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    Parole di scuola

    Mariapia Veladiano

     parolediscuola

    Nomi di scuola

    I nomi sono parole che hanno uno statuto particolare. Raccontano una storia di famiglia, o di popolo, o di desiderio, o di speranza. C'è il nome di un nonno che dice continuità con una storia. C'è quello di un santo, di un personaggio storico, di un amico amato, quanti nomi di figli persi prematuramente, un tempo si davano al figlio successivo. Una vita caricata di una storia consegnata.
    Tutti i nomi raccontano una storia. Anche quando non la conosciamo. Quando i bambini non la conoscono.
    E questa storia a volte si costruisce a pezzettini sotto i nostri occhi, con varianti impensate rispetto al passato. Oggi troviamo non più solo nomi di nonni e zie che raccontano storie che possiamo immaginare. Arrivano i nomi del mondo.
    Nella tradizione araba ci sono dei precetti sui nomi: «Nel giorno della resurrezione sarete chiamati con il vostro nome e con il nome dei vostri padri, scegliete dunque bei nomi».
    Oggi i nomi arrivano a scuola con suoni nuovi che quasi non si possono pronunciare. Il nome pronunciato e conosciuto è il primo passo dell'integrazione. Perché chiamare per nome significa vedere e riconoscere. Con i nomi che arrivano si può fare di tutto.
    Intanto pronunciarli bene, farsi insegnare come, non permettere che vengano semplificati, italianizzati, storpiati, troncati. Non confondere il nome proprio con il nome di famiglia, come fa la burocrazia, che ci consegna tre fratelli e due hanno lo stesso cognome e il terzo ha il cognome dei fratelli come nome e ci viene un sospetto e chiediamo al padre che ci spiega che sì, i figli sono arrivati in Italia in momenti diversi e la questura ha sbagliato per il terzo, ha invertito nome e cognome e ora rimediare è impossibile. E non sappiamo fare altro che rimediare nella vita d'aula, almeno a voce che il nome sia giusto e ci chiediamo cosa significhi andare in Congo noi ed essere chiamati per nome Rossi invece che Paolo, o Piffer invece che Flavio.
    I nomi del mondo a scuola possono essere raccontati. E il racconto del nome dice il racconto di un popolo e una storia. E scoprire i nomi vuol dire trovare tratti di bellezza inattesa. E amici.
    Amina è «colei che dice la verità», era il nome della mamma di Maometto, per questo è diffusissimo. C' è il corrispondente Vera in italiano. E possiamo far famiglia con questi nomi.
    Aisha significa «viva», era la terza moglie di Maometto. Anche qui c'è un corrispondente italiano, Viviana.
    Anche i nostri nomi hanno un significato che spesso non sappiamo, come «Dario», nome di re persiani, che significa «colui che possiede il bene». O Emanuele, che significa «Dio con noi», o Michele, «chi è come Dio?».
    Poi c'è Muhammad. Dice la raccomandazione del Profeta: «Colui che chiama il proprio figlio Muhammad per amore mio e per attirare la mia benedizione su quel bambino, entrerà in paradiso con lui». Muhammad vuol dire «molto lodato» ed è il nome più diffuso al mondo. «Ma si chiamano tutti così», qualcuno dice con disprezzo. Da noi il nome più diffuso è Francesco. Specularmente altri potrebbero pensare «Si chiamano tutti Francesco». E allora?
    Un po' di nomi: Jamal vuol dire «bellezza». Come Rebecca, «colei che piace». Sufyan, «colui che cammina velocemente». Karim è «generoso», è un nome del Profeta. Esiste anche al femminile, Karima.
    Nauras significa «gabbiano». Faiza vuol dire «vincitrice».
    Hadi è «tranquillo». Questa è una famiglia siriana, arrivata a dicembre fra le montagne del Trentino.
    Kanchi Kavita significa «poesia della città sacra». Viene dall'India, porta i lineamenti del nome suo.
    C' è un potere nel nome. In molti modi il nome disegna le nostre vite. Queste nostre aule piene di nomi nuovi portano il mondo vero accanto a noi, non quello che da spettatori vediamo vicino chissà dove dalla televisione.
    Sanaa significa «splendore».
    Sakura significa «fiore di ciliegio».
    Aya è una «donna piena di luce» e il suo nome viene da Soraya che significa «Pleiadi», o «stelle».
    Klea è «gloria».
    Nyame è «splendente».
    Saraswathi è «colei che scorre», nome di una dea, e della vita.
    Hamza è il «leone».
    Edlina significa «limpida».

    Elogio dell'empatia

    Difficile insegnare se non si vive l'empatia nei confronti di chi abbiamo intorno a noi a scuola. Intanto i ragazzi e le ragazze, esperti di dissimulazioni feroci e indispensabili verso il mondo adulto da cui devono rendersi liberi ma del cui riconoscimento hanno necessità. Essere visti per poter essere liberi anche quando e se non sono visti, autonomia di sé che sta in piedi solo se è vera, che nasce dall'essere e sentirsi pieni di valore.
    A una eventuale «storia dell'empatia nella scuola italiana» toccherebbe registrare oggi un'epoca del sospetto, dopo anni di «progetti accoglienza», «sportelli benessere a scuola», «centri di informazione e consulenza». Troppo ascoltati gli studenti, troppo accondiscendenti gli insegnanti, troppo condizionati i voti dalla comprensione delle situazioni affettive, famigliari, psicologiche, sociali. C'è chi sulla battaglia contro la scuola dell'empatia ha costruito le sue fortune giornalistiche e narrative.
    Ma non si può fare l'educatore, e quindi l'insegnante, senza empatia. Si può fare il somministratore (di saperi) e il misuratore (di conoscenze), ma non l'insegnante.
    L'aula è un luogo di necessaria convivenza delle emozioni. Tutte entrano a scuola. Quelle proprie, quelle improprie e anche quelle sconvenienti. Capita che si sia contenti di aver ben capito o bene insegnato o bene interagito. Oppure si ha paura, di non riuscire, a spiegare o fare, o si desidera scappare, perché altri pensieri arrivano in sciame e la scuola non ci sta, proprio non ci sta. Né dentro la testa della bambina, né dentro quella del maestro. Capita che si arrivi disperati, perché il mondo fuori ci ha cacciati o minacciati, e allora si deve afferrare le parole una a una, e i nomi scappano, quelli degli studenti come quelli dei re merovingi. E non si può far altro che stare lì e tutto sentire. E se non si accetta che il Principe di Danimarca [1] della nostra classe abbia quel giorno altri pensieri e non possa proprio risolvere l'equazione perché semplicemente le emozioni gli prendono la vita, allora resta solo l'agire la nostra totale inettitudine umana e bocciare, espellere, mandar via chi «abbassa la media della classe», e quale classe vien da dire, la classe è quella che abbiamo davanti, non quella selezionata che immaginiamo ideale, come la vita è quella che abbiamo, fatta di bene e di male e di esaltazione e malinconia.
    Certo che è difficile. Da soli non si può vivere l'empatia senza rischi, perché non siamo professionisti delle emozioni, non siamo psicologi. Si può viverla condividendo quel che succede, creando una comunità di riflessione fra i professionisti dell'educazione che stanno nella scuola: insegnanti, assistenti educatori, psicologi degli sportelli di ascolto. Piccole comunità di riflessione che accolgono le emozioni.
    Quando un problema emerge in modo grave, la tentazione oggi è delegare la gestione delle emozioni dei ragazzi agli specialisti. C'è un «caso», e si chiama lo psicologo, ce ne sono due, e si chiama l'équipe, dove c'è ancora. E va certo bene così dove c'è l'eccezione e si intuisce che serve lo specialista. È che oggi le eccezioni arrivano in stormo nelle classi e allora si deve cercare un'altra strada, la condivisione del problema. Mettere in gioco la nostra comune umanità, che ci muove a sentire quel che i ragazzi sentono e bisogna riuscire a non essere sopraffatti, a non uscire dal ruolo, a ricordare che si è a scuola per insegnare e non per assistere. E questo è spesso difficile farlo da soli.

    E poi c'è la seduzione

    È una tentazione sedurre a scuola.
    Nelle aule come nella vita può capitare che le emozioni diventino bufera che travolge. Nella scuola di più, non solo perché ci si passa un mare di giorni e anni e i rapporti sono stretti stretti e le interazioni necessarie. Ma anche perché le aule sono affollate di portatori privilegiati di desideri. Da giovani il desiderio è moltitudine. Essere visti, riconosciuti come persona che vale, amati. Esistere.
    Ed è bene che le emozioni attraversino le ore di lezione. Non si trova teoria pedagogica a sostenere che 1' apprendimento e il rapporto educativo funzionino meglio in un contesto di gelo relazionale. Gli strumenti critici e le emozioni ci fanno sapere il nostro valore. E insieme viene la libertà. Di non farsi aggirare, di difenderci da soprusi sociali e personali, stereotipi, trappole che ci minacciano. Scuola sta con libertà, se il patto con l'adulto funziona.
    Davvero però il rapporto può tracimare in ogni momento, e la letteratura è piena di queste storie con finale a volte, chissà, letterariamente felice, più spesso incerto.
    La cronaca invece conosce soprattutto finali drammatici. Il patto stabilisce che nel contesto d'aula il confine dei ruoli sia tenuto dall'adulto, che conosce, e riconosce, anche in se stesso, il potere delle emozioni, e in virtù del suo essere adulto le sa governare, anche in se stesso. E gioca d'anticipo ogni momento, non comprime la distanza con lo studente, che non è distanza di valore, ma di ruolo e di maturità. Non si confonde con lui. Ci sono i confini. Colleghi insegnanti hanno deciso che un confine è non essere amici sui social network fino a che rimane il rapporto di scuola. Niente telefono diretto, niente sms, niente post o tweet. Altri stanno anche su questi confini. Ma conoscono l'arte della misura che non ammicca.
    E poi c'è il potere. Sia pure piccolo, corroso da una considerazione sociale in caduta libera e più ancora da una carsica crisi di indotta disistima, in aula il docente porta una forma di potere, quello di riconoscere lo studente oppure no, appunto, ed è il potere più forte, aiutato dal potere del voto, la promozione. Credito fra gli amici e in famiglia.
    L'unico potere d'aula buono è servizio alle persone che ci sono affidate. Lo è per legge e per deontologia professionale. E invece no. Può capitare che non sia così e diventi mezzo di seduzione, sopruso. Più facile se l'insegnante è bravo. Perché il seduttore ha sempre del buono in sé, altrimenti non sedurrebbe nessuno. Ha il buono di una passione. E quello del desiderio, come i ragazzi. Non coltivato in un sé adulto e appagato ma un desiderio malato di vita. Di tutte le vite. Bisogno di esistere attraverso le vite d'altri, possedute fino all'estremo confine.
    Queste cose non capitano nel deserto. C'è sempre un mondo di adulti «sani», ciechi, sordi e muti, intorno. Non tutti colpevoli d'omissione, no. Perché un genitore che trova un professore pieno di entusiasmo, generoso del suo tempo e del suo sapere, amato dai ragazzi, che vanno a scuola volentieri e sono felici, è contento, semplicemente. Certo che deve essere attento, e magari lo è, eppure non vede. Perché il seduttore seduce a trecentosessanta gradi, anche i genitori, e i ragazzi hanno il diritto di non capire la tempesta che li abita, e sono sgomenti e contenti nello stesso momento: un'attenzione malata è pur sempre un'attenzione, un insegnante sedotto è un frammento di onnipotenza nelle loro mani giovani. In un gioco di rovesciamenti che la psicoanalisi sa chiamare per nome e raccontare. Forse è per questo che i ragazzi a volte con ostinazione difendono il docente che esce dal suo ruolo fino all'offesa dei loro corpi e della loro libertà. Perché difendono il loro essere esistiti, assoluti, unici e importanti, per un attimo a volte lungo, perché condannare il seduttore vuol dire riconoscere che l'ingresso travolgente nell'età adulta, vissuto come un posto ricevuto e riconosciuto, non c'è stato. Vuol dire precipitare di nuovo nella paura di non valere.
    Però all' appello delle colpe qualcuno può ben essere chiamato. Tutti quelli che per convenienza, piaggeria, quieto vivere, ammiccante connivenza hanno taciuto. E quelli che sulla scuola non sorvegliano. Che affidano un compito straordinario a persone la cui inadeguatezza, o malattia, colpevolmente non sanno riconoscere.

    La vita altrove

    La vita è altrove? Meglio non chiederlo. Sì e sì, direbbero forse molti ragazzi. Sì, direbbero forse anche alcuni professori. La scuola nell'immaginario comune è «altro» dalla vita, una parentesi, un pegno da pagare per avere il diploma, per poter poi finalmente vivere. Ma non è così, per nulla. Perché la scuola non sopporta il chiamarsi fuori di nessuno perché non è lo spazio di un altrove estraneo alla sorprendente varietà della vita. Perché a scuola si trascorre un mare di vita. Perché a scuola si impara, oppure no, a convivere e si convive poi dappertutto, non solo in classe e non solo per il tempo di scuola. La scuola del bon ton d'aula e della vita altrove non ha senso alcuno oggi, perché la struttura del lavoro e quella della società hanno sbriciolato l'articolazione dell'esistenza da cui veniamo: un tempo giovane per lo studio e il progetto, un tempo adulto per il lavoro, un tempo per il riposo. In pensione non andrà nessuno, o sì, ma chissà quando e come, il rovesciamento della piramide demografica sembra dire questo. Ma soprattutto l'apprendere è oggi per tutta la vita, non c'è lavoro a cui basti la nostra conoscenza di scuola. E poi, e forse prima di tutto, a partire da noi adulti, e forse anche da molti dei ragazzi che vediamo a scuola e a casa, viviamo immersi in un presente che tiranneggia il nostro tempo e la nostra attenzione o distrazione.
    I giovani vedono il futuro come minaccia e non come promessa, ama ripetere Umberto Galimberti. E allora una scuola che si limita a «promettere» strumenti per il futuro, ma che per i ragazzi non è in sé bella e viva e interessante qui e ora, è una scuola destinata agli interstizi della loro vita, non tocca davvero i comportamenti, le convinzioni, le abitudini profonde. Alla fine è una scuola che non lascia il proprio segno nella loro formazione. Bisogna far sì che la vita sia (anche) a scuola... E che la scuola sia quel laboratorio di integrazione che addestra alla vita intera. «Non basta riconoscere e conservare diversità preesistenti, nella loro pura e semplice autonomia, si tratta, invece, di sostenere attivamente la loro interazione e la loro integrazione attraverso la conoscenza della propria e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere. Non basta convivere nella società, ma questa società bisogna crearla continuamente insieme».[2]

    Non si può dire

    Materiale umano. I ragazzi possono essere vivaci, appannati, proni, iperattivi, apatici, curiosi, saccenti, indifferenti, molesti, ignoranti e avanti e avanti. Materiali mai. Le metafore costruiscono la realtà e la sua qualità.
    Cliente. Lo studente non compra, riceve. Riceve qualcosa che non può avere se non lo conquista. Come la vita. La riceve. Ma poi funziona se le corrisponde, la costruisce, la patisce, la asseconda. La fa sua, diversa da come l'ha ricevuta.
    Stakeholders. Sta (ancora) ovunque nei report dei questionari di gradimento del servizio scolastico. La sintesi che racchiude (per dire «portatori di interesse»: genitori, studenti, docenti, personale collaboratore, tutti) le permette di sopravvivere anche al di fuori dell'ambiente aziendale in cui è nata. Ma è orribile.
    La classe sarebbe buona se non ci fossero Federico, Sufyen e Margherita. La classe è quella, tutti compresi, non un'altra. Come il mondo è questo. Sognare la parte che ci piacerebbe vuol dire non farsi carico di tutti, pensare che esista una legittimazione possibile all'esclusione di qualcuno, quelli che non ci fanno fare il programma. Ma il programma è quello che si può fare esattamente con le persone che ci vengono professionalmente e umanamente affidate.
    Stai attento! Tutti lo diciamo, ci scappa e pace. Ma è come dire «Devi essere interessato!», «Devi amare quella persona». I ragazzi stanno attenti se quel che stanno facendo li prende più del loro sognarsi altrove. Il resto è ritualità d'aula.
    È un caso senza speranza. Certo, il professore che lo dice. Cambiare mestiere prego.

    Si può dire, si deve

    Hai fatto uno splendido lavoro! Quanti progressi! Ci siamo proprio. Certo che puoi riuscire.
    Senza che sia una bugia, capita di poterlo dire a una bambina o a un ragazzo che ci sorprende. Se ci ha fatto morire di sfide e delusioni, non è facile dirlo. Può arrivarci un po' strozzata questa frase, con dentro ancora la violenza umanissima con cui avremmo voluto strozzare l'arroganza o la sciatteria da cui siamo stati investiti giorno dopo giorno in aula o lungo i corridoi. Un sussurrare volutamente troppo alto, che ci colpiva pieno di punte.
    Si possono dire, queste frasi, anche prima che uno studente ci sorprenda, come atto di fiducia verso un possibile che noi adulti siamo tenuti a riconoscere.
    Bisogna essere liberati dal rancore e anche dalla delusione, sfiducia, impotenza, per poter pronunciare limpidamente parole così.
    Bisogna essere adulti.

    (Mariapia Veladiano, Parole di scuola, Erikson 2014, passim)


    NOTE

    [1] Insegnare al Principe di Danimarca è il titolo di un libro splendido di Carla Melazzini (Palermo, Sellerio, 2011) in cui si raccontano undici anni di Progetto Chance, un'esperienza nata a Napoli nel 1998 dalla realtà dei «maestri di strada», la cui voce più nota è quella di Marco Rossi Doria, e rivolta a adolescenti con una storia di dispersione scolastica e di disagio sociale. Il «Principe di Danimarca» è il ragazzo che arriva in classe carico di una vita personale e sociale così drammatica che, come a un Amleto dei nostri giorni, è impensabile chiedergli, nello stesso modo con cui Io si chiede agli altri ragazzi, di studiare la letteratura e la matematica. Non può farlo. Ma noi non possiamo permettere che sia espulso dalla scuola. E qui comincia il nostro lavoro.
    [2] Dal Regolamento per la definizione dei piani di studio provinciali del primo ciclo del Trentino.


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