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    Jean D'Ormesson

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    «Il 26 giugno, poco prima di mezzogiorno, mi è successa una cosa che non dimenticherò mai più: sono morto... Sono caduto di schianto nelle braccia di Marie; davanti alla Dogana di mare...». Il narratore – che si chiama O può ritenersi fortunato. Nell'arco dell'esigua «manciata di stagioni» che hanno costituito la sua esistenza, è stato un grande e famoso scrittore, un uomo colto e raffinato, un brillante seduttore; la sua vita è terminata senza sofferenza, tra le braccia di una donna davanti a un panorama di incomparabile bellezza, magico e fatale punto d'incontro tra Oriente e Occidente. Mentre il suo spirito sorvola Venezia per raggiungere la misteriosa sede dell'eternità, ha la ventura di imbattersi in un altro spirito che si chiama A proveniente dalle sconosciute profondità di una lontana galassia (Urql) per conoscere l'universo. Tutto gli è ignoto della Terra e dei suoi abitanti, e per tre giorni O gli sarà di buon grado un'impareggiabile guida nell'affascinante esplorazione della condizione umana. Tre giorni saranno sufficienti. Non sono forse soltanto tre, appunto, gli eventi fondamentali nella storia del mondo? L'esplosione iniziale del big-bang; la comparsa della vita dalla materia; infine l'apparizione dell'uomo, e ciò che questo ha pensato, provato, tentato, prodotto: storia, religione, filosofia, arte, letteratura, tutto riconducibile, in ultima analisi, alla speranza e all'amore... «Esterrefatto e atterrito di fronte all'inverosimiglianza del mondo», A finisce quasi per rimpiangere di non essere uomo, così limitato e così geniale, così insignificante e così grande.
    Svincolato da ogni regola di tempo, spazio e azione, condotto con stile impeccabile, pervaso di brillante erudizione e di scintillante verve, La Dogana di mare è il romanzo "totale" di uno dei maggiori scrittori contemporanei. Spaziando tra passato, presente e futuro affronta temi universali con struggente ironia ed estrosa, gioiosa leggerezza, mettendo in risalto tutte le drammatiche contraddizioni dell'animo umano alla fine del secondo millennio.

    Jean d'Ormesson
    è nato a Parigi nel 1925 da una famiglia di antica nobiltà. Oltre a svolgere un'intensa attività giornalistica e letteraria, ha ricoperto importanti incarichi politico-culturali. Membro dell'«Académie frarmise», è stato direttore del quotidiano Le Figaro. Tra le sue opere, ricordiamo La gloria dell'Impero, A Dio piacendo, Dio vita e opere, Il mio ultimo pensiero sarà per voi, Il vento della sera, Il romanzo dell'Ebreo errante, tutti pubblicati da Rizzoli. 
    È morto il 5 dicembre 2017.

    «Il vantaggio, con la storia, è che si può cominciare da dove si vuole. Non c'è mai inizio, non c'è mai fine. Da qualsiasi posto si parta, in storia, si arriva sempre da qualsiasi posto. Anche senza parlare dei Medici, di Firenze e dei suoi tesori, dei suoi pittori, dei suoi scultori, dei suoi geni d'ogni genere, ciascuno dei quali è un mondo che occuperebbe tutta una vita, Clemente VII, da solo, ti porterà abbastanza lontano. All'indietro, ti farà risalire fino al primo Clemente, che verso il 96, dopo sant'Ireneo ed Eusebio di Cesarea, interviene nelle complicate faccende della Chiesa di Corinto, fino all'origine del papato,fino a Cleto, fino a Lino, fino ovviamente a san Pietro, uno degli apostoli di quel Cristo che è al tempo stesso più che un uomo e il più uomo degli uomini e di cui ti parlerò un'altra volta, quando avremo tempo. In avanti, verso di noi, ti farà discendere fino a Paolo VI, a Giovanni XXIII, a Giovanni Paolo I, a Giovanni Paolo II, il papa con l'accento ruvido, che è venuto dalla Polonia sottomessa al comunismo ed è stato anche il primo a far retrocedere il comunismo.»
    «Il comunismo...?» chiese A.
    «Più in là. Più in là. Cristo. Il comunismo. Ti spiegherò più in là. Non si può fare tutto in una volta. E non mi interrompere in continuazione. Non finiremmo più. Conosci già gli ombrelli, la Dogana di mare, l'Iliade e l'Odissea, il pennello di Michelangelo e la rue du Dragon. Eccoti entrato, senza saperlo, nel formidabile labirinto della Chiesa cattolica e romana e del papato, la più vecchia e la più lunga, insieme con il Celeste Impero cinese, di tutte le istituzioni mai create dagli uomini. Non ti sarà facile uscirne. È come un interminabile gomitolo di cui hai tirato il primo filo. E tonnellate di lana e di seta ti rovinano sulla testa. C'è un Clemente IV, che si chiama Gui Foulques le Gros e che è nato a Saint-Gilles nel Gard, C'è un Clemente V, che si chiama Bertrand de Got ed è nato in Gironda. C'è un Clemente VI, che si chiama Pierre Roger ed è nato nei pressi di Limoges e, prima di diventare papa ad Avignone, è stato arcivescovo di Sens e poi di Rouen. È fastoso e spendaccione, compra Avignone, negozia con l'imperatore di Germania e con il re d'Inghilterra, a Roma sconfigge Cola di Rienzo, il figlio di un oste spinto alla rivoluzione dal disprezzo dei potenti e celebrato da Petrarca come il successore di Bruto, ottiene la sottomissione di Guglielmo di Occam, francescano nominalista, professore a Oxford, celebre per il suo rasoio...»
    «Quale rasoio?» chiese A.
    «Non lo so» risposi. «Tutti hanno sentito parlare del rasoio di Occam, ma nessuno sa che cosa sia... il quale, separando radicalmente la ragione dalla fede, non riconosceva al papa alcun potere temporale e, nel bel mezzo della peste nera, una brutta malattia che imperversava a quel tempo, prende le difese degli ebrei che la gente, un po' dovunque, considerava responsabili dell'epidemia. Un centinaio d'anni prima del nostro, c'è perfino, ad Avignone, un altro e primo Clemente VII. Si chiama Roberto da Ginevra ed è un antipapa, opposto a Urbano VI. Segna l'inizio del grande scisma d'Occidente che doveva durare trentanove anni, dal 1378 al 1417.»
    «Aiuto!» esclamò A. «Un Clemente, passi, sette Clementi...»
    «Aspetta un momento» dissi. «Ecco l'inizio del tunnel. Il nostro Clemente VII, un papa vero, stavolta, e che sta a Roma, come si deve, è il cugino di Leone X, secondogenito di Lorenzo il Magnifico, cardinale a tredici anni, papa nel 1513, che...»
    «Basta così» mi pregò A. «Ti dispenso da Leone X.»
    «Come vuoi» dissi un poco bruscamente. «Pensavo che il più maestoso dei papi del Rinascimento - a cui succederà quello che per molto tempo resterà l'ultimo dei papi non italiani, un fiammingo, nemico del lusso, che si chiamava Adriano - ti avrebbe potuto interessare. Mi accorgo di no. Non hai la testa abbastanza solida. Non fa niente. Sbrighiamoci. Al galoppo. Tagliamo corto. Badiamo solo all'essenziale. E tanto peggio per la relazione che comincio a domandarmi, ma io non c'entro niente, se non sarà spaventosamente incompleta e un po' deludente per gli abitanti di Urql che vi cercheranno invano il nome di Leone X. Clemente VII è arcivescovo di Firenze prima di essere eletto papa il 18 novembre 1523. Sarà lui che, più tardi, rifiutandosi di riconoscere il divorzio di Enrico VIII, si troverà all'origine dello scisma della Chiesa d'Inghilterra.»
    «È importante?» chiese A.
    «Tutto quello che riguarda la religione è sempre importante e l'idea che gli uomini si fanno di Dio è costata tanto sangue quanto l'idea che si fanno di loro stessi e della loro felicità futura. E mi sembra che gli inglesi siano molto più inglesi di quanto non siano francesi i francesi e italiani gli italiani. Intanto, con Francesco I, col re d'Inghilterra e coi principi italiani costituisce la Lega Santa contro l'imperatore Carlo V. Gli imperiali s'impadroniscono di Roma nel maggio 1527...»
    «E dagliela!» esclamò A. «Sacco di Roma: 1527.»
    «Sacco di Roma: 1527... devastano la città da cima a fondo e tengono prigioniero il papa per sette mesi in Castel Sant'Angelo, l'antico mausoleo di Adriano...»
    «Un altro papa?» chiese A.
    «No» risposi. «Un imperatore. Un romano. Un successore di Cesare e di Augusto. Uno dei signori di quell'impero che, per. secoli e secoli, si confonderà col mondo. La sua tomba in riva al Tevere, trasformata in fortezza e incoronata da un angelo di bronzo che rinfodera la spada per indicare agli abitanti della Città eterna la fine di una di quelle epidemie di peste che, già nel VI secolo, sotto san Gregorio Magno, fondatore della cristianità medievale, forse il più grande papa di tutti i tempi, che dà il nome al canto gregoriano...»
    «Lascia perdere» mi disse A.
    «... e soprattutto verso la metà del XIII secolo, hanno ammazzato in Europa un abitante su due.
    «Sarai contento di sapere, e di annotare nella tua relazione, che l'angelo pacificatore in cima al vecchio mausoleo di Adriano ha la stessa funzione storica della chiesa della Salute a Venezia, dietro alla Dogana di mare dove ci siamo incontrati. Nel 1631, la costruzione, per ordine della Serenissima, della chiesa di Santa Maria della Salute da parte di un allievo del Palladio che si chiama Longhena e che fa poggiare l'edificio su un milione e mezzo di palafitte di legno, celebra la fine dell'ultima offensiva della peste a Venezia.»
    «Contentissimo» mi disse A.
    Lo guardai di traverso. Per un attimo mi chiesi se non si stava burlando di me. Ma l'idea che uno spirito venuto da Urql per studiare la Terra si burlasse della storia mi sembrò così assurda che decisi di proseguire come se niente fosse.
    «Il sacco di Roma nel 1527 segna al tempo stesso il crollo e il trionfo del Rinascimento italiano. Innumerevoli storici, l'ultimo dei quali è André Chastel...»
    «Mi darai l'esatta ortografia del suo nome,» mi interruppe A «le date della sua vita terrena e una bibliografia più completa possibile.»
    «... hanno sottolineato l'importanza, più per la storia delle arti che per quella militare, della caduta della capitale del mondo occidentale: la catastrofe avrebbe allontanato dalle rive del Tevere e indirizzato verso tutta una serie di città di media importanza che si stavano sviluppando, talvolta già con magnificenza, in Toscana, in Umbria, nella pianura lombarda, pittori, scultori, architetti, orafi chiamati a diffondere un po' dovunque gli splendori e il genio del Rinascimento italiano. Così, in questo mondo che la relazione richiesta dalla gente di Urql prende in esame, il bene nasce dal male come il male nasce dal bene.»
    «Aspetta un po'» mi disse A «che me l'annoto.»
    «Se, nelle ore che ci restano dei tre giorni di cui disponi, tu dovessi conoscere una sola città di questa Terra, ti porterei senza esitazione a Roma. Roma è come il riassunto della storia universale. Nasce nella leggenda - Romolo e Remo, l'antica cinta del Palatino, la serie dei re etruschi - contestata nel secolo scorso dalla critica dei testi e invece ai giorni nostri confermata dall'archeologia che sostiene il contrario della filologia. A poco a poco si gonfia fino a dominare il mondo conosciuto e, per un migliaio di anni, regna sull'universo che a quel tempo ruota attorno al centro delle armi, delle ricchezze, degli spiriti e delle leggi: il Mediterraneo. Per quasi altri mille anni ripiomba nel nulla e, passata da più di un milione a tre o quattro decine di migliaia di abitanti, Roma non è più altro che la conchiglia vuota del suo passato splendore. Fino a quando il Rinascimento e il genio dei suoi papi non la riportano di nuovo, a forza di audacia e di pazienza, a essere la prima tra le città in cui si fabbrica la storia a furia di capitani, di giuristi, di architetti, di scrittori.
    «Roma non è stata presa spesso dai suoi nemici. Le cadute di Roma si contano sulle dita delle mani. Carlo V se ne impossessa nel 1527...»
    «Sacco di...» riprese A.
    «Sì» lo bloccai «e Napoleone e Hitler occupano la Città eterna per i brevi anni in cui l'Europa è prima francese e poi tedesca. Ma né Annibale, né Attila, né Federico II di Hohenstaufen, né nessun altro dei padroni di quella formidabile costruzione che s'intitola orgogliosamente il Sacro Romano Impero germanico riesce ad aver ragione dei sette colli dominati dal Campidoglio. Nel corso di tutta la storia della Città eterna, soltanto i Galli, i Normanni, Alarico e i Barbari che lo seguono a frotte, Carlo V, i due Napoleoni - il grande e suo nipote - e il Führer Adolf Hitler vedono le loro truppe accamparsi ai piedi del Campidoglio.
    «Tutte le leggende e gli aneddoti che questi assalti si trascinano dietro - dalle oche del Campidoglio al Vae victis dei Galli di Brenno fino alla fragile e commovente grazia del re di Roma, dal fuoco sacro spento nel 410 da Alarico e dai suoi Visigoti fino alla distruzione della chiesa di san Clemente, a due passi dal Colosseo, nel 1804, a opera dei Normanni di Roberto Guiscardo, chiamati in aiuto contro Enrico IV di Germania dal papa Gregorio VII - riempirebbe più volumi di quanti ne potrebbero scorrere tutti i dotti del pianeta Urql. Il solo sacco di Roma...»
    «Francamente,» mi interruppe A «questo sacco comincia a...»
    «È la storia» dissi «... ci terrebbe col fiato sospeso per mesi e per anni. Ci dovremo accontentare di segnare nella relazione il nome del generale che, sotto le mura di Roma, comandava le truppe di Carlo V. Ma scommetto che, sotto questa valanga di guerrieri e di papi, te lo sei già dimenticato.»
    «Mi prendi per uno stupido? Era il conestabile di Borbone.»
    «Tanto di cappello! Ma questo conestabile di Borbone... Accidenti! È come le sensazioni di Marie sotto l'ombrello di seta nera della rue du Dragon. Ci rimanda al mondo intero. A ventiquattr'anni riceve la spada di conestabile dalle mani del re di Francia. Ha venticinque anni nella battaglia di Marignano dove dà prova di un coraggio che diventa presto leggendario. Conte di Montpensier, di Forez, di Mercoeur e di Clermont, delfino d'Auvergne, principe di sangue, a capo di possedimenti immensi, qualche giorno dopo la battaglia di Marignano ottiene il titolo di vicerè del Milanese. "Se avessi un suddito simile" dice a Francesco I Enrico VIII d'Inghilterra poco dopo il campo del Drappo d'oro "non gli lascerei a lungo la testa sulle spalle." Non è impossibile che Luisa di Savoia, la madre di Francesco I, si sia innamorata di lui e che lui si sia ostinato a respingere i suoi approcci. Spogliato dei suoi beni per una ragione o per un'altra, passa al servizio di Carlo V che è il nemico di Francesco I e il re fa dipingere in giallo - era il colore dei traditori - il pesante portone di legno del suo palazzo a Parigi. La sera di una battaglia di cui ti risparmio il nome, s'imbatte, per sua disgrazia, in Bayard, il cavaliere modello senza macchia e senza paura, che sta per morire. Coperto di sangue, appoggiato a un albero, Bayard, al momento di spirare, rinfaccia la sua condotta al conestabile rinnegato ed esalta l'idea di patria. È un'immagine che ha cullato a lungo i ragazzi del mio Paese, così come il vaso di Soissons, le brache che re Dagoberto si era messo a rovescio, il pennacchio bianco di Enrico IV, "lo Stato sono io" di Luigi XIV, Danton che, dalla tribuna della Convenzione nazionale, grida: "Audacia, ancora audacia, sempre audacia!" e i soldati di Verdun sotto gli obici del Kaiser.»
    «Sono luoghi comuni?» mi chiese A.
    «Forse. Ma anzitutto delle immagini, dei racconti e forse già quasi degli abbozzi di romanzi. Tre anni dopo l'incontro con Bayard moribondo, nel momento in cui si lancia su per la scala che ha innalzato contro le fortificazioni, il conestabile di Borbone viene ucciso a sua volta sotto le mura di Roma, un po' prima della caduta e del sacco della città, da un colpo d'archibugio sparato dai bastioni. E chi aveva sparato quel colpo d'archibugio in quel bel mattino del 1527? Te la do a cento, te la do a mille.»
    «Non vado matto per gli indovinelli» mi disse A stizzito.
    «A credere alle sue Memorie, era un avventuriero di genio, un amico di Clemente VII e di Francesco I, un gigante al pari dei maggiori, scultore, orafo, scrittore e soldato di cui ancor oggi chiunque può andare a vedere a Firenze, nella Loggia dei Lanzi, sulla piazza della Signoria, a due passi dagli Uffizi, la famosa statua di bronzo che rappresenta Perseo che regge la testa di Medusa. Portava il bel nome di Benvenuto Cellini.»
    «Con due l?» chiese A.
    «Con due l. Va detto che aveva tanta fantasia quanto genio e che mentiva spudoratamente. A succedere al nostro conestabile alla testa degli eserciti imperiali che stanno assediando Roma, a impossessarsi di Castel Sant'Angelo, a imporre a Clemente VII le più dure condizioni e a lasciare che i lanzichenecchi saccheggino da capo a fondo la capitale dell'universo è un altro francese, Philibert de. Chalon, principe d'Orange. Così, per almeno tre volte in meno di due millenni, malgrado le oche che gracidavano, i fulmini dei papi e le rodomontate degli orafi piazzati sui bastioni, quelli del mio Paese...»
    «Come hai detto che si chiama... ?» mormorò A.
    «La Francia» risposi «... laggiù, verso ovest, là dove tramonta il sole sul vecchio continente,... hanno devastato Roma: Brenno coi suoi Galli, Roberto Guiscardo coi suoi Normanni, Philibert de Chalon coi suoi lanzichenecchi dall'accento tedesco. Hanno distrutto Roma con più successo e più convinzione di tutti i Vandali e di tutti i Visigoti che sognavano soprattutto di integrarsi a un Impero di cui li affascinava la grandezza e di cui invidiavano le ricchezze.»
    «Uffa!» sbuffò A. «Se andassimo a bere qualcosa?»
    Diventava uomo, ogni istante di più.

    (Jean D'Ormesson, La dogana di mare, Rizzoli 1994, cap. IX «Il sacco di Roma», pp. 49-54)


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