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    La scoperta della scuola

    Massimo Recalcati


    L
    a riapertura della scuola non poteva avvenire in modo più contraddittorio e caotico. La stanchezza e lo sconforto di molti insegnanti, studenti e famiglie hanno spinto il governo a questa decisione la quale però resta non solo disattesa in alcune Regioni, ma non smette di suscitare reazioni divergenti.

    Resta il fatto che nel tempo della seconda ondata della pandemia la didattica a distanza ha mostrato irrimediabilmente i suoi limiti e gli studenti protestano invocando il loro diritto allo studio violato dall’emergenza sanitaria. Più in generale il ripristino della comunità viva della scuola è avvertito da tutti come una priorità.
    Inutile ribadire che l’attuale chiusura delle scuole si scarica in particolare sulle famiglie con meno risorse economiche e socialmente più svantaggiate. Tutto questo è vero, legittimo, incontestabile. Ma quale è il compito di chi si vuole prendere seriamente carico della responsabilità che comporta il discorso educativo? Non esiste forse un’altra evidenza altrettanto inaggirabile di quella che esige la riapertura della scuola?
    La circolazione del virus miete ancora troppe vittime, le misure sanitarie adottate sino ad ora non si sono mostrate in grado di frenarne significativamente la corsa. È probabile per molti scienziati che se non attiveremo un altro lockdown ci troveremo ben presto nella situazione drammatica in cui si trova oggi l’Inghilterra. Si capisce allora che in una tale situazione le legittime rivendicazioni della riapertura della scuola non possano non suscitare forti preoccupazioni.
    Compito del discorso educativo non è mai quello di perseguire illusioni, ma quello di tenere conto del reale soprattutto quando esso appare nel suo volto più ostile.
    La strada di ogni processo formativo non è mai spianata, ma è fatta di imprevisti, cadute, accidenti.
    Il Covid accentua eccezionalmente una regola: si dà formazione solo se si conosce l’esperienza dell’ostacolo, dello smarrimento, dell’angoscia. Non c’è effetto di formazione che non abbia come suo presupposto l’incontro con il carattere inemendabile del reale.
    Ora, il nostro reale, quello di questo terribile anno, è contrassegnato dall’emergenza sanitaria. Non si può negare — come fanno ostinatamente alcuni — questo tremendo dato di fatto. Si tratta piuttosto di provare a modificare il nostro punto di vista: davvero la presenza del Covid è solo qualcosa che ostacola la trasmissione didattica del sapere e i processi di apprendimento?
    Siamo tutti prigionieri di questa evidenza.
    E se invece provassimo a considerare il trauma del Covid non tanto come ciò che oggettivamente ha imposto la chiusura della scuola, ma come ciò che ha reso possibile la sua apertura permanente? Non è infatti quello del Covid un tremendo magistero per i nostri figli, di gran lunga superiore a quello che può essere impartito loro nelle aule della scuola?
    Non dovremmo provare a pensare che questo tempo non è affatto tempo perso, tempo di arresto dell’attività didattica, ma un tempo dove la scuola continua ad operare sebbene in forma nuova. Davvero i nostri figli non stanno imparando nulla da questa lezione?
    Molti insegnanti compiono già questo difficile lavoro: provare a vedere nel trauma del Covid non tanto l’accidente che impedisce l’attività didattica, ma ciò che la sprona. Non è questo da sempre il grande compito della scuola? Opporre, come direbbe Pasolini, il desiderio di vita al desiderio di morte.
    In gioco non è solo la salvaguardia dell’attività didattica dalla presenza ostile del Covid, ma l’implicazione di questo trauma collettivo nella didattica.
    Nel mondo ideale tutto è possibile, ma nel mondo reale siamo costretti a fare esperienza dell’impossibile. Gli insegnanti che si sono sperimentati in questo anno nel lavoro con la Dad hanno dato prova di tenere conto dell’impossibile nel processo di formazione non arretrando sul loro desiderio di insegnare ma adeguandolo alle asperità imposte dal reale. Essi sanno bene come nel loro lavoro quotidiano non si tratta solo di trasmettere delle nozioni ma di dare innanzitutto prova di una resistenza attiva al potere della distruzione e della morte, testimoniando che la cultura non arretra di fronte al male anche quando esso ha la forma impalpabile di un virus.

    (La Repubblica - 19 gennaio 2021)


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