessa di una relazione. Quell’impossibile che tiene compagnia può diventare possibile nella vita di ciascuno, e sarà un ospite non solo gradito, ma a cui essere grati. Dio è la presenza discreta che interpreta la vita e la apre a un orizzonte di gioia e di verità. Il capomastro, o l’ospite gradito, o il sussurro della brezza domandano il coraggio di un affidamento: un atto di fede; esigente, ma possibile.

    La fede è un dono

    La fede è una grazia che l’uomo riceve. La scopre dentro di sé nell’intimità dei propri pensieri e dei propri affetti; la scorge nelle vicende che hanno costellato e costellano la sua vita, nella propria biografia, fatta di incontri, di scelte, di volti. È come il respiro e il battito del cuore, che fanno di ciascuno di noi un essere vivente. Non è un sentimento, perché il sentimento è fragile: oggi c’è ma domani non si sa, a volte è intenso, altre volte è debole. La fede è una grazia che rende unica l’esistenza, la fa essere speciale, vale più della vita stessa: senza di essa la vita sarebbe in bilico sul vuoto. Questa grazia è la presenza di Dio in noi; o meglio, è il nostro vivere in Dio, è il nostro essere in lui. In origine Dio ha plasmato l’uomo dalla terra, gli ha dato una forma, lo ha creato a sua immagine; ma non si è fermato lì! Infatti, dopo averlo fatto con la polvere del suolo, Dio «soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). È la presenza dello Spirito di Dio in noi che fa della nostra vita una vita autentica: è questa la grazia che ci precede prima che ciascuno possa formulare un pensiero o compiere una scelta. All’inizio sta un Dio che ha voluto abitare in noi; di questa grazia dobbiamo essere riconoscenti, nel segno dello stupore e dell’accoglienza.
    La grazia della fede abita la storia. I testi della Sacra Scrittura sono il racconto dell’agire della grazia di Dio nel mondo, nella storia degli uomini e – allo stesso tempo, estensivamente – di ogni singola persona, dall’origine fino al compimento nella pasqua di Gesù; in questo compimento noi oggi viviamo e ne siamo collaboratori. Attraverso parole e segni, persone e popoli, Dio ha tracciato il suo disegno sul mondo: ha sancito un’alleanza con il popolo d’Israele, ha scelto re e profeti, e dentro le pieghe della storia ha rivelato la sua misericordia e la sua giustizia. La grazia della presenza di Dio non è mai stata una grazia astratta e incessabile; anche nei momenti del peccato e della distanza da lui, l’uomo ha potuto constatare che Dio tornava a cercarlo, a parlargli e a convertire il suo cuore. Così Dio ha rivelato il suo nome e il suo volto, non si è nascosto, ma si è messo in gioco con questa umanità. Ha creduto in noi e ha rischiato tutto, anche il proprio figlio. Così, ogni volta che la Scrittura parla di Dio ce ne parla come di un Dio in relazione profonda e quasi di appartenenza con qualcuno: è il Dio dei padri, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è il Dio di Israele; un Dio che intesse legami e che fa la storia. Credere significa allora riconoscere e coltivare questo legame con lui; significa costruire con lui la nostra storia.
    Un giovane che riflette e s’interroga sulla propria fede deve ricostruire la storia del suo legame con il Signore. Deve pensare ai volti delle persone che gliene hanno fatto dono e lo hanno introdotto in questa grazia: dai genitori ai nonni, dalla propria comunità a qualche amico o amica. Deve ritrovare le tappe più significative che hanno segnato i passaggi e le svolte, gli eventi che hanno caratterizzato il proprio percorso. Oserei dire che parlare di grazia della fede, di dono, vuol dire parlare della mia storia con Dio; nel gergo giovanile, nel vostro parlare ordinario, usate spesso l’espressione: «avere una storia con…»: vuol dire costruire un legame speciale con un ragazzo o una ragazza, qualcosa di profondo e di intimo. Quando invece dite che una storia è finita evidenziate che si è concluso o si è rotto qualcosa di importante. Credere è avere una storia con Dio. Un’appartenenza unica, un legame radicato, qualcosa che mi mette in gioco nel profondo e qualcosa per cui ne va della mia stessa vita.
    Questa storia è una grazia perché il primo passo è sempre quello di Dio che ci sta accanto ogni giorno: non ci ha soltanto messo al mondo, ma in questo mondo cammina con noi. Il Signore aveva camminato di fianco al suo popolo nel deserto, verso la terra della libertà, e lo aveva fatto nel segno della nube e del fuoco, nella parola scritta sulle tavole di pietra e dentro la tenda del convegno. Gesù ha camminato insieme ai suoi discepoli lungo le strade della terra d’Israele fino a Gerusalemme, la città della pasqua e del compimento: ha camminato ascoltando ed insegnando, consolando e guarendo.
    La grazia della fede, segno dell’origine e della presenza di Dio dentro la storia di ciascuno e in quella dell’umanità, è una grazia che ci precede e che, nello stesso tempo, ci interpella; è una grazia che ci dà forma e ci domanda una risposta; è una grazia assolutamente libera e gratuita, un amore che non pretende nulla in cambio ma, nello stesso tempo, ci coinvolge da protagonisti nel grande disegno di creazione e redenzione del mondo. A questa grazia ci dobbiamo abbandonare come il bimbo che si consegna nelle braccia della madre con la fiducia e con la certezza che, da quell’abbraccio, non sarà deluso. Il salmo 131 al secondo versetto dice: «Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia».

    La fede è una scelta

    Credere è una scelta libera e intelligente. La grazia della fede che precede ogni nostro pensiero ed ogni nostra azione attende una risposta. L’uomo, di fronte all’agire di Dio, non può restare passivo, ma è chiamato a coinvolgersi e a diventare protagonista della relazione con lui. Mentre le divinità dei greci e dei romani esigevano sacrifici ed offerte per sedare la collera e frenare la vendetta, per essere benevoli e generosi, il Dio di Gesù Cristo chiede un affidamento libero ed una relazione personale.
    Il bambino che corre tra le braccia della madre per cercare consolazione nel pianto, per soddisfare un bisogno di coccole o per condividere la sua gioia compie una scelta intelligente: è un bimbo che ha compreso, grazie alla storia dei segni di cura, di parole, di attenzioni che ha ricevuto, che la madre è la persona giusta a cui affidarsi e con cui confidarsi. Non si butta tra le braccia del primo capitato; il suo atto di fiducia è intelligente perché tiene conto della storia della relazione e si fonda sulle prove della cura che hanno preceduto ogni suo pensiero ed ogni suo atteggiamento.
    Nel film Decalogo 1 del regista polacco Krzysztof Kieślowski, il protagonista, un professore universitario, separato dalla moglie, si trova costretto a crescere il proprio figlio, Paweł, da solo. È un grande appassionato di computer e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente attraverso l'uso del computer. Secondo lui non esiste una dimensione trascendente della realtà: non esiste nessun Dio e quando si muore il cervello smette semplicemente di funzionare. Ma ad un certo punto Paweł chiede alla zia, molto credente: «Tu ci credi che Dio esiste? Chi è, lo sai?». La zia lo stringe a sé, abbracciandolo forte e dicendogli: «Dimmi cosa senti adesso». Lui risponde: «Ti voglio bene», la zia conclude: «Esatto, e lui è in questo».
    La nostra vita ruota sempre attorno ad atti di fiducia: non possiamo vivere senza fidarci di qualcuno, del mondo che abitiamo ed anche di noi stessi. I momenti più belli della nostra esistenza e gli eventi più grandi che segneranno la nostra storia si fondano su atti di fiducia; senza non potremmo vivere o vivremmo nell’angoscia. Ci fidiamo delle piccole cose quotidiane: che il treno ci porti a destinazione, che il cibo sia buono, che nessuno voglia farci del male. Ma ci fidiamo anche quando compiamo le scelte definitive della nostra vita. Due giovani che decidono di sposarsi compiono un grande atto di fiducia reciproca: si sono incontrati e conosciuti, hanno condiviso insieme emozioni e progetti, hanno ragionato sui loro caratteri e sul loro futuro; poi hanno considerato tutte le ragioni buone di una vita di coppia, così che la loro scelta sia davvero consapevole e ragionevole. Ma alla fine, il gesto più grande, di amore e di libertà, è quello di un affidamento reciproco, che si rinnova ogni giorno.
    La stessa dinamica sostiene l’esperienza della fede. Abbiamo conosciuto Dio attraverso molte persone che ci hanno parlato di lui, mediante la catechesi e lo studio personale; ne abbiamo riconosciuto i segni della vicinanza e abbiamo compreso che veniamo da lui e in lui troviamo il senso vero dell’esistenza: per questo, ragionevolmente, possiamo credere in lui con un sincero atto di fiducia. La fede esige l’intelligenza, e la nostra intelligenza comprende che l’atto più grande che un uomo possa compiere nella sua esistenza è quello di un affidamento libero e riconoscente, nel segno della verità e dell’amore.
    Per questo un giovane deve coltivare non solo la propria intelligenza, ma anche la propria libertà. La fede esige la libertà. Essa chiede di essere educata ed esercitata, di essere custodita come un dono e di essere usata bene. Essa esprime la disposizione interiore a mettere in gioco tutto se stesso, nella propria intelligenza e nella propria corporeità, nei sentimenti e nelle emozioni, nelle azioni e nei segni, per qualcosa che riempie la propria esistenza e dà compimento ai propri progetti. La libertà autentica non è mai deresponsabilizzante; al contrario, è profondamente esigente: infatti la libertà autentica fa di un giovane il protagonista del suo presente e del suo futuro, ma gli consegna anche la certezza che non sarà mai abbandonato a se stesso.
    Credere in Dio non limita la nostra libertà, e i suoi comandamenti non impoveriscono la nostra intelligenza: solo in lui, infatti, scorgiamo la possibilità di realizzarci come uomini e donne, dentro le sfide di questo tempo, senza smarrirci nella complessità della nostra storia. Nella relazione personale con Dio, coltivata ed accresciuta dentro la comunità cristiana, noi possiamo costruire un legame che non delude e non inganna; possiamo rinvenire i segni promettenti del nostro futuro e raggiungerli con il nostro metterci in gioco. Soltanto nell’atto di fede possiamo fare della nostra vita qualcosa di grande e possiamo fare dei nostri sogni qualcosa che si compie.

    La fede è il futuro

    Il dono della fede è certezza del nostro futuro. La fede illumina la vita del credente, la trasforma, la arricchisce di valori indelebili e le svela il segreto di legami duraturi. Nel segno del dono di sé e dell’abbandono fiducioso il giovane che sta saldo nella fede diventa capace di una speranza indistruttibile e diventa artefice del domani: del proprio e di quello del mondo. Gli appassionati di calcio dicono che il calciatore bravo è colui che, nel momento di tirare, non guarda il pallone ma la porta in cui deve segnare. Vale lo stesso per il credente: il suo sguardo deve essere fisso sul futuro che avrà il compimento nell’eternità di Dio. L’orizzonte nel quale un giovane pone le sue scelte e i suoi valori è l’orizzonte della fede, e quindi quello dell’infinito amore di Dio Padre: per questo il respiro di un credente sarà sempre universale ed infinito.
    Uno dei più grandi pensatori ebraici del secolo scorso, Abraham Joshua Heschel, scriveva che «I giovani non hanno bisogno di tranquillanti religiosi, della religione come diversivo, della religione come intrattenimento, ma di audacia spirituale, di succo intellettuale, di potenzialità di sfida».[3] La nostra fede nel Dio di Gesù Cristo sia proprio questo: abbia l’audacia della profezia in questo tempo e quella della vita spirituale che sostiene il cammino personale; sappia confrontarsi con intelligenza e rispetto con le domande e le complessità che la cultura e la scienza pongono al credente; si eserciti a sostenere le sfide che un giovane deve affrontare circa i propri affetti e il proprio futuro, la sua vocazione e il suo posto nel mondo.
    La fede è la grazia di Dio: un Dio che si prende cura di noi, avvolgendoci di misericordia; ma è anche una scelta di affidamento e di sequela, maturata nella storia e messa in gioco nella libertà. L’intelligenza della fede trova in Dio l’origine ed il senso dell’esistenza, trova in lui la mèta ed il compimento della propria vocazione e dei sogni più grandi: per questo nella fede scorgiamo la nostra identità e il nostro futuro. In essa restiamo saldi perché lì possiamo trovare il segreto della comunione con Dio e con l’uomo, lì scorgiamo la possibilità di una vita buona e felice. In Dio troviamo le risposte alle questioni decisive dell’esistenza: il dolore e la morte, la giustizia e la verità; troviamo i criteri per interpretare il nostro tempo e quanto avviene in noi, e troviamo le logiche per confrontarci con la scienza e la tecnica. Per questo ogni giorno ripeteremo, come i discepoli di Gesù: «Accresci in noi la fede» (Lc 17, 6).
     

    Seconda catechesi
    Radicati in Cristo


    Carissimi giovani,
    perché la nostra vita cresca come un albero rigoglioso, con radici profonde e fronde alte, capace di produrre frutti dolci e di elargire un’ombra rigenerante, dobbiamo avere l’audacia spirituale di professare la nostra fede. Perché la nostra vita sia come una casa solida, dalle fondamenta sicure e dagli spazi accoglienti, con finestre aperte sul mondo e una porta che non si chiude mai al fratello, dobbiamo avere la libertà di credere. Il Dio nel quale affondiamo le nostre radici e le nostre fondamenta non ha tenuto nascosto il suo volto, ma ce lo ha rivelato; non è stato in silenzio, ma ha parlato; non si è smarrito lontano dal mondo, ma si è incarnato in esso. Sì, perché noi crediamo nel Dio di Gesù Cristo: egli, venendo nel mondo, ci ha rivelato il suo volto di Padre, un Padre per tutti gli uomini. Ci ha dischiuso le vie di accesso all’incontro con lui e ci ha rivelato il suo disegno di salvezza e di realizzazione piena e definitiva, per la nostra vita e per quella del mondo intero. In Gesù il Dio dell’origine e del compimento, della libertà e della fiducia, della misericordia e della giustizia, si è fatto accessibile all’uomo, si è lasciato incontrare da ciascuno di noi: è in lui che crediamo. Il teologo Jurgen Moltmann diceva giustamente: «Se vogliamo sapere chi è Dio dobbiamo inginocchiarci ai piedi della croce».
    È proprio questo l’esercizio che vogliamo compiere. Perché la vita di un giovane sia solida e feconda è indispensabile che il giovane impari, giorno dopo giorno, a costruire un legame profondo e personale con Gesù; nella conoscenza della sua storia, nell’ascolto della sua Parola, nella confidenza della preghiera, nell’imitazione dello stile di vita, nella vicinanza operosa ai fratelli più bisognosi in cui lui rivive. Mentre un giovane plasma la propria identità e coltiva la sua vocazione, mentre intesse legami affettivi forti e guarda al suo futuro nel mondo, non può non cercare e trovare in Gesù un punto di riferimento sicuro ed affidabile, sul quale contare: Gesù è il cardine dell’esistenza su cui far ruotare scelte e relazioni, desideri e sfide, speranze e delusioni, gioie e timori.
    Durante la cena a Gerusalemme, in prossimità della Pasqua, l’apostolo Filippo dice a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Questa richiesta è coraggiosa e vera: l’uomo vuole incontrare il volto paterno di Dio, vuole parlare con lui faccia a faccia, perché questo potrebbe colmare una vita intera. Questo basta. Chi riconosce Dio nella verità ha realizzato se stesso e ha trovato il segreto dell’esistenza. È a Gesù che anche noi dobbiamo rivolgere la stessa preghiera di Filippo; e anche a noi Gesù dirà che chi ha visto lui ha visto il Padre, perché la comunione tra loro è intima e perfetta, e perché le opere che Gesù ha compiuto lo rivelano.

    Le domande a Gesù

    Allora anche noi, come molti personaggi del Vangelo, dobbiamo chiedere a Gesù di rivelarci la sua identità. Lo hanno fatto Nicodemo e Pilato, i discepoli e i capi del popolo, lo ha fatto la gente stessa, e persino coloro che erano posseduti da demòni. Chi è Gesù? Da dove viene? Con quale autorità agisce? Cosa ci rivelano le sue opere? Cosa dice di se stesso?
    Contempliamo, innanzitutto, lo spettacolo della croce. Come Maria, alcune donne e il discepolo amato, anche noi vogliamo stare presso la croce di Gesù (cfr. Gv 19,25). Non ci accontentiamo di stare semplicemente a vedere, come invece fa il popolo (cfr. Lc 23,35) e, tanto meno, non intendiamo deridere quell’uomo appeso al patibolo, come fanno i capi. Lo “spettacolo” della croce ci interpella, ci scuote, ci converte. Percorrere quella strada che esce dalla città e raggiungere il Calvario, e poi restare lì, vincendo la tentazione di scappare, vuol dire lasciarsi attirare dal Signore crocifisso – «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32) –, perché si vuole raggiungere il segreto di una vita buona e salvata. Gesù ha rivelato questo segreto nell’insegnamento e nel segno della sua morte: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Gv 12,24-26).
    Chi segue Gesù non può fermarsi ad un certo punto del cammino per tornare sui suoi passi, perché «nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62). D’altra parte l’andare fino in fondo porta proprio in cima al monte del Calvario, conduce ai piedi della croce. Proviamo allora a sostare in questo luogo e a contemplare il Crocifisso: vogliamo stare con Gesù, nella riconoscenza per il suo gesto e nella solidarietà per il suo dolore; ma vogliamo, allo stesso tempo, vivere e agire come Gesù, perché la nostra vita trovi la sua pienezza nel dono di sé per il bene dei fratelli. Questo stare e questo contemplare ci riempiono di stupore, anche se lo spettacolo appare drammatico; proprio quella croce, infatti, appare paradossale e dirompente.
    La bellezza della croce: il gesto di Gesù che muore ci rivela la sua identità. Nel dono incondizionato e libero di sé, Gesù porta a compimento il progetto salvifico del Padre: è fedele alla sua vocazione in un gesto d’amore assoluto. La croce dice proprio questo: egli rinuncia a tutto, anche alla sua dignità di uomo e di Figlio di Dio, si abbassa fino al punto estremo per rivelare l’infinito amore per l’uomo e il suo profondo desiderio di comunione con lui.
    Un giovane che radica la sua vita in Cristo crocifisso è un giovane che desidera costruire il suo futuro imparando ad amare come ha amato Gesù: con la sua stessa libertà, con la sua stessa determinazione, con il suo stesso coraggio. È un giovane che ha capito che l’unica verità che fa della vita una vita buona è la verità dell’amore che si fa dono per i fratelli: quell’amore diventa capace di sacrificio, di comunione, di riconciliazione; quell’amore riempie un’esistenza. Il legno della croce, dunque, non è un albero secco, e non è piantato su una terra arida: è un albero fecondo, che fiorisce in modo sorprendente. Gli antichi inni liturgici parlano di un albero da cui rifiorisce la vita, di un albero nobile ed amabile che piega i suoi rami e mitiga la sua ruvidezza. Così anche noi che vogliamo radicare l’albero della nostra vita in Cristo desideriamo la stessa bellezza e la stessa fecondità, anche nei tempi della prova e nelle sfide del tempo.
    La pasqua di Gesù ci rivela il volto di Dio. Egli è un Padre che non abbandona né il proprio Figlio né l’umanità intera; è il Dio che si comunica all’uomo entrando nella storia e manifestando alla storia un orizzonte eterno. Non ci abbandona alla nostra solitudine e alla nostra fragilità, non ci lascia a noi stessi nella presunzione di poterci salvare da soli. Nella pasqua di Gesù Dio si prende cura definitivamente dell’uomo stabilendo con lui un’alleanza nuova: un patto non scritto su tavole di pietra, né sancito da leggi, ma un legame nuovo nella verità della nostra vita e nella misericordia che converte il cuore. Dio dice la parola ultima sul dolore e sulla morte e ci manifesta chiaramente che il dolore e la morte non sono le parole ultime sulla vita dell’uomo: c’è un’esistenza che va oltre, c’è una verità che ci porta più in là delle nostre energie e delle nostre risorse; là dove, da soli, non arriveremmo mai.
    L’evangelista Luca conclude il racconto della crocifissione con queste parole: «Tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48). Il termine greco theoría non indica un’immagine ferma, ma un dramma in svolgimento. La croce è la grande icona e lo spettacolo dal quale non si deve staccare lo sguardo; è la rappresentazione di Dio: attraverso di essa ci è dato di vedere faccia a faccia Dio stesso. Il velo del tempio, i sette veli che separavano il santo dei santi dal resto del luogo sacro, il segno dell’inaccessibilità di Dio, si strappa in due, dall’alto in basso. Con la morte di Gesù in croce Dio diventa accessibile, non è più nascosto ma rivelato: nell’immagine del crocifisso l’uomo trova l’immagine di Dio e quindi la propria.
    L’imitazione di Gesù si compie poi nel guardare al suo modo di parlare e di agire, di incontrare le persone e di compiere in se stesso il progetto del Padre per la salvezza del mondo intero. L’imitazione di Gesù è imitazione della sua bellezza: proprio quella che, in modo libero e gratuito, giunge al dono di sé incondizionato e attraversa la prova fino alla gioia della risurrezione. Il vertice di questa imitazione è la Pasqua di Gesù, lo spettacolo della croce, il disvelamento dell’autentica bellezza che salva.
    Ma quale bellezza ci può essere nella croce? Nel carme del servo di Javhè, del profeta Isaia, leggiamo infatti: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» (Is 53,2b); eppure, aggiunge Isaia, per mezzo suo si compie la volontà del Signore e, dopo la prova, «vedrà la luce». Sant’Agostino scriveva: «Due trombe suonano in modo diverso, ma uno stesso spirito vi soffia dentro l’aria. La prima dice: Bello d’aspetto, più dei figli dell’uomo; e la seconda, con Isaia, dice: Lo abbiamo visto: egli non aveva bellezza, non decoro. Le due trombe son suonate da un identico Spirito; esse dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirle, ma cercare di capirle. Egli non aveva bellezza né decoro, per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? L’amore della carità; affinché tu possa correre amando e possa amare correndo». Questa è la bellezza della nostra fede.
    E proprio sulla croce Gesù si manifesta come uomo che ha vissuto la sua umanità fino in fondo, anche nella sofferenza e nella solitudine, e come Dio che ha manifestato la sua divinità nella fedeltà al Padre, nella comunione intima con lui e nel dare la sua vita per la salvezza del mondo: solo un Dio poteva amare come ha amato Gesù. Un giovane che crede in Gesù non guarda soltanto e non crede soltanto ad un grande personaggio della storia o ad un uomo che ha compiuto gesti importanti di solidarietà e di giustizia, che ha insegnato verità profonde: non si può pensare a Gesù solo come ad un innocente che, con coraggio unico, ha sostenuto il dolore ed il rifiuto dei nemici, come ad uno che ha cambiato la storia.
    Crediamo in un Gesù che è risorto ed è vivo. Lui è il Figlio di Dio che ha compiuto le promesse di salvezza del Padre e che ha realizzato le attese di libertà del popolo; è colui che è stato fedele alla sua vocazione realizzando la sua esistenza e che Dio non ha abbandonato al potere della morte; è colui che ci apre all’eternità della vita e ci spinge oltre il nostro limite e il nostro peccato, che ci rivela che il dolore e la morte non sono le parole ultime sul senso della vita. Egli ha costruito un regno di misericordia e di verità, di giustizia e di pace; un regno che dura per sempre.
    San Gregorio di Nazianzo raccomandava ai suoi fedeli: «Se sei Simone di Cirene, prendi la croce e segui Cristo. Se sei il ladro e se sarai appeso alla croce, fai come il buon ladrone e riconosci onestamente Dio, che ti aspettava alla prova. Se sei Giuseppe d'Arimatèa, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso: assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l'espiazione del mondo. Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio, seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito, cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione. E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime. Fa' di vedere per prima la pietra rovesciata, vai incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù. Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo».[4]
    Il Gesù della pasqua è l’Emmanuele. Gesù morto e risorto per noi, nel nome del Padre, è quel Gesù che si è incarnato nel grembo di Maria, si è fatto uomo ed ha vissuto nelle pieghe della storia e del suo tempo. Si è fatto ultimo tra i poveri e si è fatto servo di tutti. È passato tra la sua gente consolando e guarendo, insegnando la giustizia e lottando contro il male. Si è posto dalla parte degli stranieri e di coloro che erano discriminati, ha parlato con le donne e le ha volute con sé insieme ai suoi discepoli. Gesù è stato un uomo di giustizia e di verità; ha insegnato l’amore reciproco e il perdono; ha svelato il vertice dell’amore nei segni della riconciliazione e della comunione, fino al gesto eroico dell’amore per il nemico. La sua buona notizia è stata una parola di speranza universale: solo guardando a Gesù nei suoi affetti e nelle sue relazioni, negli incontri con la gente e nei segni che ha compiuto possiamo davvero comprendere che la croce non poteva che essere l’esito ed il culmine di una vita spesa per i fratelli.
    In questo modo Gesù non ha solo detto, ma ha anche fatto capire nelle opere chi è Dio e in che modo egli si prende cura dell’umanità intera. Ha insegnato la via dell’umiltà e della povertà, dell’obbedienza al Padre e della preghiera personale, ha indicato lo stile di un amore autentico, libero e vero. Fin dall’inizio della sua incarnazione ha scelto l’umile serva Maria di Nazaret, poi ha chiamato a sé uomini e donne semplici, è stato con gli ultimi insegnando la via della beatitudine che non si fonda sul potere, sul successo e sul denaro, ma sulla cura del fratello, sulla compassione e sulla disponibilità a pagare di persona.
    Gesù continua a chiamare ancora oggi alla sua sequela. La fede in lui si mette in gioco nella capacità di ascoltarlo e di seguirlo. È lui la roccia sulla quale fondare la nostra casa: se un giovane costruisce lì il suo futuro e posa lì le pietre dei suoi sogni, certamente le intemperie del mondo e le avversità della storia non potranno abbattere quanto va edificando (cfr. Mt 7,24-27). Possono soffiare i venti e straripare i fiumi, ma se uno fonda le sue scelte e i suoi giudizi, se costruisce la sua vocazione e le sue relazioni nel rapporto personale con Gesù, può abitare sicuro la casa della sua vita, nella certezza che non cadrà. Qui sta la vera sapienza; anche quella che può desiderare un giovane che diventa adulto per dare forma alla propria personalità e alla propria coscienza.
    San Paolo nella prima lettera ai Corinti raccomanda: «Ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile» (1Cor 3,10-13).

    Le domande al discepolo

    Per riflettere su come noi stiamo costruendo la casa della nostra vita, quella della nostra Chiesa e quella della nostra società, dobbiamo considerare due domande che Gesù rivolge ai suoi discepoli.
    «E voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15). In un momento difficile del ministero di Gesù, mentre i farisei pretendono un segno e i discepoli hanno il cuore indurito e non capiscono ciò che il Maestro compie, Gesù, a Cesarea di Filippo, dialoga con i suoi discepoli e li interroga su ciò che la gente dice di lui; poi, però, li interpella direttamente e vuole da loro una risposta personale. Non basta guardare a Gesù, né conoscerlo per averlo studiato sui libri o per averne discusso al catechismo. Non è un personaggio della storia da analizzare, e la sua parola non è un trattato di filosofia da approfondire. Non basta sapere tutto quello che altri hanno detto a proposito di lui. Occorre, invece, fermarsi e chiedersi: chi è per me Gesù? Cosa centra con la mia vita? Cosa ha a che fare con le mie scelte, i miei criteri di giudizio, la mia valutazione del mondo e dei fatti che mi capitano attorno? Queste sono le domande decisive. Fino a quando non giungeremo a porci queste domande con l’intento sincero di dare delle risposte, potremo dire tante cose su Gesù, potremo impegnarci in tante iniziative nel suo nome, ma non saremo ancora giunti ad incontrarlo e a credere in lui, non saremo ancora giunti a fondare la nostra vita sulla sua, cioè sulla roccia. La nostra fede rimarrebbe fragile, incerta, precaria.
    La nostra fede in Gesù, ricevuta, coltivata e praticata dentro la Chiesa è una fede personale che esige una relazione profonda e fedele con lui, nell’ascolto attento della sua Parola, nella preghiera perseverante, nell’incontro con lui nei sacramenti, nella testimonianza mediante la carità. Più una relazione è profonda, desiderata, attesa e più le si dedicheranno del tempo e delle energie: solo così quella relazione potrà trasformare la nostra esistenza e plasmare lo stile dei nostri giorni.
    I padri del deserto amavano raccontare questo aneddoto per esprimere la possibilità di seguire Gesù con coraggio e di essergli fedeli nel tempo: «Fu chiesto a un anziano come possa un monaco vigilante non rimanere scandalizzato quando vede qualcuno ritornare nel mondo. Quello rispose: "Bisogna osservare i cani che cacciano le lepri: come uno di essi vede una lepre, la insegue finché non la raggiunge, senza lasciarsi sviare; gli altri invece guardano semplicemente il cane che insegue e corrono con lui per un po', quindi ci ripensano e tornano indietro. Solo quello che ha visto la lepre la insegue fino a raggiungerla, senza lasciarsi sviare dalla mèta a motivo di quelli che sono ritornati indietro, né dalla preoccupazione dei precipizi, dei rovi o delle spine. Così anche colui che cerca Cristo, il Signore, fissando incessantemente la croce, supera tutti gli ostacoli che gli si oppongono, finché non abbia raggiunto il Crocifisso"»[5].
    «Pietro mi ami tu?» (Gv 21,15). Questa domanda che Gesù ha rivolto a Pietro sulle rive del lago di Galilea, dopo la sua risurrezione, è una domanda che interpella ciascuno di noi. Conoscere Gesù e scegliere di seguirlo è possibile nella misura in cui un uomo impara a volergli bene; è l’unica strada che consente una scelta sincera e coerente, una decisione vera e capace di improntare lo stile di vita e trasformare una persona. Professare la fede in Gesù significa giungere a dire ripetutamente, in diverse stagioni della vita: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21,15). Questa dichiarazione assumerà uno spessore diverso a seconda dei momenti in cui verrà pronunciata: nell’adolescenza, nella giovinezza, prima di una scelta vocazionale definitiva, nell’età adulta o al termine della nostra esistenza. La fede, ultimamente, è il coraggio di esprimere questa adesione d’amore. Da lì, come per Pietro, anche per noi si rinnova la decisione della sequela.
    Amare Gesù, nella fede e nella sequela, è, per un giovane, il segreto di una vita riuscita; è la via per fare dei propri giorni un cammino verso la bellezza e la gioia. Un giovane, diventando adulto e cercando il proprio posto nella società, ha bisogno di modelli affidabili e di punti di riferimento sicuri. Spesso, oggi, la generazione adulta non offre immagini incoraggianti; spesso dal mondo della politica, dello spettacolo, dello sport, dell’economia, non si propongono modelli di vita perseguibili e stimabili. A volte un giovane si trova di fronte una generazione adulta incapace di incoraggiare il “diventar grandi” in modo onesto, serio, maturo. A volte l’età adulta e il tempo delle scelte definitive non si manifestano come una stagione buona e promettente; anzi, sembrano essere segnati dalla perdita di libertà, di autonomia, di spensieratezza: tanti comportamenti e stili giovanilistici da parte di persone adulte lo insinuano continuamente. Ecco allora la necessità di un modello di vita credibile e promettente: Gesù è questo modello da imitare.
    Un giovane può realmente guardare a Gesù e trovare in lui i tratti fondamentali da far propri per costruire una vita solida e felice. Guardiamo a Gesù che ha scoperto e vissuto la vocazione nella fedeltà e nella radicalità, che ha coltivato un rapporto intimo con il Padre nella preghiera e nella confidenza; guardiamo a Gesù che ha amato in modo sincero e disinteressato. Possiamo fare nostri il suo stile di incontro con le persone, la sua capacità di parlare al cuore, la sua vicinanza agli ultimi. Possiamo fare nostri la sua passione per la giustizia e la solidarietà, la sua vicinanza agli ultimi e ai poveri, il suo impegno contro ogni forma di disonestà ed ipocrisia. Guardiamo a Gesù che ha amato e servito l’umanità fino al dono totale di sé; e la sua vita è stata una vita davvero riuscita. Dare fiducia a lui e imitarlo nella nostra quotidianità non ci deluderà.
    Concludo, allora, con alcune parole di sant’Ambrogio: «Tutto è per noi Cristo. Se desideri medicare le tue ferite, egli è medico. Se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice. Se sei oppresso dalla colpa, egli è la giustizia. Se hai bisogno di aiuto, egli è la forza. Se temi la morte, egli è la vita. Se desideri il cielo, egli è la via. Se fuggi le tenebre, egli è la luce. Se cerchi il cibo, egli è il nutrimento. Gustate, dunque, e vedete quanto è buono il Signore; felice l'uomo che spera in lui»[6].

     

    Terza catechesi
    Testimoni di Cristo nel mondo


    Carissimi giovani,
    l’esperienza della fede nel Dio di Gesù Cristo, che sta accanto a ciascuno di noi ed abita il mondo mediante lo Spirito, il dono di grazia e la scelta libera che rende buona la nostra vita non possono essere ridotti ad esperienza privata. Abbiamo ricevuto il dono della fede dentro la Chiesa: lì lo abbiamo alimentato, sostenuto e lo abbiamo praticato. Questo dono è cresciuto nel confronto con la società e la cultura, con le domande di amici e coetanei non credenti, nei dubbi provocati da prese di posizione della scienza e della cultura. La nostra fede si radica nel mondo, in questo mondo; il mondo nel quale Dio si è incarnato e che Cristo, con la sua Pasqua, ha redento. Ed è proprio nel mondo che anche noi siamo chiamati a praticare e a testimoniare la nostra fede. L’amore che Dio riversa in noi deve traboccare nel tempo e nei luoghi in cui viviamo, altrimenti va perduto: deve essere condiviso e donato, altrimenti si svuota, diventa sterile e secco e non serve più, non è più amore. La fede in Dio è la strada del compimento e della realizzazione della nostra vita nella misura in cui la nostra vita si apre agli altri; altrimenti rischiamo di chiuderci narcisisticamente in noi stessi, di riempirci solo di noi stessi e dunque, in realtà, di rimanere vuoti. Chi invece si lascia plasmare e colmare dalla presenza di Dio non può che contagiare e condividere con altri il dono ricevuto.
    La nostra società, anche quella europea, di forte tradizione cristiana e che nel cristianesimo affonda le sue radici, sembra aver dimenticato questa sorgente e, di fatto, se ne è allontanata: il vangelo di Gesù non orienta i criteri di scelta dei valori; la sua parola non interpreta più il vissuto. Spesso l’uomo contemporaneo sembra presumere di poter fare a meno di Dio, di poter bastare a se stesso e di non aver bisogno della sua verità per plasmare i propri stili di vita, i valori e il futuro delle giovani generazioni e di quelle che verranno dopo. In questa società, distante da Dio e sempre più multiculturale, multireligiosa e multietnica, in questa società globale, ogni cristiano è chiamato ad essere testimone del vangelo e ad attuare il comandamento che Gesù ha consegnato ai suoi prima di tornare al Padre: «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).
    Ogni cristiano è necessariamente un testimone di Gesù e un missionario della sua parola, perché l’amore di e per Cristo e la gioia della sua sequela ci spingono a trasmettere tutto questo ai nostri fratelli e al nostro prossimo. Il tempo nel quale abitiamo ci chiede il coraggio di una nuova evangelizzazione. Ma in che cosa consiste questo compito? Come possiamo evangelizzare il nostro mondo?

    Uno stile affascinante

    La prima via di evangelizzazione è una via spirituale e passa attraverso uno stile di vita autenticamente evangelico all’interno della Chiesa. Prima di elaborare strategie di comunicazione e di efficienza pastorale occorre mostrare un volto di Chiesa bello ed affascinante, realmente vissuto e ricercato. Prima di suscitare negli altri un atteggiamento di fede occorre che ciascuno di noi coltivi con perseveranza un cammino spirituale sincero. I cristiani, innanzitutto, devono riscoprire la bellezza e la centralità di Gesù nella propria vita, e già questo sarà un segno forte per il mondo intero. Un segno che suscita interesse ed ammirazione, che fa sorgere interrogativi e riflessioni e che fa mettere in discussione. L’evangelizzazione deve ripartire da noi stessi: solo quando il nostro cuore è pieno la nostra bocca può traboccare. San Paolo dice: «Ho creduto, perciò ho parlato» (2Cor 4,13).
    Gesù, nel cenacolo, dopo l’annuncio del tradimento di Giuda ha detto ai suoi discepoli: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Il primo modo, dunque, di far conoscere che siamo discepoli di Gesù è quello dell’amore reciproco. Provate a pensare se un non credente, o una persona alla ricerca di Dio, osservando la Chiesa ed i cristiani potesse esclamare: «Guarda come si vogliono bene! Tra loro c’è proprio qualcosa di speciale!». Sarebbe davvero straordinario, sarebbe un evento dello Spirito; e in quella persona stupita sorgerebbe il desiderio di comprendere la ragione e la sorgente di questo amore reciproco. Spesso invece anche la Chiesa stessa è minacciata da divisioni e gelosie, e non sempre siamo capaci di mostrare la bellezza della fede in Gesù e della vita cristiana. Le nostre comunità sono in affanno, guardano nostalgicamente a un passato che non c’è più e che magari viene ingenuamente idealizzato, e si sentono frustrate per l’inefficacia di tanti sforzi e per il venir meno di collaboratori disponibili. La nostra fede, a volte, sembra essere un peso, un limite, e la sosteniamo con fatica; non si mostra come un dono che riempie la vita, e quindi, se viene vissuta e percepita in questo modo, non può attirare chi non crede.
    La prima comunità cristiana di Gerusalemme, colma dello Spirito santo ricevuto nella pentecoste, aveva uno stile di comunione, di condivisione, di preghiera e di gioia, nonostante le prove e le avversità, tale per cui godeva «il favore di tutto il popolo» (At 2,47; 4,33) e, addirittura, «il popolo li esaltava» (At 5,13); per questo il libro degli Atti degli Apostoli sottolinea ripetutamente che il Signore, ogni giorno, aggiungeva alla comunità nuovi discepoli. I primi cristiani sapevano contagiare con il loro entusiasmo, ma non con il fanatismo, le persone che incontravano e che li stavano ad ascoltare. Certamente, ancora oggi, una Chiesa più libera e leggera, più fraterna e solidale, più disponibile all’ascolto e sincera, potrebbe contagiare molte persone che sono alla ricerca di una parola di speranza e di un segno di misericordia. Certamente, ancora oggi, comunità cristiane capaci di camminare insieme, dentro il presente, verso il futuro, nella fatica di passaggi difficili e di cambiamenti importanti, potrebbero trasmettere alla società il messaggio e la grazia sempre nuovi del vangelo.
    Un racconto riportato in un libro ebraico del XVIII secolo narra di un giovane che voleva diventare fabbro. «Si fece apprendista di un fabbro e imparò tutte le tecniche del mestiere: come impugnare le tenaglie, come sollevare la mazza, come battere sull'incudine, come ravvivare il fuoco con il mantice. Terminato il periodo di apprendistato, fu chiamato a lavorare in una fucina del palazzo reale. Ma la soddisfazione del giovane finì presto quando si accorse che non era riuscito ad imparare come far scoccare la scintilla. Tutte le sue capacità e abilità nel maneggiare gli strumenti non gli furono di alcun giovamento».[7] Per evangelizzare, oggi, non basta conoscere le tecniche e possedere i più veloci sistemi di comunicazione e di contatto, non basta organizzare eventi con grandi risonanze mediatiche, non serve essere economicamente e politicamente forti. Occorre imparare a far scoccare la scintilla!

    Responsabili del mondo davanti a Dio

    Il compito di essere testimoni di Cristo nel mondo diventa praticabile nella misura in cui in ciascuno crescono non solo l’affidamento a Dio e la coerenza nella sequela di Gesù, ma soprattutto un vero amore per l’umanità intera e una passione sincera e intensa per il bene di tutta la terra. Portare Cristo agli altri è un dono che ci chiede impegno, coraggio, anche una certa lotta interiore; e diventa possibile nella misura in cui vogliamo davvero bene agli altri: tutti noi desideriamo condividere con le persone che ci sono care le gioie più grandi e i beni più preziosi che possediamo. Se non c’è stima per questo tempo e per le persone che lo abitano, così come essi sono, se non ci sta a cuore il loro futuro, non potremo mai parlare di evangelizzazione. Proprio perché crediamo che l’uomo contemporaneo è degno di ammirazione e di cura possiamo mettere in gioco la parola del vangelo.
    Allora comprendiamo che prima di portare Gesù nel mondo dobbiamo portare il mondo davanti a Gesù. La nostra preghiera deve essere sempre una preghiera universale e capace di intercessione per tutti gli uomini e tutti i popoli; ed è una preghiera che nasce prima di tutto perché il mondo ci sta a cuore, e non per far sì che il mondo la pensi come noi. «L’evangelizzazione cristiana ci chiama a vivere di Dio nel mondo perché il mondo si apra a Dio. Bisogna quindi nello stesso tempo soffrire la chiusura radicale a Dio, che fa parte della logica del mondo, e partecipare all’instancabile apertura di Dio al mondo, che si compie nella persona e nel mistero di Gesù Cristo».[8] Cresce in noi, dunque, la certezza che questo tempo e questo mondo sono un tempo e un mondo buoni per annunciare la bella notizia del vangelo. C’è in noi la certezza che, nonostante tutto, l’uomo contemporaneo è assetato e bisognoso della verità di Gesù che dà pienezza e dignità ad ogni persona e compimento alla storia.
    Dio, che nell’atto creatore ha posto l’uomo nel giardino di Eden «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15), ci ha reso responsabili non solo della natura e dell’ambiente, ma della terra e dei suoi abitanti nella sua integrità. Dio ci ha affidato il mondo perché ne diventassimo amministratori e abitatori responsabili e perché ne garantissimo la permanenza nell’alleanza con lui. Infatti a Caino, immediatamente dopo l’uccisione del fratello, Dio chiede: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). Anche a noi il Signore chiederà conto dei nostri fratelli e della nostra terra: sostenere la passione evangelizzatrice significa alimentare la cura e la responsabilità per ogni uomo ed ogni donna; anche chi è lontano, indifferente, anche chi si mostra ostile e sembra nemico. L’amore che evangelizza, nel nome di Gesù, è un amore che innanzitutto sa prendersi cura dell’altro, nell’ascolto, nel dialogo, nella solidarietà, e se occorre anche nella sofferenza e nel perdono delle ingiustizie subìte.
    «Alla luce della fede, il rapporto tra Chiesa e società, tra Chiesa e mondo, è all’insegna di una mutua collaborazione e compenetrazione. […] Così può e deve essere per tutti i cristiani, che il Signore Gesù, tornando al Padre, non ha voluto togliere dal mondo, ma ha lasciato nel mondo (cfr. Giovanni 17,15). Li ha lasciati perché restassero dentro la società degli uomini, condividendo con tutti gli altri le stesse esperienze e la stessa vita, ma senza perdere il loro sapore e la loro capacità di diffondere luce. Non ci è lecito fuggire dal mondo. Sono la stessa fede cristiana e la sequela di Gesù a ributtarci nel mondo e a esigere che rimaniamo dentro ogni piega della storia e della società per portarvi il sapore e la luce di Cristo».[9]
    Frère Christian de Chergé, priore del monastero di Nôtre-Dame dell’Atlas a Tibhirine, in Algeria, martirizzato con altri sei confratelli nel maggio del 1996 da presunti integralisti islamici, scriveva all’inizio della Quaresima dello stesso anno: «Dobbiamo trovare nell’incarnazione le vere ragioni della nostra presenza pasquale in Algeria. […] Dopo che un gruppo armato ci ha fatto visita a Natale, un abate cistercense ci ha scritto: “L'ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci”. Il coraggio del quotidiano è quello che ci prende più alla sprovvista. Uno studente africano, tornato al suo Paese durante l'estate, ha chiesto a suo nonno se, secondo lui, avrebbe dovuto tornare in un'Algeria che conosce una crisi violenta. Risposta del nonno: “Dove bisogna lottare per vivere, là devi essere, perché è là che approfondirai la tua vita”. Come vivere questo mistero dell'incarnazione? […] Dobbiamo essere testimoni dell'Emmanuele, cioè del “Dio-con”. C'è una presenza del “Dio tra gli uomini” che proprio noi dobbiamo assumere. È in questa prospettiva che cogliamo la nostra vocazione a essere una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono la vita di musulmani, di algerini nella preghiera, il silenzio e l'amicizia. Le relazioni chiesa-islam balbettano ancora perché non abbiamo vissuto abbastanza accanto a loro. Dio ha tanto amato gli algerini che ha dato loro il suo Figlio, la sua Chiesa, ciascuno di noi».[10]

    Il cuore dell’annuncio

    In un contesto culturale che alcuni filosofi e sociologi definisco «post-cristiano» o «neopagano», o addirittura «politeista», il compito del discepolo che testimonia il vangelo non è quello di far valere le proprie ragioni come fossero più forti di altre, né quello di fornire semplicemente un servizio religioso o vendere un prodotto per il benessere di un generico bisogno spirituale. Dentro le sfide contemporanee il cristiano che si fa testimone è colui che, nell’umiltà e nella semplicità, torna all’essenziale: l’essenziale del cuore e dello stile, dei contenuti e della forma. Questo essenziale è Gesù Cristo: non una dottrina, un elenco di precetti, una strategia sociale o politica, ma una persona. La sua parola non è un trattato filosofico o pedagogico da studiare o disquisire, ma un evento incarnato, capace di plasmare e trasformare la vita dell’uomo e quella del mondo.
    I documenti del Concilio Vaticano II, il magistero della Chiesa in questi anni, e in modo particolare quello di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sono ricchi di riflessioni e di esortazioni alla nuova evangelizzazione. Dalle loro parole comprendiamo che la nuova evangelizzazione significa ripartire da Gesù Cristo, tornare alla sua scuola, come i suoi primi discepoli, per conoscerlo, amarlo e seguirlo. Scoprendo Gesù come l’essenziale troviamo il volto vero di Dio e dell’uomo, il senso ultimo della storia e la verità che dà forza alle sfide della vita. Dentro molte incertezze esistenziali, tra tante confusioni e superficialità, Gesù è il tesoro che custodiamo in vasi di creta, come insegna san Paolo (cfr. 2Cor 4,7); è come la perla preziosa nascosta in una conchiglia. Siamo consapevoli della fragilità delle nostre persone, della pochezza delle nostre strutture, dei limiti dei nostri mezzi, ma siamo altrettanto certi della preziosità di Gesù che ci apre alla trascendenza e che ci manifesta la mèta dell’eternità. È lui il centro della nostra vita e da lui vogliamo ripartire: nel suo orizzonte infinito collochiamo le nostre decisioni e comprendiamo il nostro destino. Guardiamo con fiducia ai problemi che dobbiamo sostenere, non ci scoraggiamo per le fatiche e affrontiamo con coraggio le delusioni: Gesù e la sua parola saranno il cuore della nostra evangelizzazione; il resto viene dopo.
    Gesù è l’essenziale del nostro annuncio, e lo stile che facciamo nostro in questa missione è altrettanto essenziale. La prima coerenza che siamo chiamati a dimostrare è quella tra il contenuto e lo stile dell’annuncio: Gesù, inviando i suoi discepoli a predicare e a curare i malati, li ha esortati ad agire nell’assoluta gratuità, senza procurarsi né oro, né argento, né denaro, senza portarsi due tuniche, sandali o bastone, nella consapevolezza di essere come pecore in mezzo ai lupi (cfr. Mt 10). Anche oggi il testimone di Gesù deve custodire questa stessa sobrietà, perché essa è il primo modo per dire che la nostra vera ricchezza è Gesù stesso, che è lui, non noi stessi, che mettiamo al centro.
    In questi ultimi anni, soprattutto tra i giovani, i mezzi di comunicazione, internet, i social network hanno acquisito una dimensione globale: in tempo reale ci permettono di essere in contatto personale, e virtuale, con molte altre persone. È diventato facile raggiungere gente anche molto lontana, è diventato immediato stabilire dei contatti e chiedere “amicizia”. Questi strumenti sono preziosi e aiutano l’incontro, spesso vincono tante solitudini, e dunque non sono in sé negativi; ma non possono sostituire un vero contatto personale, un incontro a tu per tu, una relazione forte. All’intensità degli incontri e alla quantità di relazioni non sempre si affiancano una profondità dei legami e una durata del rapporto: basta poco per cancellare un’amicizia. L’annuncio dell’incontro con Gesù e la relazione con lui domandano profondità e fedeltà, onestà e rispetto reciproco, vicinanza fraterna e solidale. Per questo dobbiamo imparare ad usare tutti gli strumenti utili all’evangelizzazione, ma dobbiamo farlo in modo evangelico e coerente: non possono mai sostituire la relazione personale, né possono essere usati in modo ingiusto e scorretto; non vanno assolutizzati come fossero la soluzione di tutte le difficoltà. La buona notizia del vangelo, incarnata nella storia di Gesù, è la cura di Dio per ogni uomo: questa deve essere sempre la mèta da raggiungere, questo è il centro da non dimenticare, l’essenziale che non può mai essere nascosto da nulla; nemmeno dalle nostre buone intenzioni, dai nostri sforzi o dai nostri affanni.
    Padre Pino Puglisi, sacerdote palermitano assassinato dalla mafia nel 1993, insegnava ai suoi ragazzi: «Venti, sessanta, cento anni... la vita. A che serve se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo Amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».

    I confini dell’annuncio

    L’annuncio del vangelo è il compito essenziale della Chiesa e di ogni battezzato. Chi incontra Gesù, sta con lui e lo segue, ne resta talmente affascinato e viene talmente travolto dal suo amore che ne diventa immediatamente testimone, proprio come hanno fatto i primi discepoli (cfr. Gv 1,35-51) e come continuano a fare, ancora oggi, molti uomini e donne nella Chiesa. Le figure di santi e di beati, i molti martiri vicini a noi nel tempo e nell’appartenenza ecclesiale, sono un esempio concreto che ci dice la possibilità e la praticabilità della testimonianza evangelica.
    Il compito di essere annunciatore di Gesù per un giovane comincia nell’ambito delle sue relazioni familiari, amicali ed affettive, e nell’ambito dei suoi impegni e del suo stile di vita di fronte allo studio e al lavoro. Testimoni di Gesù nella quotidianità: qui è importante coltivare un atteggiamento capace di dire la verità del vangelo e di costruire un mondo più giusto e migliore; qui si apre la possibilità di logiche diverse nei rapporti con le persone, di criteri diversi nel giudicare il mondo, di valori diversi nel compiere le scelte. La testimonianza cristiana parte dal coraggio di scegliere nella vita ciò che è vero e non principalmente ciò che produce profitto, parte dal desiderio di avere uno sguardo sul mondo che non si conformi alle opinioni predominanti o interessate, parte dalla volontà di costruire il bene comune e non di mettere al centro solo se stessi.
    Per questo un giovane che rende testimonianza al vangelo camminerà insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle, dentro la comunità cristiana, per essere segno di profezia tra i poveri, i lontani, gli emarginati, gli ultimi e coloro che non credono. Il nostro tempo è ferito ancora da discriminazioni e da intolleranze, da soprusi e da ingiustizie. La solitudine minaccia molte persone, di tutte le età, la precarietà del lavoro genera l’incognita sul futuro, l’essere straniero in una terra lontana dalla propria casa crea marginalità. Il testimone di Gesù ha a cuore l’uomo, ogni uomo nella sua integrità, perché Gesù è venuto a portare una buona notizia ai poveri (cfr. Lc 4,16-30), ai prigionieri e agli oppressi. L’evangelizzazione è questa buona notizia.
    Un giovane che alimenta la passione dell’annuncio di Gesù è un giovane che si educa a discernere i segni dei tempi, ad interpretare quanto succede nella politica, nell’economia, nella cultura, nella scienza, nell’arte e in ogni altra espressione creativa dell’uomo; impara ad interessarsi, a conoscere con serietà, a giudicare e possibilmente ad impegnarsi in prima persona in questi contesti importanti per il bene comune. Nel nostro contesto, ormai globale, non solo sotto il profilo economico, è indispensabile che il testimone del vangelo sia un uomo aperto al confronto e capace di dialogo tra generazioni e culture diverse, tra appartenenze etniche, religiose e ideologiche molteplici. Il vangelo ci insegna a vivere dentro un universalismo accogliente e capace di generare integrazione, dentro la certezza che le differenze non vanno eliminate ma devono costituire una ricchezza. Il pluralismo culturale e religioso, gli stili di vita diversi, le origini più disparate non devono essere assimilati e uniformati in un generico ed indistinto conformismo, ma, nel rispetto e nella tutela delle identità, vanno coniugati e armonizzati in modo tale da dare spazio all’incontro e alla convivenza pacifica e reciprocamente rispettosa e arricchente.
    La testimonianza di un giovane cristiano passa poi nella disponibilità generosa al servizio della Chiesa, dentro le proprie comunità cristiane, nelle associazioni e nei movimenti e in ogni espressione ecclesiale. Insieme possiamo costruire una Chiesa capace di mostrare un volto accogliente verso ogni uomo che cerca Dio con cuore sincero, un volto fraterno verso chi è nella solitudine e nel dolore, un volto capace di servizio e di solidarietà verso chi è nel bisogno, un volto affidabile e attraente verso chi ancora non conosce la fede o esita a fidarsi di Gesù. Insieme possiamo cercare di sostenere le sfide nuove e i cambiamenti necessari che possono fare della nostra Chiesa una comunità capace di camminare insieme al mondo e dentro il mondo, perché così ha fatto Gesù.
    Lo Spirito del Signore accompagnerà e sosterrà la nostra missione ed anch’io vorrei sentirmi come il profeta Geremia che interrogato da Dio ha risposto: «Vedo un ramo di mandorlo» (Ger 1,11); vorrei anch’io poter gustare questa visione, il segno di una nuova primavera che germoglia e fiorisce, perché il mandorlo era il primo albero a mettere i fiori al termine dell’inverno; vorrei poter riconoscere sempre i segni del Signore che veglia su ciascuno di noi e sul mondo intero. Voi, cari giovani, che siete radicati e fondati in Cristo e state saldi nella fede, diventate i testimoni di Gesù per una nuova primavera del vangelo, della Chiesa e dell’umanità intera: una primavera promettente di frutti gustosi. Nello stesso tempo, come il mandorlo era il segno della vigilanza di Dio, porto con me la certezza che lo Spirito del Signore continuerà a soffiare con decisione nella Chiesa e nel mondo intero, in ogni cristiano ed in ogni uomo.
    E concludo con un detto dei nomadi Tuareg del deserto che dice: «Al termine della corsa trovi la tenda, quando finiscono le orme trovi l’uomo». L’augurio e il compito che affido a tutti e a ciascuno di voi è che l’esperienza intensa di questa Giornata Mondiale della Gioventù susciti in voi la passione e l’entusiasmo per essere testimoni di Cristo, perché ogni uomo possa trovare nella Chiesa una tenda accogliente, per il ristoro, il riposo, il dialogo e l’amicizia, e possa trovare, incontrando Cristo, il vero volto dell’uomo.

     
    NOTE

    [1] Erri De Luca, Il peso della farfalla, Feltrinelli, Milano 2009, p. 42.
    [2] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, p. 11.
    [3] Abraham Joshua Heschel, Il canto della libertà, Qiqajon, Magnano 1999, p. 67.
    [4] San Gregorio di Nazianzo, Discorso 45, 23-24.
    [5] Collezione anonima Coislin 126 – Nau (N), in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Qiqaion, Magnano 2002, pp. 43-44.
    [6] Sant’Ambrogio, De Virginitate 16,99.
    [7] Abraham Joshua Heschel, Il canto della libertà, Qiqaion, Magnano 1999, p. 93.
    [8] Claude Dagens, Libera e presente. La Chiesa nella società secolarizzata, EDB, Bologna 2009, p. 47.
    [9] Dionigi Tettamanzi, Mi sarete testimoni. Il volto missionario della Chiesa di Milano, Centro Ambrosiano, Milano 2003, pp. 159-160.
    [10] Comunità di Bose (a cura di), Più forti dell’odio. Gli scritti dei monaci trappisti uccisi in Algeria, PIEMME, Casale Monferrato 1997, pp. 176-177.


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